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Il padre “maternizzato” è causa ed effetto della crisi di identità sessuale

di Francesco Lamendola - 14/07/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Uno degli aspetti più vistosi della odierna crisi e inversione di ruoli sociali e affettivi, di cui si può considerare come una causa e al tempo stesso un effetto, è la costante, progressiva tendenza alla femminilizzazione della figura maschile all’interno della famiglia e, quindi, alla “maternizzazione” della figura paterna.

Fino a non troppi anni fa, su questo punto gli psicologi parevano tutti, più o meno, d’accordo: la situazione familiare “naturale” è quella in cui i figli hanno, quali figure genitoriali di riferimento, quella virile o paterna, e quella femminile o materna.

Poi, come è noto – sarebbe inutile ritornare su cose ormai ben conosciute e che, del resto, sono ogni giorno sotto gli occhi di tutti - qualcosa è cambiato: quasi da un giorno all’altro, psicologi, sociologi, psichiatri e altri “specialisti”, veri o presunti, hanno incominciato a dire che, sì, più o meno, ma in fondo, insomma, non è poi così necessario che i bambini abbiano tali figure genitoriali; che un padre e una madre sono sufficienti, anche se il padre è un tantino femminile e la madre un po’ troppo virile; per giungere, altrettanto bruscamente, alla conclusione che un padre e una madre non sono affatto necessari, vanno benissimo anche due padri, oppure due madri, purché – beninteso! – ci sia l’amore, ci mancherebbe altro.

In questa sede, trascuriamo l’ultimo punto, cioè il cosiddetto matrimonio omosessuale e ciò che esso comporta per la psicologia e per l’affettività dei figli, e limitiamoci alla fase “intermedia”: quella in cui vi è stata una rapida femminilizzazione della figura paterna (e, spesso, una corrispondente virilizzazione di quella materna), anche perché essa è la necessaria premessa della fase successiva, quella attuale; e quindi capire come si sia verificata aiuta anche a orientarsi meglio nella confusione totale della fase attuale.

Dunque: il padre, a un certo punto, ha incominciato ad avere, nei rapporti con i figli, dei tratti tipicamente femminili: è apparso ansioso, meticoloso, iperprotettivo, onnipresente, ossessionante; ha incominciato a sostituire la madre non tanto nei ruoli esteriori – per esempio, nel fatto di accompagnare il bambino dal pediatra, cosa che una volta facevano sempre le mamme, e che è giusto, invece, che facciano entrambi, secondo le possibilità di tempo a disposizione – quanto in quelli affettivi; ma, naturalmente, con un “di più” che scaturisce dalla innaturalità della situazione, vale a dire accentuando alcuni aspetti e alcuni difetti del comportamento materno.

Così, se la madre tende a essere un po’ ansiosa, il padre “maternizzato” si mostra estremamente ansioso, e trasmette tutta la sua ansia ai figli; se la madre tende a essere un tantino pesante nel ripetere le cose, nel fare la predica, nel rinfacciare ai figli certi sacrifici fatti per loro, il padre “maternizzato” farà lo stesso, ma inasprendo ulteriormente i toni e rendendosi francamente asfissiante, per non dire assolutamente insopportabile. Le maestre, il pediatra, i vicini di casa, gli amichetti e perfino i genitori degli amichetti dei figli, incominciano a essere oppressi, a loro volta, da questa figura petulante, sgradevole, saccente e invasiva: incominciano a temerla come la peste e a tenersene alla larga, per quanto possibile. Ma gli sfortunati figli di un tale padre, poveretti, non hanno alcuna possibilità di fuga: devono subire, e subire senza scampo, ogni santo giorno, la loro indigesta razione di “attenzioni” e di “premure”.

Sia chiaro che non si tratta di un amore sano da parte del genitore, ma di un amore malato, patologico. Un simile padre scarica sui figli, direttamente, complessi, frustrazioni e nevrosi innominabili, tanto più gravi in quanto non riconosciuti come tali; forse frustrazioni di lavoro, forse complessi dovuti al carattere; ma, soprattutto, scarica tutta l’amarezza repressa di una relazione insoddisfacente, deviata, con la propria compagna di vita.

Naturalmente, ciò è il riflesso di una crescente femminilizzazione dell’intera società, e specialmente dell’ambito educativo. Fino a un paio di generazioni fa, la figura del maestro elementare era ancora abbastanza diffusa, specie nei paesi: diffusa e rispettata. Oggi, l’insegnamento elementare è quasi esclusivamente femminile, e anche nella scuola media e nella scuola superiore la percentuale di insegnanti donne tende a surclassare quella dei maschi. Si è prodotto, così, uno sbilanciamento nell’azione educativa: l’insegnante donna, tendenzialmente materna, ha spostato nell’ambito scolastico una dinamica madre-figlio, tipica dell’ambito familiare; e questo non è stato un bene, perché vi è stata una confusione di situazioni tra ciò che è proprio dell’atmosfera familiare e ciò che è proprio, invece, o che dovrebbe esserlo, di quella scolastica.

Vi sono stati altri settori della vita pubblica che hanno subito l’assalto femminile; in alcuni di essi, come la politica e l’amministrazione, attraverso l’instaurazione delle “quote rosa”, tale assalto è stato addirittura sancito per legge, e ciò indipendentemente dalla reale competenza e dalla effettiva attitudine allo svolgimento della funzione politica o di quella amministrativa: con quanto vantaggio per il cittadino, è facile immaginare, anche se i testardi sostenitori di una società integralmente ideologizzata hanno celebrato in simili “conquiste” il loro discutibile trionfo.

Ma torniamo alla famiglia. La comparsa della figura del “mammo”, o del “madro”, è la spia di un fortissimo malessere sociale e psicologico, che, però, non essendo riconosciuto come tale, degenera sovente in comportamenti maligni: perché questo è il punto, il “madro” è un genitore che, dietro la maschera dell’amore per i figli, è carico di aggressività e di malevolenza verso tutto e verso tutti, a cominciare da se stesso, e, compresi, naturalmente, quei figli che, in apparenza, è così sollecito nel proteggere e nell’accudire (e che forse “deve” accudire, per la latitanza materna).

Ci sembrano interessanti, a questo proposito, le osservazioni del noto pediatra Marcello Bernardi, svolte nel suo libro «Gli imperfetti genitori» (Milano, Rizzoli, 1988, pp. 98-100):

 

«Abbiamo visto come la nascita di un figlio provochi nell’uomo una specie di squilibrio. Egli non riesce a sentirsi padre, gli pare di essere sempre fuori posto, non sa come comportarsi. Abbiamo anche visto che questo può succedere più facilmente a chi è dotato di una personalità un po’ fragile, con no scarso senso della propria virilità e una sicurezza in se stesso ancora più scarsa. In simili casi, non infrequenti, il pover’uomo, non essendo capace di fare il padre, si trova di fronte a un bivio: o la fuga, e ne abbiamo parlato, o copiare la madre. Comportarsi come lei, fare quello che fa lei, trasferire su di sé i compiti di lei, in blocco e indiscriminatamente. Ed ecco il padre maternizzato, il cosiddetto “madro”.

Questo signore, appunto perché insicuro e debole, è per lo più incredibilmente ansioso. Però è anche puntiglioso e invadente. Sa tutto sulle più moderne teorie nel campo della puericultura, dell’igiene, della profilassi, dell’educazione e dell’alimentazione infantile. Legge, anzi divora, tonnellate di libri e riviste. Telefona al pediatra e gli tende trappole per accertarne la competenza e l’aggiornamento. È un esperto in fatto di prodotti per l’infanzia. Accompagna sempre il bambino dal medico, e non dimentica di portare seco lunghi elenchi di quesiti, di sintomi, di osservazioni, di ipotesi e di proposte. Per la moglie, più che un collaboratore è un rivale. Controlla tutto quello che lei fa o non fa, critica, impartisce istruzioni, e cerca di sostituirla in ogni cosa. Per il figlio è una costante presenza collosa e ossessiva, sdolcinata, iperprotettiva e svenevole. Lo abbraccia e lo bacia in continuazione e, quando gli parla, gorgheggia.

Naturalmente ci sono vari gradi di maternizzazione del padre. Io go descritto il peggiore. L’ho fatto per chiarire un punto che mi sembra fondamentale: altra cosa è il padre che ho appena tratteggiato, e altra, molto differente, il padre che aiuta la moglie, che impara a curare il figlio, che si impegna in tutte quelle piccole cose che un tempo venivano assegnate solo alla donna. Direi anzi che la partecipazione del padre, in questo campo, è indispensabile. Sia nella concretezza dei problemi quotidiani, sia come stile di vita in comune, sia a fini educativi. Ma, per essere affettuosi e teneri collaboratori della propria donna, e validi sostegni per il proprio figlio, non occorre rinunciare alla propria identità sessuale e femminilizzare il proprio modo di agire. Non occorre umiliare la propria figura di padre fino a sostituirla con un doppione, per forza d cose falso, della figura materna. L’essere umano, per crescere, ha bisogno di un modello femminile e di uno maschile, e non di un modello femminile e di un’imitazione più o meno scadente del medesimo. In altre parole, vostro figlio, o figlia, ha bisogno di voi come uomo di sesso maschile, forte, deciso, leale, coraggioso, sicuro, intraprendente e generoso. E lo potete essere benissimo anche se date una mano alla vostra donna nelle faccende domestiche o nella preparazione del biberon. Ma non potrete esserlo se pretenderete di sostituire la madre, in tutto e per tutto, nella cura del figlio; se pretenderete di sovrapporre la vostra figura a quella di lei, rinnegando il vostro compito di padre.»

 

Ecco, la via d’uscita è proprio questa: l’uomo deve tornare a fare l’uomo, pur senza pretendere di restaurare una figura virile obsoleta e prevaricatrice; in altre parole, l’uomo non può ceto pensare di tornare a fare il “padre padrone”, e a scaricare sulla compagna l’intera responsabilità pratica della gestione familiare, come un tempo (ma non sempre) accadeva; deve essere in grado di aiutare e di sorreggere la sua compagna, anche nello svolgere una funzione attiva nei confronti dei figli: non deve però, per nessun motivo, “sostituire” il ruolo affettivo e psicologico materno, perché questa non sarebbe che una grottesca parodia della figura materna. Un padre maturo e collaborativo con la sua compagna non ha alcun bisogno di indossare la gonna, per far vedere che è “moderno”, “aperto” e “democratico”: può e deve continuare a indossare i pantaloni

Insomma: il padre torni a fare il padre; la madre, torni a fare la madre. È giusto, e anzi è necessario, che essi si aiutino, in tutte le maniere possibili, nelle complesse dinamiche della vita familiare, e, pertanto, anche nella cura dei figli; ma devono farlo ciascuno alla sua maniera: il padre, in modo virile, e la madre, in modo femminile. Non deve esserci alcuna confusione di ruoli: il bambino ne subirebbe un danno gravissimo. Il bambino deve essere accudito dal padre così come è naturale che faccia l’uomo, e non come farebbe la donna; e viceversa.

Sappiamo benissimo che forze potenti si oppongono a questo ritorno alla “normalità”, così come sappiamo che una simile “normalità” è stata sbeffeggiata, insultata e perfino negata, e lo è tuttora, da parte di una buona parte della cosiddetta intellighenzia; e nondimeno, senza curarsi del fastidioso cicaleccio di tanti, troppi, sedicenti “esperti”, per non dire “filosofi”, o magari “tuttologi”, è necessario che i padri riassumano le loro vesti di padri, e dismettano quelle di madri surrogate; così pure, bisogna che le madri tornino a fare le madri, in una giusta e naturale divisone delle rispettive funzioni, che sono complementari, ma non certo intercambiabili.

Certo, se dovesse passare la filosofia del “gender”, sarebbe la fine. Il bambino crescerebbe con l’idea che non esiste alcuna differenza sostanziale fra l’essere uomo e l’essere donna; e che “l’orientamento sessuale” (un fattore alquanto opinabile, per non dire elusivo, se non altro perché mutevole; mentre il genere sessuale non lo è) sarebbe l’unica cosa che conta: il tutto all’insegna della provvisorietà e del capriccio individuale, così come provvisori e capricciosi sono divenuti ormai tanti, troppi nuclei familiari, che di “famiglia” hanno solo il nome, perché tutto è costantemente appeso all’esile filo dell’estro del momento.

La televisione, il cinema, la letteratura (ivi compresa la letteratura infantile: si pensi alla diffusione delle “fiabe” scritte secondo l’ideologia omosessualista, e popolate non più di padri e madri, di principi e principesse, ma di “genitori uno” e “genitori due”), stanno spingendo potentemente nel senso opposto a quello che abbiamo auspicato nella presente riflessione. E questo è un fardello in più sulle spalle dei genitori odierni: quello di fare attenzione, nei limiti del possibile, alle letture, ai programmi televisivi, perfino ai giochi elettronici dei loro figli.

La cosa principale, però, crediamo sia un’altra: quella di far sentire ai figli, nella concretezza della vita quotidiana, cosa vuol dire avere un padre maschile e una madre femminile. Un padre maschile, sia chiaro, non è un bruto o un cavernicolo; così come una madre femminile non è una sdolcinata e molesta istitutrice. Un padre maschile è, semplicemente, un padre che si sente uomo in fondo all’anima; e una madre femminile, una madre che si sente donna. Tutto qui. Ma non è poco, oggi…