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Marino, il marinismo e il candore del totalitarismo scientista

di Francesco Lamendola - 07/07/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 

 


 

Abortista, pro eutanasia, pro matrimoni omosessuali, pro adozioni di bambini da parte di coppie omosessuali: Ignazio Marino aveva, e ha, tutte le caratteristiche del “progressista” di ampie vedute e, come si dice, proiettato verso il futuro.

Possiede anche, naturalmente, tutte le caratteristiche – lui, che si è formato negli ambienti cattolici romani, ha studiato medicina all’Università Cattolica e ha mosso i primi passi nella carriera medica al Policlinico «Gemelli», prima di sbarcare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti - per piacere ai cattolici che un tempo si dicevano, con una abbondante vena di narcisismo, “del dissenso”, mentre adesso, avendo conquistato le posizioni-chiave sia nella Chiesa, sia nei media e nella stessa stampa cattolica, possono prendersi il lusso di chiamarsi “cattolici” e basta. Anche se il loro cattolicesimo è talmente venato di modernismo, relativismo e cripto-protestantesimo, che francamente non si capisce – o si capisce anche troppo bene – perché ci tengano così tanto a non  rompere anche formalmente con la tradizione e a mettere le carte intavola, dicendo a un miliardo e duecento milioni di cattolici, sulla scia di Hans Küng e di altri “teologi” simili a lui: «Ragazzi, abbiamo scherzato; non c’è niente di certo, né Dio, né la Trinità, né il Peccato originale, né Gesù Cristo, né la Resurrezione, né la Redenzione, né la Grazia, né la vita che verrà, e tanto meno l’Inferno e il Paradiso: perciò, d’ora in poi, ciascuno la pensi pure a suo modo, va bene tutto e anche il contrario di tutto; nessuno ha il diritto di essere troppo dogmatico su cose che non si possono verificare di persona».

Il Marino-pensiero è ormai affidato ad un “corpus” letterario piuttosto consistente: si tratta di cinque libri («Credere e curare», 2005; «Sistema salute», 2007; «Idee per diventare chirurgo dei trapianti», 2008; «Nelle tue mani», 2009; «Credere e conoscere», 2012 (quest’ultimo realizzato a quattro mani con l’Antipapa “rosso”, Carlo Maria Martini).

Ne estrapoliamo una pagina significativa, tratta dalla sua terza fatica, dal titolo di sapore quasi evangelico: «Nelle tue mani», edita – come già la prima - dalla Casa editrice Einaudi di Torino (la quale, per chi non lo sapesse, non è più la storica casa filo-comunista di un tempo, ma, nel 1994, è stata acquisita dalla Mondadori, che, a sua volta, è controllata dalla Fininvest (eppure, non ci dicono e ci ripetono che il Pd è antitetico a Forza Italia e incompatibile con Berlusconi, e viceversa? Come mai questi signori, invece, collaborano così intensamente e disinvoltamente, mentre si danno l’aria di essere acerrimi nemici, al momento in cui devono chiedere il voto degli elettori?), e nella quale il tono pensoso, a volte quasi pessimistico, si accompagna ad un intimismo da confessione alla Rousseau (pp. 219-221):

 

«Conduciamo la nostra esistenza in un mondo dove forze diverse si muovono solo parzialmente consapevoli le une delle altre. Come i continenti, che milioni di anni fa migrarono e diedero forma alla terra come la conosciamo oggi, le condizioni di vita e in particolare la salute dei paesi industrializzati e quella dei paesi a miniore indie di industrializzazione, si muovono all’interno del terzo millennio e in un modo o nell’altro si dovranno incontrare. Da un lato del mondo si possono spendere milioni di euro per curare una singola persona e tentare di guarire pochissimi privilegiati, dall’altro lato del pianeta non si riescono a organizzare e a finanziare adeguatamente programmi di vaccinazione di massa o servizi di assistenza al parto che potrebbero salvare milioni di vite. Dobbiamo tutti iniziare a chiederci se sia accettabile, se sia eticamente corretto nell’ottica globale in cui siamo immersi, che il 60 per cento delle risorse destinate alla sanità nei paesi occidentali siano investite per pagare le terapie degli ultimi sei mesi di vita di una persona.

Il progresso scientifico non può essere di per sé sufficiente per farci sperare in un futuro sereno. La fiducia nella scienza e la prospettiva di individuare terapie sempre più efficaci per garantire la nostra salute non possono bastare se interi continenti vengono esclusi dal cammino che porta ad un miglioramento delle condizioni di vita. Se non impareremo a ragionare in un’ottica di vasi comunicanti, il progresso porterà inevitabilmente con sé un divario sempre più ampio tra il Nord e il Sud del mondo, ma anche tra chi è ricco e chi non lo è all’interno di uno stesso paese, tra i privilegiati e gli ultimi della terra. E dal divario nasceranno divisioni ancora più profonde, si alimenteranno incomprensioni, sfiducia, tensioni, violenze.

Quattro principi devono affiancare il progresso scientifico e tecnologico: equità, conoscenza, diritti e garanzia della salute. Quest’ultima è strettamente legata ai primi tre. Non si possono lasciare gli uomini nella povertà, nell’ignoranza e nell’oppressione: è evidente che eliminandole gran parte delle piaghe che affliggono le aree più ricche come quelle più povere del pianeta cesserebbero di espandersi. Solo attraverso la coesistenza di questi principi gli universi e le culture che oggi vivono parallelamente, ma si conoscono sempre di più, potranno non temersi.  Affinché l’incontro di questi mondi avvenga  con un accostarsi dolce e non con una scossa di violenza inaudita, il compito di chi ha accesso alla conoscenza è centrale. E fra costoro è proprio il medico che deve imparare  a riconoscere  e a far valere sino in fondo il suo ruolo di intellettuale, diverso dall’intellettuale più tradizionale, il letterato, il filosofo, l’artista. Come in qualche modo fece notare già Antonio Gramsci nei ”Quaderni dal carcere”, modernamente è la formazione tecnica a creare la base del nuovo tipo di intellettuale, il quale deve giungere “dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente”. Siamo diventati specialisti straorinari ma non siamo ancora capaci di imprimere ai cambiamenti in corso quella direzione che dovrebbe essere propria del mestiere del medico: l’unione di umanità e tecnica, di compassione ed esperienza, di solidarietà e ambizione scientifica. Inoltre, la sanità moderna è inevitabilmente influenzata dall’economia, dalle scelte politiche, dal mercato, ma non può prescindere dall’organizzazione che solo i medici possono disegnare, e quindi essi non devono più chiudersi né reprimere  le proprie convinzioni. Ma piuttosto liberarle, universalizzando i propri depositi creativi e mettendoli a disposizione, se necessario gridandone la centralità.»

 

Quel che si capisce da tutto questo discorso, nonostante il tono dialogante e pacato, quasi sommesso e, a tratti, perfino mellifluo, è che l’Autore, sorretto da un credo scientista a tutta prova, vorrebbe che ai medici, qualificati nuovi intellettuali del terzo millennio (parola di… Antonio Gramsci: un intellettuale del quale, a sua volta, più nessuno si ricorda, se non gli storici del marxismo), venissero conferiti maggiori poteri, visto che essi soli possiedono la chiave per instaurare un ordine sanitario e morale più giusto a livello planetario.

Profondendosi in autoincensamenti, Marino sostiene che i medici come lui sono diventato degli “specialisti straordinari”, manca loro però ancora una cosa: quella di diventare “dirigenti” a tutti gli effetti, ossia di prendere in mano le grandi decisioni sul futuro dell’umanità. Solo i medici, infatti – sono parole sue – possiedono il segreto dell’organizzazione mondiale, e loro soltanto possono rivendicare la centralità del loro sapere; che non deve essere, si  badi, un sapere puramente tecnico, ma intriso di “umanità e compassione”: ma sempre, si capisce, a loro discrezione. In altre parole, il medico-scienziato-dirigente sa quello di cui il mondo intero ha bisogno, ed è lui che dovrà provvedere, a suo insindacabile giudizio; i “vecchi” intellettuali, ossia il letterato ed il filosofo, hanno fatto il loro tempo.

E quali saranno le prossime decisioni che questo nuovo supermanager della sanità dovrà prendere, lo si evince da un accenno, neanche troppo velato, dello stesso Autore. Egli insinua che le società occidentali stanno consumando un vero spreco sanitario, destinando il sessanta per cento delle loro risorse per curare i malati negli ultimi sei mesi di vita, e lascia intravedere la necessità di operare un energico taglio nei confronti di simili spese “superflue”. Strano che a fare un tale discorso sia un chirurgo che ha costruito la propria celebrità con i primi due trapianti di fegato al mondo, da babbuino ad un essere umano (nel 1992 e 1993), che sono serviti a tenere in vita i due pazienti rispettivamente per 70 e per 26 giorni; salvo poi arrivare alla conclusione che quella era una strada sbagliata, perché il sistema immunitario del babbuino non è compatibile con quello dell’uomo. Ad ogni modo, se dovesse passare il principio che la sanità pubblica deve investire i suoi soldi non a beneficio dei malati più bisognosi, ma a beneficio del maggior numero di persone possibile – principio che, in verità, sta già entrando silenziosamente nella prassi degli ospedali e delle strutture sanitarie statali – non si capisce bene come si potrebbe conciliare con l’umanità e la compassione delle quali la nuova figura di medico-scienziato sarebbe, a dire di Marino, depositaria. È chiaro, infatti, che, ai malati più gravi, o alle loro famiglie, verrebbe proposta, ad un certo punto, l’alternativa: o farsi interamente carico delle spese ospedaliere, oppure vedersi staccare la spina delle costose apparecchiature.

Ora, se qualcuno osservasse che la società futura delineata da Ignazio Marino somiglia molto, forse troppo, alla Città del Sole di fra Tommaso Campanella, con la sola differenza che là comandavano i preti e qui comanderebbero i medici, e che, insomma, essa sembra delineare una vera e propria dittatura dei medici-scienziati-dirigenti, probabilmente gli verrebbe risposto che è giusto e naturale che a decidere le scelte future siano «coloro che hanno accesso alla conoscenza». E se si insistesse a chiedere in che senso si debba intendere una tale affermazione, e di quale conoscenza si parli, Marino e i marinisti risponderebbero, a quanto par di capire: «ma del sapere scientifico, naturalmente: costruito e interpretato dagli scienziati stessi, e da nessuno al di fuori o al di sopra di loro». Insomma, un totalitarismo scientista da far impallidire perfino un filosofo positivista, ma intelligentemente critico, quale era Karl Popper. Evidentemente, per sostenere la necessità di un mondo diretto dalla nuova casta degli “intellettuali” di estrazione medico-scientifica, bisogna possedere una così grande dose di fiducia incondizionata verso di essi, da non arrivare nemmeno a concepire possibili obiezioni (ed è piuttosto imbarazzante che a fare questa apologia del potere medico sia proprio un medico). Saranno ammesse, tutt’al più, eventuali obiezioni provenienti dall’interno stesso della casta di medici-scienziati-sacerdoti, padroni della vita e della morte: provvisti, sì, di umana compassione verso i pazienti, ma anche estremamente attenti alle esigenze di bilancio, proprio come i dirigenti di una qualsiasi azienda che deve dare dei profitti, altrimenti bisognerà chiuderla.

È una prospettiva inquietante. Gira e rigira, qui siamo in  presenza di un triplice fondamentalismo: quello di origine positivista, secondo il quale solo lo scienziato sa quello che è vero, quello che è giusto, quello che è buono; quello di origine cristiana, secondo il quale la “giustizia” distributiva viene prima di qualsiasi altra considerazione, perché bisogna fare il bene non dei singoli uomini, ma “dell’umanità”, intesa come la maggioranza degli individui; e quello di origine marxista, secondo il quale tutta la terra è di tutti gli uomini, ma a decidere come utilizzarla sarà, per forza di cose, la stirpe degli “eletti”, beninteso a nome e per conto di tutti gli altri, che essi lo approvino o no. Solo che qui la “dittatura dei sapienti” non sarà temporanea, come la marxiana dittatura del proletariato; non sarà una fase transitoria, sulla via del mondo redento e rigenerato: ma sarà totale, definitiva e inappellabile. E possiamo facilmente immaginare come verranno trattati coloro i quali oseranno mostrare perplessità in proposito.

Del resto, Marino non ha alcun dubbio sulla bontà intrinseca di quello che chiama «il progresso scientifico e tecnologico»: incredibile a dirsi, non prende nemmeno in considerazione le possibili obiezioni al modello sviluppista, fondato su scienza e tecnologia; per lui, esso coincide, puramente e semplicemente, con il principio di realtà, Non esiste altro, all’infuori di un progresso fondato sulla scienza e sulla tecnologia; e non spreca nemmeno una riga per interrogarsi sui poteri effettivi – finanziari in primo luogo – che lo tengono, oggi, fermamente in pugno, e lo dirigono a loro piacere. A sentire lui, basterà affiancare alla scienza e alla tecnica i quattro principi” dell’equità, della conoscenza, dei diritti (quali?) e della garanzia della salute (a giudizio di chi?), e tutto andrà bene…