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Il "legno verde". Andrea Sciffo e la ricerca di un radicamento

di Andrea Pozzoli - 07/07/2015

Fonte: Arianna editrice


 


Il Legno verde di Andrea Sciffo è un’opera parzialmente pubblicata online sulla rivista aperiodica fiorentina Il Covile.

La sua poesia è affidata alla fictio di un autore italo-tedesco, Otto Acht, emblematico già dal nome, ricavato dalla giustapposizione del numero otto in italiano e in tedesco, concepito da Sciffo come “qualcuno dietro a cui ripararsi e a cui affidare quanto di più importante abbia da dire”[1]. 

Non si tratta, però, di un semplice canzoniere, di una raccolta poetica, ma di un prosimetro, non in quanto mera giustapposizione di prosa e poesia legate da parallelismi e rimandi, ma nel senso più profondo di una prosa propedeutica ed esplicativa della poesia, di cui fornisce il background contenutistico e la chiave interpretativa.

Il titolo è molto concreto e non si limita a proporre un’astratta e poetica metafora arborea, scontata nel suo banale riferirsi al parallelo delineabile tra la vita dell’uomo e la vita di un albero, remota eredità raccolta dall’immaginario poetico di tutti i tempi; piuttosto il “legno verde” va considerato come oggettivazione di una sintesi di esperienze e suggestioni intellettuali, poetiche e spirituali che la caricano di un valore certamente simbolico ma anche e soprattutto – nel senso più forte, ovvero quello etimologico – reale, attuale ed effettivo, un valore analogo a quello che popoli antichi tributavano ad una runa, non considerata mero segno grafico, ma sorgente magica di divina sapienza.

 

In un’intervista del 2013 per una tesi di laurea dal titolo “Andrea Sciffo. Scrittore del radicamento”, il poeta spiegò come concepisse la propria poesia e lo fece in termini molto simili a questi:

 

E’ come un geroglifico che va interpretato, come una incisione su pietra che dopo centinaia di anni può essere decriptata o no, come un bozzolo che va sfilato, una noce che va spezzata, una forma che fu forgiata nel passato e che avrà un qualche ruolo in futuro.

 

Un’immagine, quella del geroglifico, assimilata da Sciffo dal saggio emersoniano Nature, del 1836, nel quale si ricava un’idea dell’opera artistica o poetica come condensato misterioso e inesauribile di tutte le domande che hanno origine nell’uomo:

 

È indubbio che non abbiamo domande da porre che non possano avere una risposta. Dobbiamo confidare nella perfezione del creato tanto da credere che qualunque curiosità l’ordine delle cose abbia destato nelle nostre menti quello stesso ordine possa soddisfare. La condizione di ciascun uomo è la soluzione in forma di geroglifico a tutti gli interrogativi che egli intenda sollevare. Tale soluzione l’uomo la pratica come vita, prima di apprenderla come verità .

(Nature, 1836, R.W. Emerson)

 

L’idea della soluzione alle domande sollevate dall’uomo nella forma di un geroglifico di inesauribile profondità semantica e spirituale rende evidente, da un lato, il substrato da cui le radici della poetica sciffiana traggono parte della propria linfa, l’ineludibile Dante e il Pound dei Cantos; dall’altro, comprova quanto detto riguardo all’oggettività dell’immagine sintetica del Legno verde, non simbolo vano, ma segno dal valore reale, attuale ed effettivo, perché – come afferma in chiusura Emerson – “Tale soluzione l’uomo la pratica come vita, prima di apprenderla come verità”.

In ottemperanza, dunque, all’antico principio del Primum vivere deinde philosophari (prima vivi e poi filosofa), la poesia di Andrea Sciffo dimostra quanto si possa trovare in lui il riflesso della riflessione di Søren Kierkegaard interna alla polemica contro il seme di drago dell’hegelismo, la cui pretesa che nulla debba precedere la riflessione teoretica ha certamente strabiliato il mondo, ma è assurda, perché è in definitiva una fuga nella concettualità astratta, con la quale la vita non ha nulla a che fare.

Se la vita, che è esperienza della realtà, non fornisce materia alla teoria, allora la filosofia non è vera filosofia e il filosofo non è vero filosofo.

Kierkegaard ne uscì con una distinzione, quella tra professores e confessores.

Se, da una parte, il professor, da profiteor (dichiarare, insegnare), si profila come colui che è inflessibile nella teoria, ma flessibile, infinitamente declinabile nella vita pratica, anche – e spesso – nello specifico delle scelte morali, dall’altra, il confessor, da confiteor che ha tra i suoi significati “dichiarare”, “ammettere”, ma anche “manifestare”, “rivelare”, “mostrare”, si identifica con lo spirito dei cristiani della prima ora, i quali vivevano le proprie idee, le confessavano e vi confidavano fino al martirio: abitavano le proprie idee, delle quali, in perfetta unità, la loro vita era sostanza.

 

Il Legno verde è, dunque, un titolo che si pone come segno visibile dell’atteggiamento cristiano di Sciffo nei confronti della vita e quindi della poesia. Non a caso, l’espressione deriva proprio dal Vangelo di Luca 23, 27-31:

 

Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: ‘‘Cadete su di noi!’’, e alle colline: ‘‘Copriteci!”. Perché se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?».

 

L’indirizzo del Legno verde è quindi chiaro: come si legge nella terza parte dell’opera, intitolata L’abbeveratoio, esso consiste nel ritrovare nella modernità sradicata il legno verde “da intagliare con scalpelli e ceselli e finissima cartavetro”[2] e che i “grandi ricostruttori”[3] stanno già lavorando “a mani nude, con attrezzi rudimentali”[4].

 

Il desiderio di ritrovare nella modernità sradicata il “legno verde” apre una finestra di riflessione amplissima, impossibile da esaurire e difficile anche solo da delineare.

Senza, dunque, la pretesa di un’esaustiva critica antimoderna, se come elementi del contemporaneo sradicamento si possono identificare l’abolizione del tradizionale ordine valoriale cristiano, la recisione dei legami con qualsivoglia tradizione, lo smarrimento filosofico contemporaneo, il tralignamento della vita a Ersatz (surrogato), l’indifferenza reciproca, il consolidamento di un nichilismo gaio, come ebbe a definirlo Augusto del Noce, perché privo dell’irrequietezza tutta umana del cor agostiniano e molte altre espressioni della modernità riconducibili alla piaga dello sradicamento, si potrebbe, per contro, definire il radicamento per mera opposizione, per contrasto. Simone Weil, tuttavia, ammonisce che il radicamento non soltanto è “il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima”[5], ma è anche uno “tra i più difficili da definire”[6]; inoltre, se davvero la riflessione antimoderna si limitasse a scandagliare la modernità tramite carotaggi – per quanto profondi ed arguti – nei suoi strati culturali, filosofici, letterari, estetici, morali e spirituali al solo scopo di rilevarne e denunciarne il pandemico sradicamento, essa non produrrebbe alcunché che possa essere terreno fertile per un’infiorescente rinascita: il pensatore antimoderno non sarebbe un uomo del radicamento, ma un polemista, un insoddisfatto spinto dall’astio e dalla frustrazione.

 

E’, dunque, necessario, in primo luogo definire per cautela che cosa il radicamento non sia attraverso il confronto con un filosofo e saggista d’oltralpe, il franco-bulgaro Tzvetan Todorov, scettico e polemico nei confronti della nozione stessa di radicamento:

L’identità instabile delle culture non deve indurci a rinunciare alla nozione stessa di cultura, come hanno fatto alcuni antropologi che faticano a immaginare un’entità il cui contenuto evolve costantemente. Le culture sono in costante trasformazione […]. Si può riconoscere la necessità di parlare delle culture senza cadere negli ostacoli del “culturalismo”, o deduzione di tutti i tratti dell’individuo a partire dalla sua appartenenza culturale, come faceva il razzismo.

Tenendo ben presenti questi due aspetti della cultura, la sua pluralità e la sua variabilità, si capisce come siano svianti le metafore più comunemente utilizzate nei suoi confronti. Per esempio, si dice di un essere umano che è “sradicato” e lo si compiange; ma questa assimilazione degli uomini alle piante è illegittima, perché l’uomo non è mai il prodotto di una sola cultura e poi il mondo animale si distingue dal mondo vegetale proprio per la sua mobilità. Le culture non hanno essenza, né “anima”, malgrado le belle pagine scritte a questo proposito. […] ciò che cambia a causa di circostanze sulle quali l’individuo non ha alcuna possibilità di intervenire è percepito come un degrado, perché indebolisce la nostra sensazione di esistere[7].

 

Malgrado la distanza e la diversità di prospettiva filosofica e culturale nei confronti dell’intellettuale franco-bulgaro, Andrea Sciffo fa paradossalmente propria l’affermazione di Todorov, perché la sua nozione di radicamento non ha un carattere meramente identitario, divenendo quindi “cultura del suolo, dei leghismi, dei nazionalismi”[8], che gli sono del tutto estranei e odiosi, “così come non deve confondersi con quella di un radicamento inteso come statico e non dinamico”[9].

Il radicamento così come viene inteso da Sciffo considera e accetta il processo della globalizzazione che porterà le società e le culture ad un melting pot multietnico e multiculturale[10], ma trova il proprio correlativo oggettivo nell’immagine archetipica dell’albero capovolto, “le cui radici sono verso l’alto, dunque nell’invisibile e in ciò che Todorov riconosce come qualcosa che sfugge al controllo dell’individuo”[11] e che Sciffo, diversamente e più profondamente, individua in una realtà ultraterrena. 

Quindi lo scrittore monzese concorda con Todorov, poiché il radicamento di cui parla “non è quello dei nazionalismi, degli sciovinismi, dei culturalismi, degli integrismi o dei campanilismi; è, piuttosto, una possibilità che è data”[12].

Dunque, la concezione sciffiana di radicamento non scade in una antropomorfizzazione della cultura, come direbbe Todorov, quanto piuttosto nella “necessità che la persona si metta faccia a faccia con qualcosa di abissale, una necessità oggettivata nella metafora delle radici buttate verso il cielo. Sarà anche un topos letterario ormai frusto”[13], ma lo sguardo al cielo come luogo di radicamento è un gesto che il poeta monzese sente come proprio: del resto, “Siamo / cielo che cielo torna ad essere” (poesia Il volo, Per voce e paesaggio).

Lo scrittore monzese può, dunque, riconoscersi a buon titolo nelle parole di Ralph Waldo Emerson, del cui saggio Nature del 1836 sottoscriverebbe ogni parola: “Come una pianta sulla terra, così l’uomo poggia sul petto di Dio: si abbevera a fonti inestinguibili, attingendovi, secondo le sue necessità, una forza inesauribile”[14].

Andrea Sciffo acquisì questo senso di appartenenza ad un supra e ad un prius, che l’uomo non può che identificare nel cielo sopra di noi, dalla lettura giovanile della Historia ecclesiastica gentis anglorum di Beda il Venerabile (672 ca. – 735), nella quale il santo racconta come il re Edwin di Northumbria abbia meditato e infine abbracciato la conversione al cristianesimo in occasione del proprio matrimonio nel 625 con la figlia di Edilburga re del Kent, la quale giunse accompagnata dal santo vescovo Paolino, convenuto per celebrare il matrimonio e predicare il Vangelo:

A questo saggio consiglio aderì subito un altro dei maggiorenti del re, che disse: «Questa vita degli uomini sulla terra, mio sovrano, in confronto a tutto il tempo che è per noi sconosciuto, mi sembra simile a quando, durante l’inverno, tu siedi a cena con i tuoi guerrieri e i tuoi ministri, in una sala calda per il gran fuoco che vi arde nel centro, mentre fuori ovunque infuria una bufera di pioggia e di neve. Un passero attraversa con rapido volo la sala, entrando da una porta e subito uscendo dall’altra; nell’attimo in cui rimane dentro non è colpito  dalla burrasca invernale, ma trascorso quel brevissimo momento di quiete subito sfugge al tuo sguardo e ritorna al gelo dal quale è venuto. Così pure la vita dell’uomo è visibile, ma per un solo momento; di ciò che è prima e dopo quest’attimo nulla sappiamo. E dunque se questa nuova religione ci dà una certezza, mi sembra giusto seguirla»[15].

 

La metafora riportata dal santo e dottore della Chiesa ben si presta, dunque, a rappresentare ciò che nella fede cristiana e nell’immaginario poetico sciffiano costituisce il destino dell’uomo: la provenienza e la destinazione, l’origine e la meta nel Regno dei Cieli, in cui alfa e omega si incontrano.

Il radicamento sciffiano è dunque di segno opposto a quello prospettato e messo in discussione da Todorov, poiché la sua tropé, la sua direzione è verso l’alto, verso le realtà perenni, non verso le cose dell’uomo, caduche, finite e mutevoli.

 

In questa ricerca di un radicamento, Sciffo ha trovato guida e conforto in un autore la cui opera “cambia di segno un’epoca”[16], John Roland Reuel Tolkien e il suo Il Signore degli anelli, il cui

“costante e tardivo trionfo attesta […] che esiste una natura umana la quale ha i suoi diritti inalienabili, come la sensazione di camminare spensierati sull’erba fresca attraverso un prato al tramonto. O il conforto degli amici vicini mentre il vento batte sul viso e la strada porta a un bivacco in cima a un colle. O il senso di protezione offerto dai grandi rami nel folto di un bosco, mentre in colonna si segue un sentiero mai battuto. O il ristoro del cibo abbondante, del calore, dei canti attorno a una tavolata dentro a un rifugio, a sera, per riposarsi della fatica. Questi sono i primi, grati articoli che vincolano il lettore ai principii non scritti della storia de Il Signore degli anelli[17]

e fanno “appello al rapporto primigenio di ognuno con l’essere al mondo”[18].

Ciò che io so della Scienza divina e delle Sacre Scritture l'ho imparato nei boschi e nei campi. I miei maestri sono stati i faggi e le querce, non ne ho avuti altri. Tu imparerai più nei boschi che nei libri. Alberi e pietre ti insegneranno più di quanto tu possa acquisire dalla bocca di un maestro[19].  

 

Ricordando l’epistola CVI di S. Bernardo di Chiaravalle a Enrico Murdoch, Andrea Sciffo dimostra di aver assimilato a fondo la lezione tolkeniana, poiché la riscoperta del “rapporto primigenio di ognuno con l’essere al mondo”[20] non può che passare – come ne Il Signore degli anelli – attraverso la riscoperta degli arcani legami che l’uomo riscopre con la Natura, con la propria terra, con le abitudini e i costumi genuini e vecchi di secoli, nei quali ci si può identificare, nei quali si può trovare un rifugio sicuro, ma che “lì, cioè qui”[21] – nella metafora del romanzo tolkeniano come nella realtà, sono avversati dall’idolo del potere, della sottomissione, della meccanizzazione, della desertificazione e della distruzione: potenze oscure che minacciano tutta la Terra di Mezzo e la quieta e spensierata Contea degli hobbit.

Il primo numero del Legno verde (Quattordici poesie da “Legno Verde” seguite da “Vita e opere di Otto Acht”) rivela immediatamente questa vocazione tolkeniana, poiché per Tolkien “l’uomo è legittimato alla sua dignità perché completa, imitandolo in proporzione, il lavoro del Creatore; così, raccontare favole, miti, inventare storie, luoghi e personaggi è ciò che conferisce dignità all’uomo”[22]; infatti, dopo le prime quattordici poesie, Sciffo presenta Vita e opere di Otto Acht[23], personaggio fittizio a cui l’autore presta la propria voce o alla cui voce egli si affida.

Attraverso l’alter ego italo-svevo l’autore monzese conduce una riflessione su ciò che “manca all’uomo urbano”[24], su ciò che sta perdendo o ha già perso, ma che può essere recuperato; Otto è quindi uno di quegli “inquieti amanti della vita” che ricorda “l’antica verità «non è sempre stato così, non sarà sempre così» e nel sottobosco del proprio tempo contribuisce a tessere la tela, persino quando le vittime dello sradicamento (scienziati, tecnocrati, uomini normali, ribelli, integralisti e laicisti) fanno il loro gioco sino in fondo, cioè devastano il Creato in nome di una giustificazione”[25].

È, tuttavia, nel “folto canzoniere intitolato Grunes Holz[26], Legno verde, che il poeta tedesco e il poeta monzese si fanno carico di questo compito in modo esplicito e compiuto, un canzoniere da cui Sciffo trasceglie – o, meglio, di cui compone – di volta in volta quattordici poesie. Nella finzione della citazione, egli dichiara di riproporre semplicemente quelle poesie che Otto Acht ha scritto direttamente in italiano, mentre altre costituiscono suoi rifacimenti dall’originale tedesco: “[…] mi sono comportato come un musicista che prende un Traditional, una ballata di pubblico dominio, e la riarrangia”[27], motivo per cui Otto ricorre a volte come “soggetto o voce o citazione in molti versi”[28].

Il Legno verde – spiega Sciffo – si sostanzia in un’azione: “il poeta, vivendo, coniuga in tutte le sue flessioni la voce del verbo Vernacolare, proprio in senso letterale di io vernacolo, tu vernacoli, egli vernacola… etcetera. Cioè inventa una maniera nuova di vivere nel presente: si abbandona agli incontri casuali con gli altri, perde tempo, fugge da qualunque specialismo, non fa progetti, vegeta a breve raggio, cerca di servire”[29]. L’opera, con “quei suoi tanti sonetti illuminati da una linfa interna”[30], rappresenta dunque il tentativo di Otto-Andrea di incarnare il motto chi è radicato, radica, che completa il detto di Simone Weil nel suo L’enracinement del 1943: “chi è sradicato, sradica. Chi è radicato non sradica”[31].

Nelle opere di Otto Acht è presente gran parte delle cose “che ispirano la gratitudine di essere vivi”[32]: “la delicatezza dell’amore, la compagnia degli amici, la forza di mettersi al servizio della vita della vita oscuramente, per un’intera esistenza, il coraggio con cui i vecchi lasciano il meglio di sé ai piccoli senza averne nulla in cambio. Ma troviamo anche il vigore violento di chi capisce di essere nato nel moderno, cioè in un mondo senza precedenti e di inaudita bestemmia verso tutto ciò che suscita amore e rispetto: non sempre, però, Acht trova un vero equilibrio tra le voci ridenti dello spazio amabile e l’orrore dei moderni”[33].

Una di quelle “voci ridenti dello spazio amabile”[34] diviene titolo e spunto di riflessione in L’abbeveratoio, terzo numero del Legno Verde, autentico capolavoro della prosa di Andrea Sciffo, in cui l’autore, riprendendo le parole della moglie di Otto Acht, Margarethe Süßler-Liebenhof, spiega che gli abbeveratoi, die Tränken, sono “il segno di una civiltà che aveva risposto al quesito enigmatico se l’uomo fosse soltanto un animale oppure un animale e anche qualcosa d’altro”[35]:

L’abbeveratoio, col suo tronco d’albero coricato in orizzontale parallelo alla terra, svuotato come un’imbarcazione e trasformato in una vasca a raccolta del getto d’acqua che un altro ramo di legno faceva percolare in verticale, segnalò l’avvenuto passaggio dalla società (animale-umana) alla civiltà (animale-umana-spirituale) per la quale sorse dentro l’animo dei nostri antenati la premonizione: si muoveva come in embrione la figurazione della Trinità. Chi ha la fortuna inestimabile di abitare presso una fontana, col suo gorgoglio perpetuo di acqua che precipita nell’acqua, notte e giorno, può comprendere. Sembra un suono perenne, e la sua dinamica induce noi mortali a tentare di pensare l’infinito[36].

Così, nel panorama della moderna ferinità in cui vale il detto di Thomas Hobbes Homo homini lupus – per cui “nel Novecento non occorrerà nemmeno scomodare la lingua latina, e si farà per le spicce, Dog eat dog, cane mangia cane”[37], Margarethe Süßler-Liebenhof ricorda che solo noi uomini costruiamo abbeveratoi, protagonisti di un passaggio umano da animale a spirituale “per il senso dello stagionale unito al perenne”[38], poiché l’abbeveratoio “gocciola quando la stagione lo consente, quando il ciclo lo permette: altrimenti no. Altrimenti non sarebbe né un ciclo né naturale. È però un concetto incomprensibile e insopportabile per i moderni”[39]. L’abbeveratoio diviene quindi, per Sciffo e Otto Acht, più di una semplice fontana dove dissetarsi, più di una costruzione dal suono molesto o piacevole, in quanto “la demonica bestialità di animali e uomini trova nel genius loci dell’abbeveratoio la sua purificazione; la sapienza rudimentale dei tempi leggendari ha preparato, qui in angoli sperduti delle vallate in ombra, il secolo in cui abbiamo avuto Gandhi, Madre Teresa e Giovanni Paolo II. Cioè l’acqua sorgente da pietà, compassione, carità, solidarietà, agape: il vero Novecento”[40].

La sete di cui l’autore monzese parla è quella di coloro che, nella società contemporanea, ingrigita dal cemento, asfissiata dallo smog e arsa da una siccità non solo climatica ma anche morale, si rendono conto del dilagante sradicamento, tema di fondo dell’opera sciffiana, e chiedono di più, chiedono di andare oltre. Così, troviamo nel Legno verde una reiterata denuncia dell’indifferenza che costantemente e patologicamente dimostriamo nei confronti di coloro con cui condividiamo il mezzo di trasporto pubblico o il posto di lavoro, tanto che “quaggiù si scosta / l’uomo, l’un dall’altro, quando sente i fiati / troppo prossimi del vicino o troppo / vicino il prossimo[41] (Al binario, vv. 6-9). Il treno o la metropolitana sono dunque luoghi eletti dello sradicamento, meritevoli di vedersi assegnata dai versi sciffiani la metafora teriomorfa dell’“ouroborico serpente”[42] (Il carro di Elia, v. 4), con riferimento al cosiddetto Uroboro, antico simbolo di un serpente che divora la propria coda (la oura) rigenerandosi continuamente, un mostro metropolitano che nel suo “itifallico sentiero sotterraneo ci vorrebbe tutti capre”[43], dunque non uomini che condividono il viaggio, ma esseri non senzienti (e dunque passivamente consenzienti), che si lasciano trasportare come bestie.

Un’ulteriore causa della nostra indifferenza nei confronti del prossimo viene individuata dalla poesia Domenica aperto[44] nel proliferare fastidioso degli allarmi, poiché essi suonano, ma nessun uomo si allarma, perché non suonano per lui – un tragico rimando alle meditazioni di John Donne. Gli ultimi due versi, rimanendo sul tema dell’indifferenza, però, cambiano radicalmente ambito, poiché, prendendo le mosse dalla citazione evangelica “Vox clamantis in deserto[45] (v. 11, da Mc 1, 1-3), introducono la voce inascoltata delle campane diffusa da templi in cui si celebra l’amore fraterno e sponsale, lasciati però vuoti da uomini che vengono invece attirati dal richiamo di un non-luogo per eccellenza, l’ipermercato che annuncia “Domenica aperto”[46] e dove ci si ammassa, indifferenti gli uni agli altri.

Luna calante di marzo[47] prosegue il tema dell’indifferenza citando quella che, a detta di Sciffo, è la causa prima dell’inaridimento, dell’isolamento e del solipsismo della vita umana, la causa principale dello sradicamento, ovvero l’automobile. In questa poesia, infatti, colui che rientra a casa senza scendere dall’auto non può assistere allo spettacolo di cui è testimone colui che invece rincasa “dall’aperto”[48] (v. 3): una “luna in fase calante”[49], pronta quindi a morire per poi rinascere, rinnovarsi. “Se hai paura / dell’invisibile stai al volante, tu, mestierante / delle imprese, qui, nel cantiere incessante!”[50], scriverà Sciffo in Flora spontanea, facendo riferimento appunto al cantiere di distruzione, all’inferno a cielo aperto rappresentato dalle nostre città, di fronte al quale il miglior modo per non vedere è quello di mettersi al volante e chiudersi nel solipsismo di un abitacolo metallico, che insegna solo indifferenza e noia.

Se queste sono le premesse, le conseguenze dello sradicamento, i suoi sintomi, sono esplicitati da Notturno di alberi[51], in cui tuona drammatica la risoluzione dell’Assessorato cittadino, “Tutto il verde sia sfoltito, ogni foresta / si sfrondi: quegli alberi secolari, le decidue / querce abbattute, tutte, e tu… taglia questa”[52], principio per cui “alla fine, il nero venne”[53]; anche in Preistorie[54] viene ritratto il paesaggio del tempo precedente alla meccanizzazione, in cui si camminava sulla terra e in cui il vento vellicava libero i campi e l’erba, un paesaggio ben diverso da quello odierno, in cui, invece, le poche aiuole rimaste sono delle grigie e asfissianti prigioni di cemento, tanto che “oggi dentro il prato sei agli arresti”[55]. 

In Cedro secolare[56], nel cortile di una scuola media superiore monzese, facilmente identificabile nel Liceo Classico Leone Dehon, viene abbattuto un cedro plurisecolare, un albero che Sciffo definisce con il termine “essenza” (v. 4), poiché rendeva ciò che era il luogo in cui aveva messo radici, traendone e restituendone vita. Dunque, ciò che è stato commesso è un tradimento, un “rito”[57] che si compie da sempre contro il legno verde (Lc 23,31[58]), poiché “il tronco ingombra ogni Piano Regolatore”[59] (La lingua degli uccelli), e del quale ci si giustifica con commi e regolamenti, ma la fretta tradisce la vergogna e la codardia con cui vengono perpetrati questi misfatti. Dinnanzi a questo male compiuto, Sciffo conclude con un’apostrofe proferita da Otto Acht che risulta quasi un’etica: “[…] anche tu, / come l’albero a brandelli, sei riverso / e vaghi dentro l’universo a pancia in su: / guarda nell’azzurro terso, spia attraverso! / e ignora chi s’è perso apposta nel mal /perverso… tu lo sai che vivere costa”[60].

Dunque, all’amore fraterno, al rispetto per ciò che c’è da tempo, da molto prima di noi, alla riverenza per ciò che è vivo e continua a crescere, si sostituisce una legge di segno opposto, sottointesa dal titolo Selezione darwiniana delle specie[61], ovvero la legge del più forte sul più debole, un principio che viene denunciato più esplicitamente in La promessa sposa[62], in cui banchieri, economisti e assessori sono tutti sottomessi alla legge o alla religione del denaro. Sciffo prega, dunque, di essere terreno fertile per una rinascita alla verità di quei personaggi asserviti allo strapotere del denaro e del cemento, ma nel frattempo la legge darwiniana del più forte porta a tragiche conseguenze: polveri e pneumatici sono divenuti beni irrinunciabili, non c’è più bisogno del paradiso fintanto che si è benestanti e, tragicamente, le fontanelle tacciono, a significare – come si è già visto – la perdita del senso spirituale della trascendenza e della consapevolezza trinitaria.

Tuttavia, lo sradicamento della società moderna non verrà sanato in breve tempo e probabilmente non prima di una catastrofe risolutoria e catartica; l’autore dimostra di esserne consapevole, giacché, spingendo alle estreme conseguenze la situazione attuale propone in L’impalcatura[63] una visione apocalittica in cui, eradicato l’ultimo albero superstite, non potrà che giungere quello che negli ABC definisce più volte l’ottavo giorno, il giorno del giudizio, quando “il cielo / cede in mille pezzi e verrà giù”[64] (vv. 3-4), “verrà giù in frantumi, / squarterà i lavoranti del cantiere / infinito… A brandelli, a sparpagliare / l’efficienza di chi vive a girar viti”[65] (vv. 9-12): dalle rovine, si celebrerà la vera vita con il canto. Una visione escatologica analoga ma speculare è offerta, invece, da Zaccheo sull’albero[66], in cui si dichiara che “non c’è felicità santa prima che / l’ultima automobile non verrà infranta”[67] (vv. 14-15), pertanto il superamento di questo mondo, o, meglio, la salvezza da e di questo mondo, è qualcosa cui non potremo assistere in questa vita, ma, anche se in un futuro a noi inaccessibile, un giorno si potrà “rivedere / l’acqua nei canali, verde che rispunta / a tutti i fori, e l’erbaccia solo ai viziosi / sembrare una minaccia”[68] (vv. 8-11).

Un’ultima allegoria della moderna società sradicata è offerta da Il ritorno di Al-Khidr[69], misterioso personaggio coranico che compare nella Sura XVIII, nella quale giunge in soccorso a Mosè e al suo servo, rimasti senza cibo nel deserto, per condurli sulla giusta via a patto che essi si affidino totalmente a lui; i due vengono meno all’impegno preso, provocando la dipartita di Al-Khidr. Nella poesia di Sciffo, Al-Khidr cammina silenzioso per le strade monzesi, ma nessuno ha bisogno di una guida, o pensa di non averne, e quando se ne va, nessuno lo saluta: è un’immagine eloquente della modernità illusa di potersi reggere da sola, di poter trovare da sé, priva di pietas, la propria strada, ma come Mosè e il suo servo si ritrova persa nel deserto. A chi, invece, riconosca la necessità di una guida, di un sostegno in questa modernità perduta, Sciffo rivolge una poesia di segno opposto, capace di indicare una direzione, una poesia fatta di “indiscreti suggerimenti verso i sentieri a cui abbeverarsi”[70].

Così, ne Il sonno dei giusti[71], contemplando la quiete e la serena semplicità con cui si viveva un tempo e che un giorno torneranno, il poeta immagina di vivere ancora in quella gioiosa e “vera povertà”[72], grazie alla quale anche il sonno è più lieto, poiché consapevole dell’amore dell’Amato, con il quale affrontare fiduciosamente l’ignoto rappresentato dal domani: “è / la ramaglia odorosa della notte in cui / dormo e l’Amato sogna me ed io di Lui. / E nel sonno, trasognato, serro le mani / a sprofondarsi nell’ignoto, l’indomani”[73].

La consapevolezza dell’essere amati è imprescindibile per l’amore che noi stessi siamo in grado di dare e Sciffo lo dimostra con pietas filiale e paterna nei confronti di ciò che più ne ha bisogno: ciò che cresce. In Sesto compleanno di G.[74], del figlio Giorgio, nato nel 2005, e in Stati d’animo[75], scritta in occasione della nascita della figlia, il lavoro di chi accudisce ciò che cresce è paziente, quotidiano, indefesso e soprattutto discreto, ta