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Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano (II parte)

di Francesco Lamendola - 20/07/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Abbiamo visto, per sommi capi, l’andamento della infelice relazione sentimentale fra la poetessa torinese Amalia Guglielminetti e il suo concittadino e collega Guido Gozzano, basandoci su alcune lettere di lei, tratte dal loro epistolario (cfr. il precedente articolo «Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano: quando un amore appassisce e muore», pubblicato su Il Corriere delle Regioni in data 02/05/2015); ci resta ora da considerare il punto di vista di lui.

A tal fine, abbiamo trascelto tre lettere dalla loro corrispondenza, particolarmente significative per comprendere quello che Gozzano sentiva nei confronti di Amalia e ciò che pensava della loro relazione (da: «Ti dico che ti amo. Le più belle lettere d’amore di ogni tempo e paese», a cura di G. D. Bonino, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1977, pp. 1126-128; 144-145; 169-170):

 

«UNA DOLCEZZA UN PO’ ACRE SULLE LABBRA [S. Giuliano d’Albaro, 9 dicembre 1907]

Povera Amica, ho il mare d’innanzi e Voi non ci siete più! Che cosa strana. Si saluta una creatura, si sale in treno, si va, si discende, ci si guarda introno: e la creatura non c’è più! Non c’è più; è come se fosse morta: di lei restano superstiti nella retina qualche atteggiamento della persona, qualche nota della voce, non altro. Che cosa strana! Ed ho riveduto il mare, il mare che sa consolare di tante cose anche di questo nostro cattivo ultimo giorno… Ritornando qui, nel luogo stesso dove avevo ricevuto le vostre prime lettere, il mio spirito si è ricongiunto al tempo nel quale ancora Voi eravate  per me “Amalia Guglielminetti”. E tutto quanto il Destino volle fare di noi, mi pare lo spasimo d’un febbricitante; e della cosa cattiva più nulla resta fuor che una dolcezza un po’ acre sulle labbra e sulle gengive, come quando si è troppo a lungo masticato la corolla di certe violette…

Il mare è pur sempre il grande purificatore: io mi sento l’anima leggera e monda, nata da ieri. C’è un tepore, una gaiezza nell’aria! Tutto l’orizzonte che traspare dalla mia finestra non è che l’armonia di due fasce azzurre: una più cupa: il mare; una più chiara, il cielo…Lasciando Torino ho avuto come un senso di liberazione. Per tante cose. E principalmente per Voi. Era tempo! Era tempo di frapporre fra noi due molti mesi e molti chilometri! Non già che io fossi per commettere qualche pazzia(non ho amato pur troppo fino a ora e forse non amerò più; non amerò mai se non ho amato Voi!) ma il desiderio della Vostra persona cominciava ad accendermi il sangue con una crudeltà spaventosa; ora l’idea di accoppiare una voluttà acre e disperata alla bellezza spirituale di una intelligenza superiore come la vostra mi riusciva umiliante, mostruosa, intollerabile…

Quando l’altro giorno uscii dal vostro salotto con la prima impronta della vostra bocca sulla mia bocca mi parve d’aver profanato qualche cosa in noi, qualche cosa di ben più alto valore che quel breve spasmo dei nostri nervi giovanili, mi parve di veder disperso per un istante d’oblio un tesoro accumulato da entrambi, per tanto tempo, a fatica. E ieri l’altro, quando scendeste disfatta nel vestito nel cappello nei capelli, e mi lasciaste solo in quella volgare vettura di piazza, io mi abbandonai estenuatissimo contro la spalliera, dove alla finezza del vostro profumo andava succedendo l’acredine del cuoio logoro… E nel ritorno (orribile!) verso la mia casa, sentivo il sangue irrompermi nelle vene e percuotermi alla nuca come un maglio, e, col ritmo fragoroso dei vetri, risentivo sulla mia bocca, la crudeltà dei vostri canini. Sono rientrato in casa con un desiderio solo: partire, lasciare Torino subito. E quest’oggi ho il mare d’innanzi! Sono libero e sono felice. V’ho scritto giorni fa che in questa pace l’immagine vostra sarebbe risorta nella mia memoria, “come la fronda nell’acqua che s’acqueta” – È vero! Già siete ritornata per me la buona sorella che – vicina – “non vi sentivate di essere” – Vado a vedere il mare prima di salutarvi.  Il mare è furibondo: s’accartoccia sotto la mia finestra ribollendo con voce sorda… Non m’ha salutato e non mi lascia di salutarvi. Io penso, guardandolo ed ascoltandolo, a un giudice iroso che ci ammonisca entrambi. È così!

SCOMPARSA NEL LABIRINTO. [Torino, ultimo d’aprile 1908; da domani in poi: Aglié-Meleto]

Amalia, dedico a te le prime linee dopo parecchi giorni di clausura febbricitante: sono stato pochissimo bene e sono di umore deplorevole. Per fortuna ho pesato poco a te, in questo tempo, ché altrimenti t’avrei pensata male… È così: la tua immagine, come tutte le cose belle, non trova presa sul mio spirito che quando questo è sereno e buono e favorevole. Da qualche giorno invece sono amaro e cattivo. Per tante cose della vita comune: e grandi e piccole, che sono un martirio alla mia sensibilità e un disastro completo per il mio sentimento lirico. Per questo tu e la poesia siete esulate dalla mia anima: e ne sono tanto triste! Domattina ritorno ad Aglié definitivamente. Spero di ritrovare, nella pace canavesana, la mia salute e me stesso. E ti scriverò. Grazie della tua lettera buona: sono lieto che la tua vita romana sia fin ora immune di episodi  spiacevoli. Scrivimi quando ti senti, e quando hai qualche piccola curiosità da parteciparmi. Sai che mi diverto…Come deve apparirti scolorito e lontano il “piccolo amico” da un centro spaventoso come Roma grande. Ma anche tu non ne guadagni agli occhi miei: la tua figura mi è divenuta estranea come se scomparsa in una tomba o un labirinto: non so… Ti penso un po’ come una morta, mentre ti bacio.

È GIUNTA L’ORA DELL’AMICIZIA. [Il Meleto, 24 maggio 1908]

Mia cara Amica, l’altro giorno, lacerando la busta, ero certo di quanto la vostra lettera potesse contenere. E ho letto senza sorpresa e senza dolore. No, Amalia mia, non farò nulla perché “vi riattacchiate a ciò che prima vi appassionava tanto. È giunta l’ora dell’amicizia. Ed è ben che sia giunta. Io sento, per questo, una serenità nuova nell’anima, e il ricordo del passato nostro è senza rimpianti, a pena a pena soffuso di una lievissima malinconia. Vi scrivo della mia solita stanza, dinnanzi alla mia solita finestra, al medesimo posto…I vetri sono chiusi pel vento terribile: fuori le piante si torcono con un brivido che fa pena…Ed io ho l’anima così quieta e così silenziosa! È uno strano contrasto: il paesaggio esterno e il mio paesaggio interiore…

Ma parliamo di Voi, amica mia; ne ho ben sempre il diritto. Di voi ho perduto la parte meno cara al mio spirito: la creatura amante: ma mi resta l’altra: l’amica buona, la compagna necessaria. Tanto necessaria. Anche di lontano, specialmente di lontano, sento il bisogno della vostra mano fraterna: e questa non mi verrà mai meno, non è vero? Voi siete lo spirito più affine al mio, come predilezioni e come sogni, e nessun compagno può comprendermi, confortarmi, animarmi e aiutarmi come potete Voi… Siatemi, dunque, benevola sempre…

Perdonatemi – scrivetemi – ricordatemi.»

 

Abbiamo affermato che la sofferenza più grande che può determinarsi fra due esseri umani che si amano, o che si sono amati, è quella dovuta alla sproporzione fra le loro aspettative, o quelle di uno di essi, e la realtà concreta che il loro rapporto assume, nell’ambito della vita d’ogni giorno: ossia, se si vuole, nel passaggio dalla dimensione “sacra” dell’innamoramento, a quella “profana” della relazione successiva.

Ebbene, dalle lettere di Gozzano emerge chiaramente ciò che già s’intuiva da quelle della sua amica: Amalia, passionale e irruente, aveva idealizzato l’oggetto del suo amore e non riusciva a vederlo per quello che era, un giovane gravemente malato, che aveva posto – a difesa del proprio equilibrio – una invalicabile barriera fra sé e gli altri: la barriera dell’ironia. È difficile immaginare qualcosa di più sottilmente crudele di quella descrizione della donna che scende disfatta dalla carrozza (senza rinunciare al gioco di assonanze fra “cappello” e “capelli”, l’uno e gli altri sgualciti), il vestito in disordine, dopo avere impresso il segno dei propri canini affilati sulle labbra dell’uomo: e di inviare all’amante un siffatto ritratto, quasi una fotografia oscena, come a dirle: «quanto eravate brutta e volgare: impossibile amarvi ancora, dopo avervi vista così» (perché Guido insiste a darle del “voi” perfino adesso) «e dopo che vi avevo creduta una dolcissima Beatrice».

Se un uomo desiderasse ferire a sangue la donna che lo ama, difficilmente potrebbe immaginare di adoperare con lei un linguaggio più sferzante, più spietato di questo. E intanto ci par di vedere quella vettura di piazza che gira a casaccio per le strade di Torino, con i due amanti che si scambiano baci furiosi, disperati di non avere una garçonnière, ma lacerati da due forme opposte di disperazione: lei, di non potersi dare interamente, lui di essersi spinto anche troppo in là, atterrito dalla profanazione che sta compiendo e disgustato per quei denti, quella bocca, quel corpo magro e avido di donna, dalle ginocchia ossute e affilate, che lo sugge come un vampiro, che lo danna come una Salomè (di cui dilagava il fantasma, in Europa, dopo la “prima” del dramma di Oscar Wilde): con tanto di Giudice “iroso”, di Yahwé corrucciato, che scuote il capo in un gesto di condanna.

Povera Amalia, in che braccia si è gettata: era tanto grande il suo bisogno d’amore, da accettare simili umiliazioni senza fare una piega? Quale donna non si sarebbe sentita offesa a morte da quel tono, da quelle allusioni, da quella specie di freddo, inumano umorismo? Eppure, Amalia non si è data per vinta; ha continuato a sperare, a credere nel proprio amore: come tutte le donne intelligenti e ostinate, ma dominate da un carattere passionale, nemmeno adesso ha potuto vedere Guido per ciò che è, a capire quel che lui cerca: l’amica e non l’amante; sebbene egli sia stato chiarissimo, fino alla crudeltà, fino quasi al disprezzo. Probabilmente ha creduto di poterlo “redimere”, di poterlo “salvare” dai suoi stessi timori, dalla sua freddezza, dalla sua paura di lasciarsi andare: ha voluto vedere in lui solo una parte della verità, il bambino spaventato e consapevole di dover morire giovane, e non l’altra parte: l’amico buono, ma un po’ egoista, lo scrittore ambizioso, assetato di fama e di successo, indisponibile a una vera intimità del cuore, se non attraverso il mezzo della pagina scritta.

«La vita, o la si vive o la si scrive», ha sentenziato Pirandello: e, mentre Guido, dopo essere stato un po’ in bilico, incerto sul da farsi, aveva deciso di scriverla e di sognarla (anche attraverso gli occhi stupefatti dell’infanzia: quando ci si deciderà a riconoscerne la grandezza di scrittore di fiabe per bambini, più ancora che di poeta crepuscolare?), Amalia, invece, d’istinto, con tutto il fuoco della sua indole “meridionale” – pur essendo torinese purosangue – intendeva viverla davvero, e non solo di guardarsi viverla dal di fuori: “vergine folle” pure lei, mezza liberty e mezza dannunziana, come le eroine del suo primo libro di poesie, così in sintonia con i ritratti femminili di un Dante Gabriel Rossetti, di un William Morris o di un Edward Burne-Jones, ma anche con qualcosa delle indimenticabili donne della Scapigliatura, a cominciare dalla torbida Fosca di Iginio Ugo Tarchetti e, naturalmente, dalla lasciva e perversa Livia di Camillo Boito.

Uno psicanalista freudiano potrebbe sbizzarrirsi a vivisezionare il complesso edipico che trattiene Guido sull’orlo della relazione fisica, che pur desidera e dalla quale è così turbato, ma che lo respinge con gli spettri del disgusto e del senso di colpa; è un’operazione che gli lasciamo più che volentieri. Quel che vediamo, è l’immensa sproporzione fra le aspettative di Guido e quelle di Amalia: per lui, la donna è l’amica-sorella, della quale desidera la comprensione, la vicinanza – ma non troppo – e il sostegno morale, ma con la quale sarebbe impossibile consumare l’incesto sino in fondo (a differenza di quel che farà Carlo di Maia con Maria Edoarda, sua sorella, nel capolavoro dello scrittore portoghese José Maria Eça de Queiros, «Os Maias», del 1888); per lei, l’uomo è una persona da amare in spirito e nella carne, tutto intero, senza compromessi o mezze misure, e rinunciando perfino ai propri sogni di celebrità.

Fra i due, Guido è il più “moderno” (e non è certo un complimento): la nevrosi dello sdoppiamento, della scissione dell’io, del divorzio fra la mente e il cuore, in lui è già allo stadio avanzato, come si vede nei romanzi – e nella vita – di un Proust, di un Kafka, di un Musil, di un Joyce e di uno Svevo, mentre lei, tutto sommato, e nonostante le apparenze, è ancora una donna dell’Ottocento, pur se tentata da sensuali e sconosciuti fremiti di libertà, da orizzonti inesplorati di sfida e trasgressione (quale signorina bene accetterebbe di ridursi in condizioni tanto deplorevoli, andando in giro con un uomo, su di una carrozza pubblica, per le strade della sua città?).

Amalia, senza dubbio, è anche la più coraggiosa e, forse, la più leale: per lui, rinuncerebbe anche alle proprie ambizioni; si accontenterebbe d’esser solo una donna innamorata. Senza dubbio, è la più sana: il bovarismo, il male letterario che vampirizza la vita “vera”, non l’ha ancora soggiogata...