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Il "caso Whirlpool" non può essere uno "spot"

di Mario Bozzi Sentieri - 29/07/2015

Fonte: Arianna editrice

 

Siamo lieti che la vertenza Whirlpool si sia conclusa positivamente. Le premesse non erano delle migliori. La multinazionale americana del settore elettrodomestici aveva infatti presentato, in primavera, un drastico piano di licenziamenti, con 2060 esuberi,  e la chiusura di alcuni siti produttivi, tra cui quello di Carinaro (Caserta) e None (Torino).

Giustificata la dura protesta dei lavoratori campani, che vedevano ulteriormente penalizzato un territorio già segnato dalla crisi,  a fronte di un piano di investimenti di circa 600 milioni, che privilegiava alcuni stabilimenti del Nord Italia.

Grazie ad una mobilitazione costante e all’opera di mediazione del Ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi,   l’accordo, tra Whirlpool e sindacati, sul piano industriale dei siti ex Indesit, acquisiti dalla multinazionale americana,  prevede ora investimenti per 513 milioni di euro nei prossimi quattro anni e garanzie sull’occupazione, grazie anche all’utilizzo della cassa integrazione e di contratti di solidarietà. Giusto perciò dare risalto all’accordo. Un po’ meno trasformarlo – com’è accaduto – in uno spot propagandistico da parte del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha voluto che l’accordo azienda-sindacati-governo venisse siglato, sotto i riflettori e di fronte alle telecamere,  a Palazzo Chigi, alla sua presenza oltre che dei vertici sindacali, per poi sottolinearlo  con l’ immancabile messaggio su  Twitter (“Missione compiuta”).

All’ennesima “operazione immagine”, su cui Renzi continua a giocare la sua principale partita politica, fa infatti purtroppo riscontro la debolezza “strutturale” della politica industriale dell’attuale governo in carica e – di conseguenza – la serie di vertenze ancora aperte.

Tra le più rilevanti Termini Imerese, Alcoa, Ilva, Fincantieri e Finmeccanica.

Il produttore statunitense di alluminio Alcoa ha annunciato ad agosto 2014 la chiusura definitiva del suo impianto di Portovesme, in Sardegna, lamentando eccessivi costi dell'energia. Dopo una vertenza che si è trascinata anni, per i circa 500 operai è arrivata la cassa integrazione. E' ancora in corso la trattativa con la multinazionale anglo-svizzera Glencore che consenta l'acquisizione e la riattivazione dello smelter di Portovesme.

Ancora in attesa di un progetto di rilancio lo stabilimento siciliano di Termini Imerese, dismesso quattro anni fa dalla  Fiat. Il ministero del Welfare ha di recente firmato il decreto che autorizza due ulteriori anni di cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione aziendale per i 700 dipendenti Blutec, società del gruppo di componentistica Metec che dovrebbe riprendere la produzione di auto nel sito palermitano.

Rimane aperto  il caso dell'Ilva, la principale azienda siderurgica italiana che solo a Taranto conta 15.000 dipendenti. L'impianto è al centro di un braccio di ferro tra governo e procura locale, che vorrebbe spegnere un altoforno dopo la morte di un operaio, anche se per l'Ilva così sarebbe a rischio la produzione.

Allo  “spot” legato alla  firma dell’accordo Whirlpool, che risolve una crisi aziendale,  corrispondono  purtroppo modalità d’intervento politiche disorganiche e di strategie “di sistema” parziali.

Manca, nello specifico, una visione complessiva della politica industriale che si vuole realizzare nel nostro Paese, a cominciare dal contrasto delle strategie invasive realizzate dalle multinazionali, impegnate, in molti casi, a ridimensionare il nostro sistema produttivo a tutto vantaggio della conquista di nuove fette di mercato. In questo “quadro” è paradossale che certe aziende lucrino – senza dare contropartite – finanziamenti pubblici, nazionali e regionali, utilizzando poi i piani industriali come vere e proprie “teste d’ ariete” in grado di disarticolare il nostro sistema produttivo.

Manca poi una chiara individuazione dei settori che si reputano strategici per la tenuta e la crescita del nostro sistema industriale e che andrebbero sostenuti con organiche politiche del credito, della ricerca, della formazione, delle infrastrutture.

C’è infine una carenza “metodologica” che rende ancora più evidente l’improvvisazione dell’attuale governo sulle realtà di crisi: la convocazione dei tavoli negoziali avviene spesso sulla spinta delle proteste dei lavoratori; mancano strumenti di consultazione-decisione; sono deboli le informative interne ed esterne le aziende.

Tutto appare, in definitiva,  frammentario ed improvvisato. Spesso stentano ad essere convocati i cosiddetti “tavoli” di crisi, con la conseguente dilatazione dei tempi della trattativa. Lo abbiamo visto per la “vertenza Whirlpool”.  Tra gli annunci dell’ azienda, le reazioni sindacali, le  proteste dei lavoratori e l’intervento del governo sono passate settimane, durante le quali era l’incertezza a regnare sovrana. L’idea di fondo è che  la  messa in discussione di un sito produttivo debba    essere considerata una  questione parziale, legata ad un territorio, coinvolgente i lavoratori impiegati ed i vertici aziendali, laddove invece essa riguarda i più ampi e generali assetti economici e sociali del Paese.

La  chiusura di un’azienda dovrebbe essere vista come una sconfitta nazionale e non solo come un problema di chi ci lavora. Il suo depotenziamento come una perdita di tutto il sistema produttivo. La sua “tenuta” come una vittoria per tutti.

Ed invece ci si accontenta – quando va bene – di un bello “spot”, ammiccante ed in favore di telecamera, laddove è  ad una grande, orgogliosa mobilitazione produttiva che bisognerebbe lavorare: individuando priorità, chiamando a raccolta competenze, dotandosi di strumenti efficaci d’intervento, se necessario pubblici, facendo – in definitiva – “sistema”. A partire dalle aziende, con una grande riforma partecipativa, per arrivare ai territori, passando per il sistema formativo e quello del credito.

Ed invece si arranca. Tra dismissioni industriali e disoccupazione. Di “spot” in “spot”. Di crisi aziendale in crisi aziendale.