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Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano: quando un amore appassisce e muore (I parte)

di Francesco Lamendola - 20/07/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 

È stato un destino un po’ beffardo, anche se non rarissimo, quello di Amalia Guglielminetti, nata a Torino il 4 aprile 1881 e ivi morta il 4 dicembre 1941, per le conseguenze di una caduta mentre fuggiva nel rifugio durante un bombardamento aereo.

Fu una poetessa e scrittrice, autrice di una raccolta di versi abbastanza famosa nei primi anni del Novecento: «Le vergini folli», del 1907; poi scrisse una serie di romanzi così così, sempre meno fortunati, per venire infine completamente dimenticata già in vita ed essere ormai citata dagli storici della letteratura non per i suoi meriti letterari, ma quasi esclusivamente per via della sua non lunga, intensa, infelice relazione sentimentale con il poco più giovane, ma più conosciuto Guido Gozzano (nato a Torino il 19 dicembre 1883 e ivi spentosi, di tubercolosi, il 9 agosto 1916), il principe dei poeti crepuscolari.

Ella ebbe, insomma, il suo momento di celebrità; il suo esordio poetico fu salutato da alcune recensioni favorevoli; questo la mise in contatto con Guido Gozzano, che aveva conosciuto fin dal 1906, e che l’anno dopo aveva pubblicato «La via del rifugio»: si scambiarono i rispettivi libri, freschi di stampa; si frequentarono, si piacquero, si amarono un po’; ma il loro fu un amore strano e patetico, cui mancò sempre un elemento decisivo, il pieno e reciproco abbandono; un amore in punta di piedi, malinconico e crepuscolare, fra un giovane triste ed ironico, malato di tubercolosi, e una giovane brillante e generosa, irrequieta e incerta di se stessa. Dopo Gozzano, ella ebbe altre due relazioni importanti, sempre con degli scrittori ed entrambi più giovane di lei, il secondo di ben dodici anni: l’una, puramente platonica e letteraria, con il triestino Mario Cappolani (1885-1947); l’altra con Dino Segre, in arte Pitigrilli (1893-1975), che diverrà una spia dell’O.V.R.A. fascista e farà  arrestare e mandare al confino non pochi amici e conoscenti; quest’ultima relazione fu breve, ma alquanto tempestosa e sarebbe terminata addirittura con una causa in tribunale.

Quando si affacciò sul palcoscenico delle lettere nostrane, le prime scrittrici italiane con venature femministe cominciavano a far parlare di sé il romanzo: «Una donna» di Sibilla Aleramo fu pubblicato del 1906). La Guglielminetti venne paragonata un po’ a Gaspara Stampa e un po’ alla poetessa greca Saffo: paragoni evidentemente eccessivi e perfino imbarazzanti, nei quali i critici dell’epoca tradivano la loro piacevole sorpresa e l’ammirazione per questo fenomeno nuovo, il ritorno delle donne e l’istintiva simpatia nei confronti del nuovo tipo d’intellettuale al femminile. Disgraziatamente, era proprio il tipo che a Gozzano piaceva e non piaceva: nei famosi versi de «La signorina Felicita» egli si fa beffe delle “intellettuali gemebonde”, che leggono Nietzsche e parlano di grandi cose, dichiarando invece la sua preferenza per le donne semplici, al limite della più crassa ignoranza, ma piene di buon senso e d’istinto pratico. Peraltro, è difficile dire se dobbiamo credergli davvero: è sempre così ambiguo e sfuggente, Gozzano. Si difende dalla presa sfuggendo come un’anguilla; non si sa mai se parla sul serio oppure sta scherzando. Usava l’ironia per difendersi, ma la usava così bene da restare preso nel suo stesso gioco.

Il carteggio dei due amanti – e diciamo “amanti” in omaggio alla tradizione; nessuno potrà dire cosa vi sia stato effettivamente, fra quelle due anime complesse e infelici – è stato pubblicato dall’editore Bietti di Milano, nel 2012, insieme all’opera poetica della Guglielminetti, a cura del poeta e traduttore Silvio Raffo (cfr. «Lady Medusa. Vita, poesia e amori di Amalia Guglielminetti»). Certo è che, dei due, lei amò – o, il che è lo stesso, credé di amare – più di lui: dopo un inizio romantico, il loro rapporto imboccò il piano inclinato del rapido logoramento; Gozzano cominciò a negarsi, a latitare, lei si impegnò a richiamarlo, ad inseguirlo, a cercare di afferrarlo per la falda della giacca: errore fatale, specie con un tipo così.

Come il protagonista del dramma pirandelliano «L’uomo dal fiore in bocca», egli si sentiva braccato dalla morte e voleva fuggire, fuggire il più lontano possibile, innanzitutto da se stesso; in ogni caso, l’ultima cosa che desiderava era una donna che volesse calzargli le pantofole per metterlo in poltrona e poi, magari, stargli accanto, e assisterlo fino all’ultima ora. Una donna così, Gozzano non avrebbe potuto che odiarla; ed è possibile, forse addirittura probabile, che le cose siano andate appunto in questo modo fra lui e la povera Amalia.

In effetti, Gozzano scopre di avere una lesione all’apice del polmone destro nell’aprile del 1907: la consapevolezza della malattia fatale coincide, dunque, con l’inizio della sofferta relazione con Amalia, ma anche con l’esordio lusinghiero nel salotto buono della letteratura italiana (cosa cui egli teneva moltissimo, anche più di lei). Aveva cantato (nella poesia «Ignorabimus», che fa parte della raccolta «La via del rifugio», 1907, ai versi 12-14): «Non fate agli altri ciò che non vorreste / fosse a voi fatto! Nella notte incerta / ben questo è certo: che l’amarsi è buono!». La sua fuga più importante sarà il viaggio in India, nel 1912 (viaggio da cui nacquero gli articoli poi raccolti nel volume «Verso la cuna del mondo»); ma fin dal tempo della sua relazione con Amalia prende l’abitudine di fuggire da Torino per svernare nel clima più mite della Riviera ligure. È un uomo sempre in fuga, dunque: fisicamente e psicologicamente; intelligente, sensibilissimo, innamorato della vita, intimamente buono; ma anche scettico, senza fede, inconsciamente rassegnato alla fine inevitabile.

Amalia sente che lo sta già perdendo, senza quasi averlo potuto dire suo; si domanda se abbia sbagliato qualcosa, se sia stata troppo esplicita, troppo focosa nel suo approccio; e lo domanda anche a lui. Cerca di capire, oscilla fra il lamento e la recriminazione; tenta persino qualche ingenuo ricatto, qualche logoro stratagemma, come quello di dovergli parlare di cose troppo riservate per metterle nero su bianco. Ma intanto la loro relazione langue, vive quasi solo per corrispondenza; e un amore fatto di carta finisce per deragliare, per diventare nevrotico, per cedere a suggestioni letterarie che lo allontanano sempre di più da ciò che vorrebbe essere, dalla freschezza e dalla verità che solo l’incontrarsi faccia a faccia può assicurare, con la luce dello sguardo che non mente. La prendono, così, l’angoscia, lo sconforto; alterna il “voi” e il “tu” in un gioco fin troppo scoperto di allusione, seduzione e frustrazione; diviene sovente amara, lamentosa; si umilia a supplicare: non ottiene niente.

Alcune lettere da lei scritte al tempo della loro relazione - continueranno a scriversi, poi, fino alla morte di lui, ma ormai come vecchi, buoni amici e non più come amanti - sono una testimonianza eloquente di tale crescente stato d’animo (da: «Ti dico che ti amo. Le più belle lettere d’amore di ogni tempo e paese», a cura di G. D. Bonino, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1977, pp. 111-112161-163; 185-186; 189):

 

«UNA PICCOLA TREGUA DI SOGNO [Lunedì sera, 2 dicembre 1907]

Lunedì sera. Mio caro Guido, io ho fatto molto male ad amareggiarvi con la mia amarezza. Sono io che mi devo accusare, non Voi. Ieri non v’ho atteso: ho passato la giornata in una sospensione vaga, non ansiosa, pensando che certo vi tratteneva una causa indipendente dalla vostra volontà. Ma non è possibile che partiate così. Verrete mercoledì: non mi chiederete perdono, non ci daremo delle spiegazioni, non ci diremo niente. Lasceremo solo le nostre anime un poco vicine  e le nostre mani un poco congiunte prima di lasciarci per tanto tempo. Sarà una piccola tregua di sogno per Voi e per me. Dimenticheremo che ci sono le cose e gli uomini e le donne. Ci parrà d’essere soli nel mondo, o d’essere fuori del mondo. Se vorrete vegliare ci guarderemo in silenzio, se vorrete dormire poserete la testa sulla mia spalla. E poi ci diremo addio.

Venite.

TU SOLO NON MI AMI, TU SOLO MI SFUGGI. «[Martedì, 24 marzo 1908]

Perché mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di me? Non dovevo venir con Voi quel giorno per soffrirne dopo, così, per vedermi tolta anche la piccola dolcezza di sentirvi qualche volta vicino. È così poca cosa la vita e così breve per negarci qualche poco della sua bellezza per tormentarci volontariamente anche quella piccola parte di bene che ci concede? Voi vi dite corazzato anzi insensibile ad ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, io vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano. Mi pare di trovarmi più sola in quest’ombra grigia di banalità che ci circonda, sento d’aver smarrito qualche cosa di più leggero, di più chiaro, di più elevato, l’amico che mi comprende,  il fratello che sogna i miei sogni e gioisce della mia gioia, la tenerezza che blandisce e riscalda il cuore.

Io non voglio che tu mi sfugga, Guido, io non voglia che tu mi segua di lontano come un estraneo, che tu mi riveda ancora un giorno lontano  quando forse i miei capelli non saranno più tanto bruni e la mia bocca fresca e i miei occhi lucenti. Lascia ch’io ti dica tu come un compagno, ch’io non senta fra noi il gelo di quella parola dura. Io ti sono compagna ora senza tremori e senza fremiti, sorella della tua anima. Io ti saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino. No, noi non abbiamo ancor sepolto nulla di noi stessi. Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di te.  Sei nuovo e fresco al mio spirito, come allora che m’eri ignoto. Ogni tua parola è come una piccola luce che ti rischiara  un momento e ch’io guardo risplendere con gioia nuova ogni volta che tu parli. È un senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia, quasi, che è credo, una occulta profonda fraternità, un oscuro legame spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu non provi questo fascino, lo so,  poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno.

Forse io non sono stata con te, quel giorno, quella della tua attesa.  Fui rude, lo ricordo, violenta anche. Ma quale contrazione, quale ribellione era in me, allora,  davanti a quel nuovo tu che lottava contro la mia volontà aspra di solitaria.  Ma ricordo anche un momento di chiara dolcezza, il mio volto chinato sul tuo, le mie labbra parlanti con franca umiltà di cose nascoste. Ma come puoi non volermi bene  se mi rivedi ancora in quell’atto?  Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia dell’orgoglio, così vestita di pura tenerezza. Tu solo che non mi ami, tu solo che mi sfuggi. Scrivimi che ci vedremo ancora quando e come il destino lo vorrà, semplicemente, come due amici buoni che la fedeltà riconduce  tratto tratto l’uno all’atro. Ho bisogno di sentirti parlare, di te, di me, de’ tuoi e dei miei sogni, del tuo e del mio avvenire, di tante cose piccole e grandi e vane. È così buona l’amicizia ed io non ho amiche vere, non ho forse amici veri, non mi sento legata che a te. Non voglio che ci cerchiamo con l’ansia del desiderio, ma che ci vediamo naturalmente  come vogliono le vicende della nostra vita. Non farmi ancora piangere e rimpiangere. Guido, dammi ancora le prove e se  vuoi qualche segno di bontà in cambio di tutta la mia tenerezza. Vieni a dirmi addio prima di lasciare Torino. Ci sapremo stringere le mani con dolcezza ma senza fremito. Verrai?  

Non dirmi, non dirmi di no…

RICHIESTA DI UN ULTIMO INCONTRO. [Mattino  di lunedì, 30 marzo 1908] Caro Amico,

vi pensavo più buono di quanto vi dimostrate. Credevo di meritare  almeno una parola di risposta se vi pareva troppa concessione accordarmi una visita come vi chiedevo. Un’amicizia come la nostra non deve morire così fra la vostra indifferenza  inerte e la mia esasperata tristezza. Perché io non credo possibile per Voi e per me una fedeltà che resista alla lontananza e agli oblii. Siamo entrambi troppo egoisti per i culti essenzialmente spirituali. Mi costringete a mendicare dagli amici vostri   le vostre notizie con parola leggera e anima febbrile. Mi costringete a mendicare da Voi una condiscendenza che non dovrebbe esservi grave. E mi è duro, sapete, curvarmi così.  Vorrei parlarvi di cosa che non posso affidare a una lettera. V’aspetterò a casa mia mercoledì fra le quattro e le cinque, o, se preferite un luogo aperto, giovedì alle tre e mezza laggiù a’ piedi della collina dove già v’ho atteso una volta soffrendo. Non rispondetemi se vi pesa, ricordatevi solo ch’io  v’aspetterò con intenso desiderio, e che vi PREGO di venire.

Stamane io scrivevo questo mentre tu forse aggiungevi per me tristezza a tristezza  nelle otto pagine della tua lettera. Non distruggo e non disdico il mio biglietto. Ho troppa sete di te per saziarmi delle tue parole amate. Non è vero ch’io abbuia cose segrete a dirti, era una menzogna per indurti a venire. Porta pure con te la tua ambizione, la tua freddezza, la diffidenza che hai verso di me.  Sarà meglio, forse mi guarirai; ma non inasprire ancora il mio male con un rifiuto. Se anche non mi ami perché vuoi ch’io ti perda?  Perché vuoi farmi sentire così nera così crudele la mia solitudine, così competo il mio isolamento? Ah! La gloria, Guido, come ne sogghigno! Io non so come tu possa amare, sognare darti a una così vacua cosa. Io voglio più bene a te che alla gloria, quella non mi farà mai piangere né aspettare in ansia.

SOLITUDINE NELL’ABBANDONO. [Torino, 21 novembre 1909]

La vostra FEDELE, IMMUTABILE fraternità non vi spinge nemmeno più a rispondere alle mie lettere. So che siete qui, da molto; mi sono informata, io stessa, direttamente; e so che tutti hanno il bene di vedervi, meno io. Io vivo in solitudine e in odio contro l’umanità: non ultima causa di quest’odio siete voi. Questo vi sarà indifferente, ma è bene che sappiate – voi che non potete essere triste -  quale tristezza amara sia oggi in me, e non oggi soltanto.

Addio, state sereno.»

 

A parte il senso di’imbarazzo che si prova entrando nella corrispondenza altrui, e specialmente in quella amorosa (par quasi di spiare dal buco della serratura: sensazione niente affatto piacevole, almeno per una persona normale), bisogna però riconoscere che poche cose sono altrettanto istruttive per gettare un poco di luce sulle profondità misteriose dell’anima umana; beninteso, a patto di essere ben consapevoli che, per ogni raggio di luce che vi penetra, le tenebre si infittiscono maggiormente sul versante opposto. Nessuna confidenza epistolare deve essere assolutizzata, così come nessuna deve essere sottovalutata: quando parla di sé alla persona amata, ogni essere umano lascia trasparire solo ciò che, in quelle circostanze, sente come “vero”: senza avere, necessariamente, l’intenzione di mentire, sta di fatto che ciascuno seleziona quella parte di verità che sente come funzionale al suo discorso. Non solo: per poter parlare di se stessi con verità, senza mettervi troppo studio di piacere (e anche senza cadere nell’eccesso opposto, cioè nel maledettismo di maniera, che è pur sempre un modo di rendersi interessanti), bisogna – evidentemente - innanzitutto conoscersi. Ma quanti esseri umani possono dire di conoscersi, non diciamo a fondo, ma abbastanza da potersi risparmiare gli auto-inganni più palesi? E quanti esseri umani, presi nell’ardore della passione amorosa, conservano sufficiente distacco per continuare a vedersi come sono, e non come vorrebbero essere, o come sperano o temono di essere? 

Amalia Guglielminetti, crediamo, è stata sincera quanto può esserlo una donna innamorata; che poi conoscesse a fondo se stessa e la propria natura, è un altro paio di maniche. Certo ha sofferto, e da queste righe appare chiaramente, di non veder compreso il suo amore, di non vedersi corrisposta così come aveva sperato. Lui cercava un’amica, lei cercava un amico e un amante insieme: equivoco sgradevole e pericoloso; ed è già una gran cosa se, alla fine, poterono ritornare amici e seguitare a scriversi, sia pure dopo aver sacrificato la dimensione passionale della loro relazione, come in fondo desiderava lui sin dall’inizio. Tutto questo potrebbe  far venire alla mente altri epistolari dominati da una tale sfasatura, da una tale differenza di livelli sui quali i due amanti-amici intendono collocarsi: ad esempio quello di Abelardo ed Eloisa; anche in quel caso la passionale è lei, il razionale è lui; e, anche in quel caso, la relazione – complici le ben note e drammatiche circostanze esterne – i fremiti passionali finiscono per placarsi, ma probabilmente solo in superficie, nella contemplazione di un superiore distacco spirituale.

Vedremo, a suo tempo, anche il punto di vista di lui, di Guido Gozzano, sempre attraverso alcune sue lettere: senza di che, la presente riflessione sarebbe a senso unico e del tutto inattendibile. Una cosa, fin d’ora, ci sembra piuttosto chiara: la causa più comune della sofferenza amorosa non è tanto il fatto, in sé quasi banale nella sua evidenza, che uno ami e l’altro no, oppure che uno ami più dell’altro, bensì la distanza che si apre fra le aspettative iniziali e la piega concreta che prende poi la relazione. Quanto più le aspettative sono vaste e indefinite, tanto più forte saranno la delusione e il senso di tradimento; ma le aspettative sono tanto più vaste e indefinite, quanto più grande è la sete dell’anima che nasce dall’ignoranza di sé e dall’istintivo bisogno dell’altrui sostegno. Comunque, fanno male i filosofi a disdegnare queste cose, ritenendole troppo umili per le loro alte speculazioni; e ancor peggio a disprezzare i palpiti del cuore, che rivelano una nobile tensione verso l’assoluto…