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La missione dell’uomo nella società è di perfezionarsi, non d’annullarsi

di Francesco Lamendola - 25/08/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 


 

Proseguendo sulla falsariga dell’opera di Johann Gottlieb Fichte «La missione del dotto», dopo esserci domandati quale sia la missione dell’uomo considerato in se stesso, intendiamo chiederci adesso quale sia la missione dell’uomo all’interno della società, e quale sia la missione della società medesima.

Anzitutto: come possiamo sapere di trovarci di fronte a una società umana, e non a qualche cosa d’altro, per esempio ad una società di insetti organizzati, come le api o le formiche? Sarebbe troppo facile, evidentemente, rispondere che chi si trova davanti a un alveare o a un formicaio, sa moto bene di non trovarsi davanti a una città o ad una qualunque altra comunità umana: a Fichte, questa distinzione empirica non basta. Egli allora va in cerca di quali siano le caratteristiche specifiche di una comunità intelligentemente organizzata, e dunque costituita da esseri intelligenti - ricordiamo la sua rigida distinzione cartesiana fra esseri intelligenti e semplici bruti: cosa niente affatto strana, se si pensa che, in fondo, l’Io puro di Fichte, con la mediazione dell’Io penso di Kant, viene, in ultima analisi, dal “cogito ergo sum” di Cartesio. E allora, perché vedere le cose troppo facili, quando si può fare in modo di renderle difficili? Ebbene, Fichte giunge alla conclusione che due sono le caratteristiche specifiche di una società intelligente: il primo è la finalità, ma ha il difetto di non essere del tutto sicuro (può esservi finalità anche in una società di formiche, appunto), il secondo è quello della libertà. Dove c’è libertà, là devono esservi degli esseri intelligenti; mentre gli animali, evidentemente, agiscono secondo il proprio istinto e dunque non possono scegliere fra due alternative, perché, appunto, non possiedono la libertà.

Potremmo osservare che anche questo, a ben guardare, è un criterio empirico, anzi, peggio, è un criterio che ha il grave inconveniente di potersi applicare solo a posteriori: infatti, dopo che una azione è stata intrapresa, noi posiamo giudicare (e nemmeno sempre, a dire il vero) se essa è stata intrapresa in libertà, oppure se ha obbedito a un cieco impulso, ovvero a un istinto, cosa che esclude una libera scelta; ma non prima. Quando il ragno si appresta a tessere la sua tela, non possiamo ancora dire come procederà, e dove, e quando; non possiamo dire, a rigore, che agirà solo per istinto, se “istinto” significa l’opposto della libera scelta; solo dopo che l’avrà tessuta, constatando la peretta riproduzione di uno schema sempre uguale a se stesso, potremo concludere che il ragno ha agito in modo non libero, ma interamente condizionato dalla propria natura.

Noi, invece, presupponiamo che l’uomo sia libero di agire in un modo oppure in un altro, o anche – naturalmente – di non agire affatto; presupponiamo, cioè, che egli non sia condizionato, se non in parte, da fattori estranei alla sua libera volontà; e che gli rimanga, in tutti i casi, almeno un ceto margine di iniziativa, nella quale riversa, appunto, il proprio mondo interiore, e non si limita a riprodurre degli schemi fissi e rigidamente preordinati – come fanno gli animali, da un lato, e le macchine, dall’altro. Certo, su questo punto non vi è accordo tra i filosofi; alcuni – anche se una minoranza – negano, e storicamente hanno sempre negato, che l’uomo possieda un tale spazio di manovra, una vera e propria libertà; Fichte ha tutto il diritto di ignorare questa minoranza – cosa che, del resto, facciamo anche noi; non, però, ci sembra, quello di presupporre la libertà dell’uomo, e poi di affermare che la libera azione dei membri di una data società ci fa avvertiti che quella società è formata da esseri ragionevoli. Questo è troppo comodo: trae una conseguenza da una causa che è stata posta, sì, ma non dimostrata; e dunque si risolve in una semplice tautologia: le cose stanno così, perché noi abbiamo deciso che stanno così.

Fatta questa necessaria premessa, procediamo con la seconda delle cinque lezioni di Fichte sul tema «La missione del dotto», tenute a Jena nell’estate del 1794; nella quale, come fa notare Battista Mondin («Introduzione alla filosofia», Milano, Editrice Massimo, 1974, pp. 306-310), il filosofo tedesco sostiene che i presupposti della società sono due:

 

«Che vi siano esseri ragionevoli al di fuori di noi, [e] che noi li possiamo distinguere da tutti quegli altri esseri che sono invece irragionevoli (Fichte,  pag. 96). […] Tra le sue esigenze (dell’Io va annoverata anche questa: che si trovino, nella realtà a lui esterna, esseri ragionevoli simili a lui (pag. 100). […]

Il primo carattere che subito ci si presenta per riconoscere la ragionevolezza è quello della finalità; tutto quello che porta impresso il carattere della finalità può avere un autore ragionevole (ib). […] L’unificazione del molteplice in un tutto coerente carattere della finalità ma vi sono parecchie specie di unificazioni consimili che si lasciano spiegare con semplici leggi naturali (non certo meccaniche, ma organiche) (pp. 101-102). […]

 [Oltre alla finalità, un criterio sicuro è quello della libertà: infatti] qualsiasi unificazione di un molteplice in un tutto coerente, la quale fosse operata mediante la libertà sarebbe una caratteristica sicura e non equivoca, che il fenomeno stesso ci offrirebbe della ragionevolezza [poiché] la natura anche là dove opera secondo fini, opera però secondo leggi necessarie; la ragione invece opera sempre con libertà (pag. 102). […]

[Dopo aver ammesso che non si può stabilire in anticipo quale azione sia libera perché la libertà è presupposta a qualsiasi esperienza (il che fa cadere tutto il suo ragionamento), Fichte distingue tra società e Stato: necessaria e permanente la prima, transitorio e contingente il secondo: infatti] la vita nello Stato… non può dirsi uno dei fini dell’uomo. Essa è piuttosto un mezzo… per la fondazione di una peretta società (pp. 105-106). [Quando si sarà cresta una società perfetta] saranno divenuti superflui tutti quei vincoli i quali costituiscono lo Stato (pag. 106). […]»

 

La società, dunque, è fine a se stessa; e suo fine è il perfezionamento  della specie umana, mediante l’unificazione totale e la concordia dei suoi membri: un obiettivo ambizioso, ma perfettamente in linea con i presupposti e gli ideali del cosmopolitismo di matrice illuminista (anche se, nella fase successiva del suo percorso filosofico, Fichte, in linea con il sentore del Romanticismo, approda a un nazionalismo piuttosto virulento, d’altronde spiegabile anche quale naturale reazione al dominio napoleonico sulla Germania e all’umiliazione subita dalla Prussia).

C’è da chiedersi, semmai, se Fichte non sia stato affatto un utopista, con quel suo progetto di totale unificazione mondiale, ma un pensatore perfettamente in linea con certe tendenze e con certi circoli culturali e politici ci quali caldeggiavano, appunto, l’instaurazione di una sorta di confederazione mondiale, sotto l’egida di un progetto rigorosamente razionale e i cui fini, forse, non erano altrettanto ben conosciuti dai semplici simpatizzanti, o dai “militanti” degli strati pi inferiori, quanto dai dirigenti, talora occulti, di tali organizzazioni. Ci riferiamo, naturalmente, alla Massoneria, nelle sue varie logge, ramificazioni e anche alle sue eventuali deviazioni; ma ci riferiamo anche a un oscuro pullulare di strani gruppi, ancor più segreti e ancor più audaci, animati da un vero e proprio progetto totalitario, e sia pure di democrazia totalitaria: per esempio, agli Illuminati di Baviera, gruppo fondato da Johann Adam Weishaupt nel 1776, in alternativa e in concorrenza alla Massoneria, da essi ritenuta non sufficientemente ardita e rigorosa nel disegno di costituzione di una società mondiale razionalmente organizzata in senso materialista e antireligioso.

Ora, Fichte era un massone dichiarato, autore – nel 1810, dunque sedici anni dopo «La missione del dotto» - di un libro considerato fondamentale in quest’ambito, «Lezioni sulla Massoneria», tratto, anche in questo caso, dalle sue lezioni; non è per niente fantasioso, pertanto, immaginare che vi sia stato un qualche contatto anche con esponenti degli Illuminati o che, quanto meno, le idee degli Illuminati traspaiano nel progetto fichtiano di una federazione politica mondiale; il che non deve essere considerato come scandaloso, ma nemmeno sottovalutato, consentendo di inquadrare tutto il progetto ideologico – e politico – del filosofo tedesco sotto una luce più esatta e, per certi aspetti, nuova, dato che tale aspetto della sua biografia e del suo pensiero era stato lasciato piuttosto in ombra (posto che no sia stato deliberatamente ignorato: ma a formulare tale ipotesi, si rischia di passare per fissati del complotto ad ogni costo).

Le idee di Fichte sull’assetto sociale sono, dunque, il riflesso di un disegno politico assai più ampio, un disegno a larghissimo raggio, perseguito da molti altri intellettuali e agitatori politici, mirante all’instaurazione di un vero e proprio Nuovo Ordine Mondiale? Non è possibile dirlo con certezza. Sia come sia, i tempi erano quelli: nel 1793-94, proprio mentre Fichte teneva le sue lezioni domenicali all’Università di Jena sulla missione del dotto, in Francia sorgeva un governo che si diceva, nello stesso tempo, rivoluzionario e democratico, il quale, per aver posto il Terrore all’ordine del giorno, ma anche per moltissimi altri aspetti della sua azione politica, può, a buon diritto, essere considerato come il primo esperimento di democrazia totalitaria della storia moderna (e si veda, a titolo d’esempio, il genocidio della Vandea, perpetrato contro i contadini rimasti fedeli ai loro signori e ai loro preti: il primo genocidio della storia moderna). E mentre i giacobini portavano innanzi le loro riforme sulla lama della “santa” ghigliottina, i sanculotti, sostenuti dagli “entragés”, si scagliavano contro quel che ancora restava del cristianesimo e della Chiesa cattolica, arrivando a modificare il calendario, a sopprimere la settimana (e l’odiata domenica: il giorno del Signore), lo stesso computo degli anni, non più dalla nascita di Cristo, ma dall’avvento della Rivoluzione, al fine di sradicare persino la memoria della religione cristiana.

Ma torniamo a Fichte e alla missione della società, nonché a quella del dotto all’interno di essa.

 

«Ciascun individuo ha il suo proprio ideale dell’uomo in genere; tutti questi ideali sono diversi non per materia, ma per grado. E ciascun individuo valuta ogni altro, che egli riconosca come uomo,  secondo il proprio ideale dell’uomo. Ciascuno desidera in virtù di quella aspirazione  fondamentale di trovare ogni individuo simile al proprio ideale dell’uomo; lo mette alla prova perciò e lo esperimenta in tutti i modi.  Nel caso poi che lo trovi inferiore a quell’ideale  cerca di sollevarlo alla medesima altezza. In questa lotta tra spirito e spirito vince sempre colui che è uomo in senso migliore  e più elevato (pp. 107-108).

[In conclusione,] l’uomo ha… la missione di vivere per la società… Questa missione per la società in generale è… tuttavia, in quanto mero impulso, subordinata a quella legge più alta della stabile coerenza con noi stessi (pag. 109).

[Non dobbiamo, però, comportarci da padroni, altrimenti metteremmo il nostro impulso alla socievolezza in contraddizione con se stesso:] Chiunque si ritiene padrone degli altri uomini è egli stesso uno schiavi (pag. 111). […] È lecito all’uomo usare le cose irragionevoli come mezzi per i suoi fini; ma non gli è lecito agire allo stesso modo con gli esseri ragionevoli (pag. 111).

[Ed ecco il fine ultimo dell’uomo sociale: l’unità perfetta con gli altri individui.] Se tutti gli uomini potessero diventare perfetti e raggiungere così il loro più alto e supremo fine, essi sarebbero allora totalmente simili ‘uno all’altro; formerebbero anzi u solo essere, un solo soggetto [insomma, cesserebbero di essere uomini per diventare Dio] (pag. 113).»

 

Così, siamo arrivati al punto. Dapprima Fichte sostiene che lo Stato esiste in funzione della società, che è questa, e non quello, ad essere necessaria e permanente; ora, invece, ci prospetta una società in cui gli individui spariscono addirittura (ma deificandosi, si badi!), perché diventano così simili, così identici l’uno all’altro, che qualunque differenza fra essi sparisce per sempre: e chi potrebbe operare un simile prodigio – o piuttosto, diremmo noi, un simile incubo alla Orwell – se non un Superstato mondiale, dotato di tutti gli strumenti della cultura, dell’educazione, dell’informazione, sì da poter modellare come docile argilla le menti di ogni individuo?

È vero: Fichte respinge con sdegno l’eventuale insinuazione che egli stia delineando un sistema ideale basato sulla coercizione; ma non avevano detto così anche i giacobini, prima di prendere il potere? Il filosofo tedesco sostiene che all’uomo non è lecito manipolare i propri simili, mentre è lecito farlo con le cose irragionevoli (si noti che, a questo punto, gli animali sono stati degradati addirittura a “cose”, non più a esseri). Dunque, è la ragione – come si è già visto – il fattore dirimente fra la condizione umana e quella dei bruti. Ma se qualcuno non volesse, né gradisse il Paradiso in terra prospettato dal massone Fichte, non si dovrebbe allora chiamarlo irragionevole? E non autorizzerebbe tale definizione, ipso facto, ogni azione di forza compiuta su di lui da chi possiede la ragione, come l’autorizza sui bruti?

Una cosa è certa. Se dovesse realizzarsi l’utopia mondiali sta di Fichte, con una forte struttura gerarchica ed un rigoroso controllo esercitato dal super-governo sulla scuola e sull’educazione, non è difficile immaginare quel che accadrebbe alla libertà del singolo individuo. Certo, si fa presto a dire che la più alta libertà consiste nell’annullamento totale del singolo entro la comunità di cui fa parte, per il bene comune: questa è precisamente la logica del formicaio e dell’alveare, ove l’individuo non conta affatto in quanto tale, ma solo come rotella dell’ingranaggio, sacrificabile in qualunque momento.

A dire la verità, forse non si tratta neanche di immaginare una tale situazione: forse si tratta semplicemente di osservarla, di constatarla nel suo silenzioso, ma inesorabile processo di costruzione. Le odierne ideologie mondialiste vanno precisamente in tale direzione, supportate dalla cultura dominante, controllata ormai da pochissimi soggetti; ed è appena il caso di accennare ai super-governi attuali, quelli palesi – ossia politici – e quelli occulti o semi-occulti – cioè finanziari - per sospettare che il progetto di Fichte abbia avuto assai più successo di quanto non si potrebbe pensare, leggendo il testo delle sue famose lezioni domenicali del 1794.

Qui rileviamo un grosso equivoco: che il “perfezionamento comune”, posto da Fichte come lo scopo finale cui deve tendere la società, e come lo scopo finale della vita umana all’interno di questa, significhi una progressiva distruzione della personalità individuale, un suicidio morale e intellettuale dei singoli individui, per giungere alla totale omologazione di ogni persona e di ogni popolo nella comunità mondiale dominata dal “nuovo ordine”.

Possiamo solamente sperare che ci sia risparmiata la iattura di dover assistere al realizzarsi definitivo d’un simile progetto, che farebbe scomparire le identità nazionali e locali, nello stesso tempo in cui ridurrebbe gli esseri umani al livello degli insetti sociali: al livello, cioè, delle api e delle formiche.