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Moralista ipocrita chi vuole bandire Heidegger

di Marcello Veneziani - Luigi Torriani - 14/07/2015

Fonte: lintraprendente



Mediato da figure come Vattimo, Cacciari e Galimberti, l’Heidegger “italiano” è stato per anni “popolare” anche fra gli intellettuali di una certa sinistra, come padre dell’esistenzialismo in Essere e tempo e soprattutto come pensatore che ha messo al centro delle sue riflessioni i temi decisivi della Tecnica, del Nichilismo e del tramonto dell’Occidente. Con la scoperta ora nei cosiddetti Quaderni neri di alcune frasi poco “felici” su ebraismo e nazismo, e con la riproposta della tesi del filosofo francese Emmanuel Faye che, ritenendo il pensiero di Heidegger illiberale, distruttore della ragione e precursore del IV Reich, vorrebbe pertanto proscriverlo dalla storia della filosofia, rischiamo forse di tornare ai dibattiti della fine degli anni Ottanta, quando Victor Farias pubblicò lo scandalistico Heidegger e il nazismo.  Ne parliamo con Marcello Veneziani, da oltre vent’anni uno degli intellettuali di riferimento della destra italiana.

Cosa pensa Veneziani del fatto stesso che ci sia ancora oggi un dibattito sull’antisemitismo e sul nazismo di Heidegger? Ha senso parlarne oppure è soltanto un esercizio di “moralismo erudito” che si ferma a poche decine di frasi in un’opera che complessivamente di pagine ne ha diverse migliaia?
«È un segno della miseria culturale del nostro tempo. Sarebbe stato comprensibile l’inverso: quando la carne degli avvenimenti è ancora viva, il giudizio sui grandi pensatori è inevitabilmente contaminato dai loro errori storici, le loro contaminazioni politiche e la loro biografia; ma poi col passare del tempo resta la grandezza del loro pensiero. Con Heidegger accade l’inverso. Più passa il tempo e meno si parla della sua filosofia e più del suo filonazismo e antisemitismo. Questo moralismo del senno di poi, settant’anni dopo, è un’abdicazione del pensiero in favore del politically correct che è la sua negazione e la subordinazione ad un moralismo ipocrita, a senso unico».

Secondo il filosofo Andrea Zhok, Martin Heidegger aveva questo “vizio”: prendeva certi stereotipi o certe opinioni correnti e a buon mercato sugli americani e le usava per costruire una trattazione metafisica su una presunta essenza dell’Americanismo, e lo stesso faceva con la Russità, con l’Italianità, con lo Spirito dell’Inghilterra, e così via fino ad arrivare all’essenza dell’Ebraismo Mondiale e all’essenza del Nazismo. Heidegger aveva questo modo al tempo stesso superficiale e iperuranico di trattare filosoficamente complesse questioni geopolitiche che richiederebbero di essere sia più informate sia più pragmatiche. Da qui deriverebbero la sua iniziale ubriacatura hitleriana e il suo “antisemitismo”. È d’accordo con questa lettura?
«Mi pare una semplificazione. Heidegger avversa l’essenza nichilista della modernità, l’oblio dell’essere e il predominio assoluto della tecnica e in un primo tempo pensa che il nazismo possa costituire un argine rispetto a questo processo di sradicamento universale. Ma poi si rende conto che anche il nazismo è dentro quel gigantesco processo e usa quella macchina per esserne in realtà usato, nella sua catena di smontaggio; diventa il suo sicario, fino ad autodistruggersi. La sconcertante tesi di Heidegger è che l’ebraismo, inteso come essenza metafisica, è portatore di quel processo di sradicamento universale di cui poi lo stesso popolo ebraico diviene vittima. Ma il nazismo è il braccio armato di quel processo e di quell’industria dell’annientamento e alla fine si distrugge insieme alle sue vittime, gli ebrei. All’autoannientamento del popolo ebraico corrisponde l’autodistruzione del nazismo. Pure il comunismo per Heidegger è dentro il medesimo processo, ma l’americanizzazione del mondo ne è l’apoteosi, il gradino supremo. Qual è il seme metafisico che accomuna quelle esperienze, protese ad annientare l’essere? La volontà di potenza, che si esprime alla massima potenza nel dominio planetario della tecnica, fino all’automatismo. La lucida grandezza teoretica del pensiero di Heidegger si accompagna a una cieca indifferenza rispetto agli esiti storici e umani. Egli sembra considerare quasi irrilevante lo sterminio nel quadro grandioso della storia dell’Essere. Non se ne cura, lo considera un dettaglio trascurabile».

Al di là degli aspetti specifici del caso Heidegger, ancora oggi – a settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – sembra essere piuttosto diffusa tra gli intellettuali italiani un’incapacità nel dare giudizi storici ponderati, articolati e dotati del giusto distacco e delle giuste sfumature. Quali sono secondo lei le ragioni di un perdurante atteggiamento ideologico che poteva essere comprensibile soltanto nell’immediato Dopoguerra?
«Potrei rispondere con Heidegger che chi è grande sbaglia anche in grande. Ma la miseria intellettuale degli intellettuali italiani, e non solo, è di non capire che il pensiero di Heidegger si forma prima dell’avvento del nazismo e poi si compone oltre la parabola del nazismo. L’incontro col nazismo non è rilevante nell’elaborazione del suo pensiero. Ridurre una potenza teoretica all’incontro incidentale col nazismo rispecchia la piccineria dei detrattori ma non il pensiero dell’autore. La stessa cosa vale per molti autori anche italiani, si pensi a Gentile. E anche a voler riconoscere che hanno scelto politicamente la parte sbagliata, non può essere quello il criterio per cancellare fiori di opere e di pensieri; è come se cancellassimo Virgilio e Dante, Machiavelli e Vico per le loro scelte temporali e politiche».

Quando si parla di intellettuali che in vario modo hanno intrattenuto dei legami con il fascismo e con il nazismo, in genere le “soluzioni” sono due: o si condannano gli intellettuali o si cerca di ridimensionare i legami. C’è una domanda tabù che invece vorrei farle: secondo Marcello Veneziani ci sono degli aspetti del fascismo o di altre esperienze dittatoriali novecentesche che – se ovviamente scorporati dalle atrocità commesse – hanno ancora un senso e una validità politica e culturale per la destra di oggi?
«Si, l’idea di superare il capitalismo e il primato dell’economia, senza cadere nel materialismo e nel comunismo, è un progetto ancora oggi valido e attuale; l’importanza della dimensione mitica e dello spiritualismo politico, l’idea di uno Stato sociale, popolare e nazionale, la crucialità di coniugare decisione e partecipazione, tradizione e futurismo, l’importanza di modernizzare i valori tradizionali, di rifondare lo spirito comunitario e identitario, di considerare principi e valori superiori al regno dell’utile e del mercato… sono temi importanti che hanno attraversato l’esperienza del fascismo e che non possono essere liquidati insieme all’esperienza del fascismo. Il neofascismo è una storia irrimediabilmente conclusa, epigonale, residuale. Ma alcuni temi, istanze, valori, travalicano l’esperienza del fascismo. Si tratta di liberare quei temi dall’abbraccio mortale di un’esperienza storica conclusa, irrimediabilmente e tragicamente, settant’anni fa».