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Green autobiography di Duccio Demetrio: la scrittura continua non si ricapitola

di Andrea G. Sciffo - 07/07/2015

Fonte: Arianna editrice

 

 

 

 

Il 12 giugno scorso, Duccio Demetrio si è offerto ai microfoni di FAHRENHEIT in onda dagli studi fiorentini di RaiRadio3. Introducendo l’intervista, il conduttore l’ha legata, per motivi radiofonici, alla canzone appena trasmessa Here comes the sun dei Beatles per passare però immediatamente alle stoccate: ha subito contestato all’autore la scelta di intitolare un libro italiano con parole di lingua inglese. Benché una simile accusa decada almeno per merito della coincidenza della melodia dei FabFour di Liverpool appena diffusa qualche istante prima, si può ricordare che Demetrio di fronte a tale requisitoria si trovasse in buona compagnia: a suo tempo, nella Firenze di fine Seicento, anche l’illustre poligrafo mediceo Lorenzo Magalotti dovette subire l’epiteto di «anglomane[1]» per aver pubblicato la propria Relazione di ritorno dall’Inghilterra nella primavera del 1668. D’altronde, sia Magalotti che Demetrio intendono altro, attraverso l’uso del britannico idioma, e così celano dietro al sorriso ieratico qualcosa che è irraggiungibile alle mere etichettature.

       «Ognuno ha i propri misteri: i propri pensieri segreti – diceva Hölderlin. I misteri del singolo individuo sono miti e riti esattamente come erano quelli dei popoli» scriveva Furio Jesi, quasi quarant’anni fa, in Materiali mitologici: e questa è una buona chiave di lettura delle trecentoquarantasette pagine di Green Autobiography. La natura è un racconto interiore (Booksalad, Anghiari (AR), 2015; €15). Perché non si può leggere il libro di Demetrio senza accettare il fatto che il mistero resterà celato e che il segreto rimarrà segreto: è una forma di giustizia epistemologica e anche fenomenologica che impronta tutta l’opera demetriana, e non da oggi; nella sua bibliografia fecondissima, l’assiduo raccontarsi di Demetrio persegue con la scrittura un movimento ondulatorio opposto a quello delle onde concentriche che sfuggono dall’epicentro quando si getta un sasso in uno stagno. Le sue parole vanno dall’esterno verso l’interno, a ritroso rispetto le leggi della fisica e dell’entropia, avvicinandosi per arrestarsi alle soglie del nucleo centrale (là dove il sasso è entrato in acqua, per continuare la metafora) e rispettarne la vera sostanza, che è fatta di silenzio. Tra l’altro, che Duccio Demetrio sia tra i fondatori dell’Accademia del Silenzio[2] in pieno XXI secolo è un’altra singolare analogia per opposizione con il loquace Magalotti, che fu accademico “del Cimento” nella città granducale di Cosimo III de’ Medici.

       Dunque, i pensieri segreti resteranno segreti. Poi però c’è una ulteriore chiave di lettura, filosofica: Giorgio Agamben scrive, a proposito di Furio Jesi, che si sarebbe potuto dire di lui «qualcosa di simile a quel che Foucault ripeteva negli ultimi anni di se stesso, e cioè che egli non smette mai di occuparsi del soggetto, di scrivere il suo romanzo autobiografico o la sua “autobiografia mitica”», anche se «il saggio autobiografico di Kerény si apre col monito Uomo, non dire mai io!»[3]. Certo, in maniera obliqua e tangenziale, tutto questo ha a che fare con la Green Autobiography, perché dà l’avvertenza preliminare, mette in guardia il lettore affinché noti subito come nel metodo demetriano, avvolgente come un viticchio a inizio estate, la prospettiva appaia rovesciata: cioè prevalga l’ottica dell’interiorità del mondo esterno, come la definì Hermann Hesse nel 1919. Quella maniera di rientrare in sé scoprendovi all’interno una natura estranea oppure di uscire da sé finendo per entrare in un qualcosa di intimo.

 

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       In tal modo anche la riluttanza a dire io, così evidente nella grande poesia e nella vera letteratura, viene superata. Demetrio infatti tratta di scrittura terapeutica e compie il miracolo di far brillare pietre preziose anche involontariamente, dai brani di ignoti autobiografi, gli uomini e le donne che di persona incontra nella sua pluridecennale opera di ricercatore sull’età adulta e di co-fondatore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Ar). Forte di questo baluardo antropologico, fatto di centinaia di incontri reali e di silenzi eloquenti, Demetrio rivendica il diritto “di pronunciare (e scrivere) la parola ‘io’”[4]: sorge su questo presupposto teorico la possibilità di fondare l’autobiografia come cura di sé, una tecnica definita arte povera perché ha bisogno soltanto di una matita o una penna e un foglio e perché si basa sul gesto della scrittura-specchio. Come leggiamo in una pagina fondativa ormai lontana nel tempo[5]:

       «Quando ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, creiamo un altro da noi. Lo vediamo agire, sbagliare, amare, soffrire, godere, mentire, ammalarsi e gioire: ci sdoppiamo, ci bilochiamo, ci moltiplichiamo. Assistiamo allo spettacolo della nostra vita come spettatori: talora indulgenti, talaltra severi e carichi di sensi di colpa, oppure, sazi di quel poco che abbiamo cercato di vivere fino in fondo».

       Il metodo autobiografico viene, pertanto, fondato sul fondamento di una scrittura continua che non si ricapitola, ma che prosegue sempre.

 

 

Viaggio al termine dell’umanesimo

       Questo libro tuttavia sembra anche voler ultimare un lungo itinerario. Certifica innanzitutto la fine di una certa idea di umanesimo classicamente inteso, su due livelli: un livello esterno, quando l’autore offre gli interi campi di lettura dei classici della letteratura in maniera non più cronologico/filologica (da il mito greco, Ovidio, Lucrezio a Rousseau e Thoreau sino a Whitman e Hölderlin) ma tematica; si veda il molto ben riuscito passaggio tra il Goethe della Urpflanze, Yeats e Florenskij. E un livello interno, quando Demetrio descrive luoghi, istanti, stagioni, in maniera indiretta ossia antologizzando sequenze di scritture autobiografiche di non-pazienti, i cui nomi sono Adriana, Pierluigi, Carlo, Gioia, Rosita, Benedetta, P.R.… cioè anonimi.

       Un colpo più potente al principio di aristotelica auctoritas non poteva essere inferto, nella piena violazione del principio occidentale dell’aut-aut a favore di un et-et per cui si afferma che la natura è contemporaneamente fuori e dentro di noi, a riecheggiare il famoso assioma goethiano «ciò che esiste non è mai stato; ciò che fu non ritorna – tutto è nuovo -, eppure sempre antico. Viviamo in mezzo a lei, e le siamo stranieri”. Solo così può essere inquadrata l’analogia tra il metodo di Demetrio e quello di un umanista vero e proprio, Cristoforo Landino, che nelle sue Disputationes camaldulenses pubblicate nel 1474, raccontava dei dialoghi intercorsi durante quattro giorni di sosta nel monastero di Camaldoli, tra Lorenzo e Giuliano de' Medici, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino e altri pensosi spiriti toscani: allora, in età umanistica, la pace dell'eremo religioso nutriva la dialettica e la meditazione[6] con il riposo e le passeggiate per i luoghi ameni; oggi, in epoca postmoderna, frutti analoghi fioriscono da circostanze simili, cioè di fuga dal contesto troppo antropizzato delle città verso ambiti Green sempre più rari perché, scrive Demetrio, «tra il 1995 e il 2006 l’edilizia ha invaso un territorio paragonabile all’estensione dell’Umbria e con la protezione dei dissennati piani regolatori[7]». Nel libro demetriano, giustamente, il dialogo immaginario avviene con e contro Chicco Testa o con il Leopardi interpretato dal filosofo Antonio Prete, sui temi abissali della natura matrigna o indifferente.

       Sino ad attingere al provvisorio approdo dell’autobiografo Green, ossia alla scoperta silenziosa di essere uno scrivano dei mondi non umani. Dato che «apparteniamo a innumerevoli, immensi o minuscoli mondi non umani»[8] dominati da «sorprendenti silenzi. Non da infrangere, da imitare»[9], se davvero «fin dalla prima infanzia ci siamo affezionati e legati a quanto ci appariva dotato di qualità, manifestazioni, forme e linguaggi, oltre l’umano: a luoghi, ad animali, a panorami, ad arbusti, a nuvole, ad acque indimenticabili»[10]. E dato che la scrittura di sé esige di volgere lo sguardo intorno, constatare lo squallore urbano e vedere quella bellezza superba delle manifestazioni della natura, fitta di presenze viventi che non hanno le parole, i cui libri ci sono tenuti chiusi e indecifrati, e quindi partire alla ricerca di altro, diverso dal cittadino verde avvilito.

       È, quest’ultima, un’affermazione già cripto-politica, se accompagnata dal giudizio esplicito sulle tante autobiografie vistate da Demetrio in tanti anni di pratica: «non una sola storia è superflua, ripetitiva o scontata»[11]. Che è anche una risposta implicita al quesito aperto in anni lontanissimi dal Guy Debord di Critica di una separazione: «Cette clandestinité de la vie priveé sur laquelle on ne possède jamais que des documents dérisoires»[12]. La clandestinità delle scritture private assume invece per la Green Autobiography una serietà piena, in quanto testimone della trasformazione e del mutamento.

 

Saggezza del giardiniere che usa la penna

       Fedele dunque al precetto di Su Tung-p’o [蘇東] per cui prima di descrivere un bambù, bisogna lasciarlo spuntare dentro di sé, l’autobiografo-green si accinge a scrivere con un gesto che assomiglia al dissodare e arare un terreno incolto[13], come un Novalis che semina in terre vergini o come l’agricoltore celeste degli alchimisti.

       E Duccio Demetrio si lascia infine intravedere da dietro le proprie pagine come un vivaista che usa l’inchiostro invece di altri bucolici attrezzi: si sporgono dietro al suo profilo i margini dei tanti libri germinati prima di questo, fedeli alla massima alchemica Liber aperit librum. Metaforicamente, sovrapponendo l’atto agricolo o verde con l’atto di scrivere, il loro autore ripete il discorso aperto nel 1801 da Vincenzo Cuoco che, nel Platone in Italia, sosteneva che «agricoltura e virtù» fossero le forze che «bastano» da «sole a render felice un popolo»: perché la virtù «non è che nei campi», dove solo «gli Iddii» possono ritornare quando abbandonano, per la corruzione degli animi umani, le città a lungo abitate. E allora si può inventare una tradizione: e a partire dalla recita della poesia di Bertolt Brecht

 

Bello innaffiare il giardino, per far coraggio al verde!
Dar acqua agli alberi assetati! Dagli più di quanto

Basta e non dimenticare i cespugli delle siepi, perfino
quelli che non danno frutto, quelli esausti
e avari. E non perdermi di vista,
in mezzo ai fiori, le male erbe, che hanno
sete anche loro. Non bagnare solo
il prato fresco o solo quello arido:
anche la terra nuda, tu rinfrescala.[14]

si può ritrovare un filo verde tra gli scritti di Rigoni Stern, Mauro Corona, Walter Bonatti, Adriana Zarri, Umberto Piersanti, Tiziano Fratus, Nuto Revelli, Fiorenza Mannucci. Tutti antologizzati, assieme ad altri, qui nel volume. Occorre perciò «mettere a dormire, soltanto per poco, i concetti» e saper «stare nel proprio tempo… e a oltrepassarlo». Tenendo ben chiara sottotraccia «la percezione istintiva di una diversità radicale» che permette anche di condividere il détournement di questo paragrafo pasoliniano:

«Sono felice. Era tanto che non potevo dirlo: e cos’è che mi dà questo intimo, preciso senso di gioia, di leggerezza? Niente. O quasi. Un silenzio meraviglioso è intorno a me: la camera del mio albergo, in cui mi trovo da cinque minuti, dà su un grosso monte, verde verde, qualche casa modesta, normale. Piove. Il rumore della pioggia si mescola con delle voci lontane, fitte, incalcolabili. La terrazzetta, davanti, è lucida di pioggia, e soffia un’aria fresca (…) Il senso di pace, di avventura che mi dà l’essere in questo albergo nell’interno di Ischia, è una di quelle cose che ormai la vita dà così raramente. È un posto dove mi pare di essere sempre stato. Mi sembra il Friuli, la Carnia, l’Emilia. Solo ogni tanto qualche voce vicina mi ricorda che sono nel Sud. Mi aspetta qualcosa di stupendo: quello che si aspetta quando si è ragazzi, il primo giorno di villeggiatura, e si ha davanti un’estate eterna»[15].

       Il libro di Duccio Demetrio non è dunque un libro ultimo, se per ultimus s’intende il superlativo latino di “ciò che è al di là”; né è un’opera che si possa ultimare, perché la scrittura continua non si ricapitola; ci ricorda invece che ultimo è il più giovane e non il più vecchio, come in un Paedogeron. Tornando volentieri all’anglomania di cui si diceva all’inizio, in inglese, l’aggettivo “last” (l’ultimo) si oppone semanticamente al verbo “to Last”, che vuol dire rimanere. È una delle ambivalenze demetriane, che l’intervistatore della trasmissione radiofonica citata in apertura ha tentato invano di smantellare, con la domanda a bruciapelo all’autore se non credeva che la carta occorrente al suo libro potesse essere risparmiata pubblicando un e-book: «Per me no» ha risposto deciso Demetrio «ci vuole il rapporto fisico con la pagina».

 

 

Quest’ultima asserzione pone quindi il suo lavoro nella illiciana Vigna del testo, e svela una delle perle nascoste tra le pagine e tra le righe, dove si legge l’amore pudico ma potente verso «tutte le cose che sto evocando, che sono esistite ed esisteranno per sempre due volte ora che ne vado scrivendo»[16].

 




[1] Lorenzo Magalotti, Relazioni di viaggio in Inghilterra Francia e Svezia (Laterza, 1968, a cura di W.Moretti) pag.370.

[2] http://www.lua.it/accademiasilenzio

[3] “Giorgio Agamben, Sull’impossibilità di dire Io. Paradigmi epistemologici e paradigmi poetici in Furio Jesi, in “Cultura tedesca”, 1999 n°12.

[4] Duccio Demetrio,Green Autobiography (op.cit., pag.43)

[5] Duccio Demetrio, Raccontarsi. L‘autobiografia come cura di sé (Raffaello Cortina Editore, 1996)

[6] Notevole ricordare in tale opera Lorenzo de’ Medici sosteneva, di contro all’opinione dell'Alberti, che l'ideale del saggio fosse contemperare la vita attiva con la contemplativa, guidare gli uomini e recare un contributo fattivo all'umanità.

[7] Duccio Demetrio,(op.cit., pag.93)

[8] Duccio Demetrio (op.cit., pag.11)

[9] Duccio Demetrio (op.cit., pag.13)

[10] Duccio Demetrio (op.cit., pag.21)

[11] Duccio Demetrio (op.cit., pag.122)

[12]Giorgio Agamben, L’uso dei corpi (Neri Pozza, 2014), pag.11

[13] Duccio Demetrio (op.cit., pag.47)

[14] Duccio Demetrio (op.cit., pag.57)

[15] Pier Paolo Pasolini scrisse «La lunga strada di sabbia» durante il viaggio compiuto a bordo di una Fiat Millecento, che lo scrittore friulano fece nel luglio del 1959. Durante la tappa a Ischia, soggiornò presso il prestigioso Albergo Savoia di Casamicciola Terme (Na): nel 2005 sono state ritrovate due pagine scritte a mano dallo stesso, su carta intestata dell’albergo.

[16] Duccio Demetrio (cit., pag.321)