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La natura, per Alano di Lilla, è un vero e proprio essere, creato da Dio per governare il mondo

di Francesco Lamendola - 20/07/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Nella figura di Alano di Lilla, o Alano delle Isole – nato verso il 1125 a Lilla e morto nel 1202 nella famosa abbazia di Citeaux, ove si era fatto monaco, dopo essere stato rinomato professore a Parigi e a Montpellier, e chiamato “Doctor univeralis” per la sbalorditiva ampiezza della sua cultura – si incontra una posizione epistemologica caratteristica, che, prelude, in qualche modo, agli sviluppi successivi della filosofia della scienza: l’idea che la natura è stata, sì, creata da Dio, ma che essa non corrisponde semplicemente all’insieme delle cose e delle leggi del mondo fisico, ma che è stata preposta da Dio al governo di quel mondo.

L’idea non era originale: veniva ad Alano dal platonismo, nonché dai suoi studi di alchimia e di ermetismo, oltre che dal pitagorismo; naturalmente, in lui, la natura si libera dagli aspetti più irriducibilmente “pagani”, e, in particolare, da una certa autosufficienza, tipica dell’Anima del Mondo di cui parla Platone nel «Timeo», o, se si preferisce, da una certa dimenticanza, in essa, delle precise istruzioni ricevute dal Demiurgo divino (che non è, a sua volta, il Dio unico e originario, come nel cristianesimo) e le adatta alla concezione cristiana, sicché la natura, per Alano, è un essere, sì, ma non certo un essere autonomo, né tale da poter “scordare” o, meno ancora, ignorare, il progetto divino, al quale deve uniformarsi in tutto e per tutto.

In effetti, l’idea della natura, in Alano di Lilla, costituisce il classico esempio di una concezione di transizione fra due differenti paradigmi culturali: in questo caso, quello propriamente cristiano medievale, teologico e teocentrico, in cui tutto, natura compresa, viene direttamente da Dio e a Dio si accinge a ritornare, per cui le cose terrene non sono che fugace apparenza, e, inoltre, apparenza che deve essere decifrata, per rivelare il suo intimo essere; e la concezione moderna, laica e antropocentrica, nella quale Dio è soltanto una remota ipotesi e la realtà del mondo fisico si apre davanti all’uomo, per essere penetrata, spiegata, padroneggiata e infine manipolata a suo talento, illimitatamente.

Certo, Alano sarebbe inorridito, se avesse potuto immaginare gli sviluppi successivi: nondimeno, è innegabile che nella sua concezione della natura vi siano, in germe, le premesse per tali sviluppi. Per lui, infatti, la natura è qualche cosa di più della somma delle creature e l’insieme, razionalmente ordinato, delle loro reciproche relazioni; è un essere vero e proprio: e, se questa idea può apparire molto “moderna”, e perfino “ecologista”, e richiamare alla mente le speculazioni di James Lovelock e la sua “ipotesi Gaia”, resa di attualità fra il vasto pubblico a partire dal 1979, nondimeno le premesse generali e la prospettiva specifica di Alano sono alquanto diverse da quel che una frettolosa e superficiale comparazione potrebbe suggerire.

Secondo Alano, la natura è un essere vivente, ma non ha tanto le caratteristiche di un organismo biologico, quanto quelle di una creatura intelligente, che fa in modo di esplicitare la razionalità intrinseca nella creazione stessa; e, se la necessità di una tale concezione è piuttosto dubbia, dal punto di vista della teologia classica, certo questa idea della natura si accorda di più con l’idealismo platonico, che con il realismo aristotelico: ed è questa la differenza principale fra l’idea, tutta moderna, di una natura autonoma ed autocosciente, che tende a sostituirsi alla realtà di Dio, e quella di Alano, che presenta, semmai, non poche affinità con la filosofia naturale di Niccolò Cusano (anche per lui l’universo è infinito, ed il suo centro è pensabile in ogni luogo, secondo il punto di vista dell’osservatore) e, in generale, con gli umanisti.

Ciò starebbe a confermare che il definitivo passaggio di paradigma, da un universo teocentrico ad uno antropocentrico, il quale si consumerà definitivamente solo nel XVII secolo, con la cosiddetta Rivoluzione scientifica, trova i suoi precedenti in Alano, e, prima, in Platone, in Pitagora e in Boezio, ma solo indirettamente; quelli diretti vanno ricercati, piuttosto, nell’aristotelismo averroista, che, a un certo punto, si diffonde a macchia d’olio nella filosofia della natura: infatti, è nel filosofo arabo che si sviluppa l’idea, nelle università europee del XII secolo, cioè nella stessa generazione di Alano - di cui Averroè è coetaneo – che il mondo sia necessario ed eterno; e, parallelamente ad essa, come suo inevitabile corollario, la dottrina della doppia verità: ossia che una proposizione possa essere vera secondo la ragione, ma falsa al cospetto della fede, la quale trae origine dalla Rivelazione e, pertanto, da una verità super-razionale.

In effetti, la dottrina della doppia verità si rende necessaria per proteggere i teologi di quell’epoca, e anche delle successive, ma soprattutto i cultori della filosofia naturale, cioè gli scienziati, dalle più che prevedibili accuse di eresia. Una volta che si siano dichiarate l’eternità e la necessità del mondo, Dio, per forza di cose, diventa un’ipotesi non più necessaria: che ci sta a fare, ormai, se il mondo esisterebbe anche senza di Lui, e se esiste indipendentemente da Lui, eterno quanto lo è Lui? La sua presenza diventa ingombrante e sostanzialmente inutile; la sua provvidenza, una supposizione quanto mai opinabile; viene meno il fatto della creazione dal nulla, e con ciò, il mondo si mette a camminare sulle sue gambe, e il compito degli uomini non è più quello di usare, con saggezza e parsimonia, delle sue risorse, in vista del vero scopo dell’esistenza, il ritorno fiducioso e trepidante a Dio, ma quello di considerarsi, in tutto e per tutto, come l’inquilino che scopre di essere il proprietario, ovvero come il suddito che si rende conto di essere il sovrano: senza riconoscere altro potere, né alta autorità, al di fuori e al di sopra di sé.

Ha osservato E. J. Dijksterhuis, già professore di storia della scienza all’Università di Utrecht, nel suo classico «Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai presocratici a Newton» (titolo originale olandese: «De Mechanisering van het Wereldbeeld», 1951; traduzione dall’edizione inglese «The Mechanizatiomn of the World Picture» di Adriano Carugo, Milano, Feltrinelli Editore, 1971, pp. 166-168):

 

«Il periodo in cui il Platonismo esercitò sulla scienza del Medioevo un’influenza dominante trova una sorta di conclusione nell’opera di Alano di Lilla (Alanus de Insulis), in cui, alla vigilia della grande invasione dell’Aristotelismo, le concezioni che avevano fino allora dominato la scienza della natura venivano riassunte ancora una volta. Alano di Lilla condivideva con la scuola di Chartres l’illimitata riverenza verso Platone, la quale anche nel suo caso era basata soltanto sulla sua conoscenza del frammento del “Timeo” tradotto e spiegato da Calcidio. Inoltre egli conosceva soltanto il titolo e l’intento generale del “Fedone”. Per il nostro scopo è particolarmente importante che egli collochi la natura, come una forma, tra Dio e il mondo. Per lui essa è un essere creato da Dio simultaneamente al mondo, e che ora governa gli ulteriori sviluppi di questo. Essa è la sostituta e la docile allieva del Creatore; non crea nulla, ma si occupa di una materia che è già presente. Non sono cose divine e imperiture quelle che cadono sotto il suo dominio, ma cose materiali e caduche. Mentre è subordinata a Dio, essa esercita un potere illimitato sul mondo; in particolare forma il corpo umano, cui poi Dio impartisce l’anima.

Questa “natura” di Alano di Lilla, una concezione per la quale il terreno era già stato preparato da Calcidio, da Giovanni di Salisbury e da Guglielmo di Conches (il quale distingueva tra l’”opus creatoris” e l’”opus naturae”: l’opera del Creatore e quella della natura), deve la sua origine all’Anima del Mondo di Platone. La differenza tra le due concezioni, però, è che per Platone l’anima del mondo agisce, per così dire, inconsciamente, poiché essa non si cura delle idee eterne che il Demiurgo aveva tenute in mentre durante la progettazione del mondo, mentre la natura di Alano è dotata della conoscenza di tutte le cose.

L’idea introdotta da Alano di Lilla che la natura è un essere nel quale sono stati ipostatizzati l’insieme delle forze della natura, la regolarità del loro operare, e la loro relazione reciproca, doveva avere un grande futuro. Essa esprimeva in forma semplice la forza universale che sta dietro i fenomeni materiali. Col passar del tempo, però, accadde ciò che si sarebbe potuto aspettare: se Dio lascia la guida degli eventi materiali interamente alla natura, la gente tenderà a considerare colui che fa agire le leggi più importante di colui che le detta. Per lo studioso della natura in quanto tale, la natura poteva così diventare facilmente l’oggetto non soltanto delle sue ricerche, ma anche della sua venerazione.

Nell’introduzione del’ipostasi, della natura, Alano di Lilla vedeva un mezzo per chiarificare il problema che costituiva una questione così scottante per il Medioevo, quello delle relazioni tra la scienza e la fede. L’oggetto della ricerca nella scienza umana è l’attività della natura; la scienza acquista conoscenza delle cause inferiori studiando la natura delle cose terrestri, ma non è capace di trovare le cause superiori e di penetrare nei misteri divini con le sue sole forze. Alano esprime questo fatto allegoricamente nel suo poema “Anticlaudianus” nel modo seguente: “Prudentia” (in cui è personificata la saggezza umana) può attraversare gli spazi terrestri con le proprie forze, ma quando giunge ai confini del firmamento si ferma disperata. Per percorrere la strada attraverso le regioni sovra mondane che ancora la separano dal trono di Dio, essa ha bisogno dell’aiuto di “Theologia” e di “Fides”. La religione e la scienza, perciò, sono rigidamente  separate, ma non nel senso che siano in conflitto tra loro; esse si muovono in due sfere completamente differenti.

Alano lascia alla scienza stessa la definizione del proprio punto di vista in relazione alla teologia: “In molte cose le nostre concezioni non sono contrarie, ma differenti. Io impartisco la fede mediante la ragione, essa impartisce la comprensione mediante la fede. Io do il mio assenso perché so; essa sa perché assentisce. Io devo sapere per poter credere; essa crede per poter sapere.  La fede è un modo di capire le cose che si raggiunge con l’assenso senza la conoscenza delle cause.” In questa mancanza di una comprensione dei principi, non nella certezza che essa offre o nel valore dell’’oggetto di cui essa tratta, la fede è inferiore alla scienza. Alano cita con evidente approvazione un detto di Gregorio Magno:non v’è alcun merito nel credere in qualcosa di cui la ragione umana offre la prova”.»

 

Come sappiamo, la prima delle 125 regole di Alano afferma che l’unità non deriva da nulla, mentre la pluralità deriva dall’unità, e che, di conseguenza, mentre in Dio vi è la somma unità, nel mondo della natura vi sono tutte le pluralità possibili (dirà Dante, circa un secolo dopo: «nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per ’universo si squaderna»: «Paradiso», XXXIII, 85-87).

Stando così le cose, Alano ritiene di aver messo bene in chiaro che la teologia è, e rimane, una forma di conoscenza superiore alla filosofia naturale, e alla filosofia in genere, perché il suo oggetto, che richiede l’atto preliminare della fede, è semplice, unico, eterno: Dio; mentre la natura, oggetto della ricerca scientifica, non è semplice, ma molteplice, e non richiede alcuna credenza preliminare, ma, al contrario, persegue la ricerca della verità, per poterla accettare razionalmente. Ora, non aveva forse ammonito il divino Maestro, rivolgendosi a san Tommaso, dopo la Risurrezione, con queste parole: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; ma beati quelli che crederanno senza aver visto»?

In altre parole, Alano condivide in pieno la convinzione cristiana medievale che la ragione umana, davanti al mistero di Dio, deve farsi piccola e umile; e, se è lecito che essa voglia indagare la realtà materiale delle cose, non deve però scordarsi che non è suo compito indagare fino alle cause prime dei fenomeni, ma deve accontentarsi delle cause seconde: tale è l’ambito della scienza, e tale il confine che essa non deve presumere di oltrepassare da se stessa, basandosi sulle sue sole forze e dimenticandosi di essere, a sua volta, un dono di Dio, che fa l’uomo simile a Lui. Mettere da parte Dio in nome della ragione, pertanto, sarebbe un supremo atto di ingratitudine: la ragione, infatti, non viene all’uomo direttamente dalla natura, ma dall’Autore della natura.

È appunto questa distinzione tra scienza e fede, tra l’ambito della natura e quello del divino, che verrà lentamente sgretolata dai filosofi successivi, ai quali aveva già aperto la strada Pietro Abelardo (1079-1142), che vedeva nell’Anima del Mondo qualcosa di simile allo Spirito Santo e che svalutava la Grazia, mentre esaltava la ragione e la volontà umana: ritornando, così, a Pelagio...