La missione dell’uomo è accogliere l’amore di Dio
di Francesco Lamendola - 25/08/2015
Fonte: Il Corriere delle regioni
Qual è la missione dell’uomo? E qual è la missione dell’uomo nell’ordine sociale? E qual è, infine, la specifica missione del dotto, posto che ve ne sia una? Ci sembrano domande fondamentali, non solo per chi ama la ricerca filosofica, ma per qualsiasi essere umano, al fine di dare il giusto orientamento alla propria vita.
Prendendo lo spunto dalle lezioni domenicali che Johan Gottlieb Fichte tenne, dopo l’ufficio divino, agli studenti dell’Università di Jena, nell’estate del 1794 (mentre a Parigi le teste fioccavano come la grandine sotto la lama della ghigliottina, compresa quella di Robespierre), su questi temi, e servendoci, oltre che del testo del filosofo tedesco, della esposizione e del commento svolto su di esso dal bravo Battista Mondin, nella sua ingiustamente dimenticata, o sottovalutata, «Introduzione alla filosofia» (Milano, Editrice Massimo, 1974, pp. 302-319), proveremo a risollevare tali interrogativi e a fornire delle risposte.
Ci scusiamo in anticipo con tutti quei filosofi analitici, con tutti quei logici – di Oxford e di ogni altro luogo dell’Orbe terracqueo -, con tutti quegli psicanalisti, con tutti quegli specialisti di ogni singola branca del sapere moderno (perché il vero sapere, s’intende, non può essere che quello moderno, essendo ormai assodato che tutto quanto il pensiero umano ha prodotto prima dell’avvento della modernità non è stato che uno sconnesso, puerile balbettio, oltretutto negativamente influenzato da assurde ubbie metafisiche, teologiche, religiose) se il nostro discorso, che si articolerà nello spazio tre o quattro distinti interventi, avrà un carattere deplorevolmente inadeguato sotto il punto di vista scientifico, vale a dire deplorevolmente inadeguato “tout-court”, visto e considerato che solo il sapere scientifico, anzi, solo il sapere scientifico “moderno”, galileiano e post-galileiano (cioè razionalista, empirista, pragmatista, materialista, e via a seguire con tutti gli altri possibili “-ismi”) è degno di essere considerato come uno strumento adeguato di conoscenza, o, per meglio dire, esso è il solo ed unico adeguato strumento di conoscenza, di sapienza e di saggezza.
Ma tant’è: siamo, e lo confessiamo volentieri, poco inclini a siffatta adorazione della modernità e poco arrendevoli alle sue pretese, nonché alle sue magnifiche sorti e progressive; ci accontentiamo, consapevoli della nostra pochezza e insufficienza, di cercare la verità con retta intenzione, lucido raziocinio ed animo aperto, sensibile, accogliente verso qualunque fattore del reale ci lasci sperare di carpire, o anche solo d’intuire o intravedere, qualche brandello di luce, nelle tenebre fitte della nostra - e sottolineiamo “nostra” – ignoranza; ignoranza che non tocca minimamente, come è chiaro ed evidente, il secolo meraviglioso nel quale abbiamo l’incomparabile ed immeritata fortuna di essere nati.
Partiamo dunque, dalle riflessioni svolte da Fichte in «Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten» (pubblicata inizialmente anonima), opera che segna il suo passaggio dal criticismo kantiano all’idealismo vero e proprio, per poi sviluppare il nostro punto di vista. Per il pensatore tedesco (i riferimenti testuali sono presi da Mondin, op. cit.), nell’uomo si distinguono un Io puro, che ne è il principio spirituale, sovra individuale e assoluto, e un io empirico, che è il “qualche cosa” in cui l’Io puro, concretamente, si manifesta e che, a sua volta, non può esistere senza essere determinato dal non-io (ed ecco delinearsi la famosa triade dialettica, che verrà ripresa poi anche da Hegel, però sostanzialmente modificata: essere, non essere, divenire).
«Dicendo […] che si vuol considerare l’uomo in se stesso e isolato, non si vuol intendere di considerarlo… semplicemente come Io puro, senza rapporto alcuno con nessuna cosa che sia estranea a questo suo Io puro. S’intenderà soltanto pensarlo fuori di ogni rapporto con esseri ragionevoli simili a lui (Fichte, pag. 79). […]
L’uomo deve essere ciò che è soltanto per questa ragione, che egli è. In altri termini, tutto ciò che egli è, deve essere riferito al suo Io puro, al suo semplice essere come Io, o Iità. Tutto ciò che egli è, deve esserlo esclusivamente per questo, che egli è un Io, e ciò che egli non può essere per questa sola ragione, egli non deve assolutamente essere (pp. 81-82). […]
[Dunque] agisci in modo che tu possa pensare la massima della tua volontà come legge eterna per te (pag. 83). […]
[E la cultura] è l’ultimo e più alto mezzo per il fine ultimo dell’uomo, ossia, la sua perfetta coerenza con se medesimo (pag. 86). […]
[Il fine ultimo dell’uomo è la perfezione, ossia] la perfetta coerenza dell’uomo con se stesso, e, appunto perché egli possa raggiungere questa coerenza, anche la perfetta coerenza di tutte le cose esterne a lui (con la sua volontà) (pag. 86). […]
[La felicità è il fine ultimo, considerato come accordo fra le cose esterne e la nostra volontà, per cui la missione dell’uomo consiste nell’avvicinarsi all’infinito, perfezionandosi all’infinito.] Egli [ossia l’uomo] esiste per divenire egli stesso sempre moralmente migliore, e per rendere tutto ciò che trova intorno a sé migliore sensibilmente e anche… moralmente; e in questo modo fare se stesso sempre più felice. Questa è la missione dell’uomo in quanto lo si consideri isolato, e cioè senza nessuna relazione con nessun essere ragionevole simile a lui (pag. 88).»
A noi sembra che vi sia, nell’impostazione di Fichte, una doppia forzatura della questione: la prima, perché è semplicemente impossibile considerare l’uomo in stesso, e sia pure in via del tutto teorica, come isolato dagli altri esseri umani (e, aggiungeremmo noi, da tutti gli altri esseri non umani, e da tutte le altre cose); la seconda, perché a noi sembra un errore sdoppiare l’essere umano in un Io puro e in un io empirico, riproducendo il dualismo platinico fra l’Idea e la cosa concreta, oppure, nel peggiore dei casi, facendo del puro nominalismo.
A meno di giocare con le parole, nessuno è in grado di affermare che l’Io puro sia l’uomo in quanto tale, l’uomo senza specificazioni e determinazioni, mentre l’io empirico sarebbe l’uomo particolare, in quanto si manifesta sotto forma di “qualche cosa” (marito, padre, lavoratore, giovane, vecchio, buono, cattivo e via dicendo). Si può fare, invece, un’altra cosa: si può pensare che l’io empirico, vale a dire l’uomo concreto, storicamente determinato, altro non è che un riflesso o una emanazione o una creazione dell’Io puro, intendendo, però, con quest’ultimo termine, l’Essere con la “e” maiuscola, ciò che esiste assolutamente e conferisce l’esistenza agli enti, conservando, però, esso solo l’essenza dell’essere. Oppure si può prendere la via opposta, e negare che vi sia un io empirico, bastando a spiegare gli stati dell’essere le singole sensazioni, i singoli pensieri, i singoli atti ed eventi della coscienza: ma ponendo in dubbio, oppure decisamente negando, che tale coscienza sia “una”, e che corrisponda ad un “io” determinato e sempre uguale. Quello che non si può fare, è lasciare indeterminata la questione dell’autentico rapporto fra l’Essere e gli esseri, fra l’Io e i singoli io; quello che non si può fare, ma gli idealisti lo fanno, è giocare sull’equivoco e alludere al fatto che l’Io puro sia, contemporaneamente, l’Assoluto e la radice dell’io empirico.
Il fatto è che l’Io puro di Fichte deriva dall’Io penso di Kant; ma Kant supponeva ancora che vi fosse, al di là del reale conoscibile dal soggetto, ossia il fenomeno, anche una realtà in se stessa, che rimane tuttavia inconoscibile (il Noumeno); mentre Fichte sopprime questa cosa in sé, o meglio, risolve tutto il reale nell’Io puro, senza residui. Così, appunto, dal criticismo si passa all’idealismo: vale a dire ad una concezione del reale, secondo la quale nulla esiste, nulla si dà al di fuori del pensiero, che, non potendo essere anteriormente ai singoli io empirici, evidentemente deve essere pensiero di se stesso, Pensiero assoluto; ma un Pensiero che si pone, e, ponendosi, si pensa, dunque anche agisce; e, agendo, agisce assolutamente, pertanto non si dà alcuna azione o alcuna realtà fuori di esso. In definitiva, non esiste un mondo esterno: l’Io è tutto, soggetto e oggetto, pensiero e azione, dentro e fuori: come si vede, si tratta di un sistema nettamente solipsistico, nel quale non è ammissibile alcuna realtà che non sia l’Io. E questa è, secondo noi – sia detto fra parentesi – l’inizio della pazzia del pensiero moderno: l’aver supposto un pensiero anteriore all’essere, nel quale l’essere si risolve: come se potesse darsi un pensiero che non sia pensiero di qualcosa o di qualcuno e come se il pensiero, che dà sempre e solo pensiero, perché è pensiero di un essere, potesse dare qualcosa d’altro da sé, cioè potesse dare l’essere.
Ad ogni modo, pensare l’uomo isolato dagli altri esseri è impossibile: semplicemente, un tale uomo non esiste. Nemmeno Robinson Crusoe è del tutto isolato: sulla sua isola “deserta” ci sono, in realtà, gli alberi, le capre; più tardi, arriva perfino un altro essere umano; e, se anche lo fosse, con lui resterebbero i ricordi, gli affetti, le esperienze della vita anteriori al naufragio, oltre alla speranza di farvi ritorno. Insomma nemmeno lui è concepibile come un essere umano staccato e separato nella propria individualità: è appunto l’altro da sé, il non-io, che lo definisce come uomo singolo: questo lo riconosce lo stesso Fichte. È vero che quest’ultimo parla di “altri esseri ragionevoli”: ma perché fare questa distinzione, perché stabilire questa specificazione? Un animale, una pianta, non saranno ragionevoli, ma ceto sono esseri viventi e senzienti. Evidentemente, Fichte prende per buona la radicale distinzione cartesiana fra “res cogitans” (il pensiero, e dunque gli esseri umani) e la “res extensa” (tutto il resto: e non solo l’insieme degli altri enti, animali compresi, ma perfino il corpo dell’uomo, che viene così a trovarsi spaccato e diviso in se stesso, nella propria essenza o statuto ontologico). Certo, da un filosofo idealista del XIX secolo ci si aspetterebbe almeno un passo avanti rispetto al rigido dualismo cartesiano: e Schelling, infatti, quel passo avanti lo farà; ma non Fichte, e neppure Hegel.
Quanto al fatto che l’uomo, per tutto quel che deve essere, o diventare, è necessario che si riferisca al proprio Io puro, era più semplice dirlo così: l’uomo, per realizzarsi come essere morale, deve cercare in se stesso l’essenziale: e l’essenziale è la propria natura “aperta”, non definita, sospesa fra innumerevoli possibilità. Sono appunto queste possibilità, che ne fanno una creatura libera: se non vi fossero, sarebbe totalmente determinato e non avrebbe senso chiedergli di essere una cosa oppure un’altra, né pretendere che divenga qualcosa o che si perfezioni. Ma che cosa deve essere, per l’appunto, questo essere libero che si chiama uomo? Lasciamo perdere la “iità” e ogni altra simile bizzarria linguistica e concettuale: non c’è nessuna “iità”, c’è solamente un essere che, per determinarsi, deve capire quale sia il suo fine, a che cosa sia stato chiamato. Ma quest’ultima espressione, a Fichte, non piacerebbe: esser chiamato vuol dire che qualcuno sta chiamando: per lui, tuttavia, chi chiama e chi è chiamato, in ultima analisi, sono la stessa cosa. In fondo, è l’Io puro che chiama se stesso: e chi altri potrebbe chiamare, visto che nulla esiste, o meglio, visto che nulla è reale, all’infuori di lui?
Così, Fichte smarrisce totalmente la nozione dell’altro; e, così come perde la nozione dell’altro, evidentemente smarrisce anche quella dell’Altro, dell’Altro con la “a” maiuscola. Non c’è, non può esservi un Altro rispetto all’Io puro, ma solamente il non-io; e, anche questo, solamente nella dimensione dell’io empirico. Grandezza e miseria del solipsismo: è una filosofia di natura tale che parrebbe capace di spiegare tutto, ma in realtà non spiega un bel nulla. Se nulla si dà veramente oltre all’Io puro, da dove viene il suo stesso interrogarsi? Dall’io empirico? E l’io empirico, da dove lo ricava? N on basta dire che lo ricava dal non-io: bisogna mostrare come ciò avvenga. Di fatto, il non-io non è un “altro”, ma semplicemente assenza dell’io, esso è ciò che non è l’io (empirico): troppo poco per avere la forza d’interrogare chiunque, su alcunché. Le domande nascono da un soggetto rispetto a un oggetto: non nascono dal nulla.
Ma ecco che le cose esterne all’io divengono così importanti, da spingerlo alla ricerca del perfetto accordo con esse; e da tale accordo, scaturisce niente di meno che la sua perfezione. Ma che cosa sono, esattamente, queste cose esterne all’io? Abbiamo visto che, per Fichte, l’unica realtà vera è l’Io puro: il non-io non è qualcosa di reale, è il limite dell’io empirico. Si direbbe che l’io empirico possa solo essere interrogato dall’Io puro, non dalle cose, che sono non-io. Ma se l’Io puro potesse interrogare l’io empirico, allora esso sarebbe come Dio che interroga le proprie creature: una possibilità che Fichte respinge, perché nella sua concezione non c’è posto per Dio come Persona, ma soltanto per l’Idea, cioè, in pratica, per l’Io puro: pensiero che pensa se stesso, anteriore allo stesso pensato.
Un take Dio ha qualcosa a che fare col Motore Immobile di aristotelica memoria: come lui, non può far altro che pensare; se poi vogliamo chiamare questo pensare con il nome di Atto puro, facciamolo pure: ma sia chiaro che è un “atto” solo in senso figurato. Nella realtà, l’atto è un movimento, il che fa a pugni con il concetto di Motore Immobile, perché ciò che sta eternamente fermo, evidentemente, non produce alcun movimento. E così l’Io penso di Fichte. Se il pensante e il pensato sono, in definitiva, la medesima cosa, come può il pensiero di se stesso tradursi in movimento? Perché il movimento consiste nell’andare verso l’altro: è il procedere di un soggetto verso il proprio oggetto. Se si sopprime la distinzione di soggetto e oggetto, si sopprime anche l’idea stessa di movimento e il reale si congela in una immobilità totale e immodificabile.
Questo è il circolo vizioso dell’idealismo, la sua aporia senza scampo. Se tutto il reale non è altro che idea, di chi è tale idea? Da chi è pensata? Se non è pensata da alcuno, può essere che sia pensata da se medesima? Secondo gli idealisti, sì; secondo il buon senso e la logica più elementare, no. Pare che ci si trovi davanti a una specie di lucida pazzia: lucida, perché gli idealisti sono dei pensatori rigorosi, fin troppo; ma follia, perché, tutti presi nelle loro ardue speculazioni, perdono il contatto con la realtà. Solo nel mondo delle parole si può discutere seriamente di un pensiero che non solo non deriva dall’essere, ma che dà origine all’essere: sarebbe come dire un carro che spinge avanti i buoi, o come un mare che esiste grazie alla nave che lo sta solcando.
Infine, il discorso sulla felicità. Per Fichte, la felicità è una conseguenza, un premio che viene all’uomo allorché egli si mostra capace di realizzare un accordo fra le cose fuori di lui, e la sua volontà. Questo, secondo lui, avviene in quanto egli sia capace di modificare le cose, ossia di ridurle ad unità, da molteplici che sono, in modo tale da farle corrispondere alla forma pura del suo io. L’uomo, dunque, non è un contemplatore della realtà, ma un modificatore: egli deve agire sulle cose, manipolarle, adeguarle a sé, stenderle sul letto di Procuste della propria misura: tagliando quel che è di troppo e allungandole per quel che manca. Eppure, le cose parevano consistere unicamente nel non-io, in quello che l’io non è: come sarà possibile, allora, agire su di esse? E agire in maniera così forte, così massiccia, così invasiva? Posto che vi riesca, poi, non accadrà all’uomo di veder svanire e dissolversi, tra le sue stesse mani, quel non-io dalla cui presenza ricavava la coscienza di se stesso? E d’altra parte, se vi riesce, come sarà ancora se stesso e non si perderà nel nulla, essendo venuto meno il limite alla propria(per dirla con Fichte) “iità”?
Per questa via sarà ben difficile andar lontano: si spiega tutto a parole, si “supera” tutto a parole (il momento dialettico essendo il superamento di quello precedente), ma non si esce mai, in verità, dal circolo vizioso: il pensiero dà solo pensiero e non essere. Se il pensiero potesse dare l’essere, allora sarebbe Pensiero di Qualcuno, e non pensiero di se stesso, che è un concetto privo di senso comune. Ma codesto Pensiero di Qualcuno sarebbe, propriamente, Dio: un Dio esterno all’io empirico e non, semplicemente, l’atto puro del pensiero di quest’ultimo. L’io empirico cesserebbe di essere una specie di Dio che non sa ancora di esserlo, e riconoscerebbe di essere l’oggetto posto da un Soggetto assoluto, dal quale è chiamato.
Ma questa concezione richiede troppa modestia, troppa umiltà da parte dell’uomo, per una filosofia che delira di onnipotenza come quella idealista. In fondo, l’idealismo è l’estremo, e – a suo modo – il più coerente tentativo dell’uomo di farsi il Dio di se stesso: degno approdo della cultura moderna, protesa da secoli a svilupparsi in tale direzione. L’Io puro di Fichte è un Dio che diviene, il Dio che sarà; e noi, in fondo, siamo lui, solo che non lo sappiamo ancora.
Che senso ha, allora, domandarsi quale sia il fine dell’uomo? Il fine dell’uomo è divenire Dio; e la felicità consiste nel riconoscersi tale.
Oppure no? Oppure il fine dell’uomo è riconoscere Dio (e non, come per Fichte, avvicinarsi all’assoluto: un ossimoro, una contraddizione in termini), appunto prendendo atto della propria condizione creaturale? Perché, se così fosse, il non-io sarebbe la sua benedizione: ciò che gli rivela il suo limite netto, preciso, invalicabile di creatura. Un limite che solo il movimento di Dio verso di lui – movimento gratuito, libero, ineffabile -, che è l’Amore, potrebbe mai colmare. Purché l’uomo vi acconsenta.
Riuscirà a trovare, l’uomo, abbastanza umiltà e sufficiente coraggio, per pronunciare questo “sì”?