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La missione del dotto è quella di farsi sacerdote della Verità

di Francesco Lamendola - 25/08/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 


 

Nella terza delle sue lezioni su «La missione del dotto», Fichte, che si avvicina al tema centrale solo con molta cautela e ferrea metodicità, tratta della distinzione tra i diversi stati sociali e si domanda se il singolo uomo debba scegliere uno stato al quale appartenere, per il bene proprio e per quello della società medesima; e risponde affermativamente (come per i precedenti articoli, facciamo riferimento al testo di Fichte attraverso la mediazione di Battista Mondin, «Introduzione alla filosofia», Milano, Editrice Massimo, 1974, pp.310 sgg.):

 

«Così, per opera della ragione e della libertà viene corretto l’errore che la natura ha commesso (pag. 129). […] La ragione si trova impegnata in una lotta senza tregua con la natura; né questa guerra potrà mai aver termine, se pure non dovremo diventare iddii. Tuttavia potrà e dovrà diventare sempre più debole l’influsso della natura e sempre più forte invece quello della ragione (pp. 131). [Lottando contro la natura, gli uomini rafforzano la reciproca solidarietà e formano, assieme, come un nuovo corpo.] […]

[La legge fondamentale prescrive all’uomo:] Educa tutte le tue attitudini completamente e uniformemente per quanto ti è possibile. Essa non arriva a determinare se io debba esercitare queste mie attitudini immediatamente sulla natura o solo attraverso la mediazione degli altri uomini: la scelta perciò si trova, a questo riguardo, interamente lasciata alla mia prudenza (pp. 134-135). […] La legge non vieta di scegliere uno stato; neanche però comanda… Mi trovo sul terreno del libero arbitrio:  mi è semplicemente lecito di scegliere uno stato (pag. 135). [Si tratta però di una scelta consigliabile, perché solo così il singolo uomo riuscirà a restituire alla società quanto da essa ha ricevuto; nessuno ha il diritto di lavorare solo per la propria soddisfazione.] Questo non è lecito. Egli deva  almeno sforzarsi di pagare alla società il suo debito; deve occupare il proprio posto; deve fare almeno ogni tentativo per elevare in qualche modo il grado di perfezione ella specie che tanto ha lavorato per lui (pag. 136). […]

La scelta di uno stato è una scelta per mezzo della libertà; perciò nessuno deve essere costretto ad abbracciare uno stato, come nessuno da uno stato deve essere escluso. È però una scelta consigliabile perché la particolare abilità che uno ha è in un certo senso un prodotto, un legittimo possesso della società, e ognuno ha il dovere di restituire alla società quello che ha essa ha ricevuto secondo le proprie possibilità […]

[Contribuire al progresso sociale presenta due vantaggi: essere utili agli altri e a se stessi:] il felice progresso di un membro è infatti non meno felice progresso degli altri (pag. 140); [inoltre ogni uomo è]  un anello necessario alla catena, la quale dalla generazione del primo uomo, avanza  verso la piena consapevolezza della sua propria esistenza nell’eternità (pag. 140).»

 

La concezione dell’eternità di Fichte è la seguente: poiché ogni uomo non appartiene solo a se stesso, ma all’umanità, e poiché il compito che ciascun uomo si assume, ossia il perfezionamento proprio e altrui, non può essere completato, come è evidente, nell’arco di una vita umana, esso verrà ripreso e continuato da altri uomini, da altre generazioni, mai però portato definitivamente a termine: e dunque il cerchio non verrà mai chiuso. Questa, per lui, è l’eternità: fare parte di un circolo che procede senza sosta, ma che non si chiude mai. Non è, evidentemente, una immortalità personale, nel senso della tradizione cristiana; ricorda semmai la concezione di Foscolo (che scrive il suo «Ortis» pochi anni dopo, avendolo concepito nel 1796: ma questa, probabilmente, è solo una coincidenza).

Inutile dire che l’idea di un progresso infinito è di matrice illuminista, così come illuminista,  e precisamente kantiana, è l’idea di dovere che ispira tutta la riflessione di Fichte, quel suo continuo “dover essere”, che egli non si prende neanche la briga di spiegare, dato che si limita a porlo come una esigenza fondamentale, di per sé evidente; al contrario, la concezione di un continuo tendere dell’uomo alla perfezione, all’assoluto, alla verità, senza però mai raggiungerli, e dunque sforzandosi eternamente verso una meta che trascende le possibilità dell’individuo, è tipicamente romantica: qualche cosa che sta a mezza strada fra il titanismo prometeico (e che forse potrebbe avere influenzato il superuomo nietzschiano, così come - ma è soltanto una vaga ipotesi, sulla quale non insistiamo - il concetto dell’eterno ritorno dell’uguale) e l’inevitabile frustrazione e il cupo scoraggiamento di vedere la meta sempre un passo innanzi a sé, elusiva, inafferrabile: da ciò una tendenza al vittimismo che, appunto, trova espressione in personaggi come Jacopo Ortis di Foscolo o come il giovane Werther di Goethe.

In Fichte, personalità energica e quasi aggressiva, estremamente sicura di sé, non vi è alcuna traccia di vittimismo; qui, operò, non stiamo parlando di atteggiamenti psicologici, bensì di assunti speculativi: e porre all’uomo una missione impossibile, vale a dire quella di raggiungere l’infinito nel finito, significa, logicamente e inevitabilmente, porlo in una situazione insostenibile: non solo di angoscia, ma  (come vorrebbe Kierkegaard) di autentica disperazione, ossia di “malattia mortale”. Perché di disperazione si muore: se non fisicamente, spiritualmente (e quanti scrittori e personaggi letterari del tardo Ottocento e del Novecento sono in questa condizione: da Mattia Pascal a Emilio Brentani; da Carlo Emilio Gadda a Cesare Pavese); per non parlare di quei filosofi contemporanei, come Heidegger, i quali, dell’uomo, non hanno saputo dire molto di più  se non che egli è un essere-per-la morte. Di più: significa fare dell’uomo uno straniero a se stesso e alla propria vita, senza radici, senza patria, senza veri affetti, scagliandolo in un deserto popolato d’incubi e di spettri: da «Lo straniero» di Camus, ad Athos Magnani del film di Bertolucci «Strategia del ragno» (tratto dal racconto di Borges «Tema del traditore e dell’eroe», il quale, alla fine, si rende conto dell’impossibilità di andarsene, di fuggire da una realtà insopportabile: l’erba cresce sui binari della stazione ferroviaria, segno che da chissà quanto tempo nessun treno è mai più partito, né passato da quel triste e ambiguo paese.

Ma adesso veniamo, finalmente, al tema centrale delle conferenze di Fichte: «La missione del dotto», che egli affronta solo nella quarta lezione (mentre la quinta e ultima sarà da lui dedicata alla critica delle tesi di Rousseau circa l’influenza delle arti e delle scienze sulla felicità dell’uomo). In essa, il filosofo tedesco sostiene che il dotto deve essere, o cercare di essere, il migliore degli uomini, colui che è d’esempio alla sua intera società; e che deve fare della sua vita una specifica missione al servizio degli uomini: egli cioè deve indossare i panni, né più, né meno, del sacerdote della verità, dato che egli solo riesce a vederla, o a vederne una porzione maggiore dei suoi simili. Concezione nella quale, di nuovo, entra sia la componente illuminista fondata sulla religione del progresso (di cui, infatti, il dotto si fa personalmente interprete e missionario), sia quella romantica – e, se si vuole, decadentista – secondo la quale l’uomo “superiore” è colui che riesce a gettare uno sguardo oltre la comune vista degli uomini, in virtù della sua speciale missione e della sua particolare capacità di vedere “oltre”, facendosi, così, sacerdote dell’invisibile; un sacerdote di cui l’umanità ha estremamente bisogno, anche se, a dire il vero – e sempre più nel corso del XIX secolo, per non parlare del XX – si direbbe proprio che non lo sappia.

Il ragionamento di Fichte è il seguente: non lo stato sociale, ma la missione di ciascun uomo è quello che importa, vale a dire che ciascuno compia il proprio dovere (e siamo sempre nella scia del «tu devi» kantiano, dell’imperativo categorico del filosofo di Königsberg; ora, anche la società che voglia divenire perfetta, necessita  che qualcuno si dedichi alla missione di conoscere perfettamente quali siano i reali bisogni dell’uomo e della società, e quali i mezzi idonei per soddisfarli: tale è la definizione che egli dà del dotto, e di una simile figura fa il cardine della società intera. La società, infatti, non può degnamente organizzarsi, senza sapere ciò di cui ha realmente bisogno.

 

«Dotto si chiama colui che all’acquisto di tali conoscenze (filosofica, filosofico-storica e storica) dedica la sua vita (pag. 155). Così ci si rivela finalmente la vera missione dello stato dei dotti:; tale missione consiste nella suprema vigilanza sopra il progresso reale della stirpe umana in genere e nell’attività continuamente diretta a promuovere questo progresso (pag. 155) [specie il progresso delle scienze, perché] dal progresso delle scienze dipende in modo immediato il progresso del genere umano. Chi ferma quello, ferma questo (pag. 156). [Dunque, il dotto dovrà] sforzarsi per portare a un grado più elevato le scienze, e in particolare quel ramo della scienza che egli ha prescelto […]. [Inoltre,] dovrà sviluppare in se stesso quanto più gli è possibile le disposizioni socievoli, la capacità di ricevere e quella di comunicare (pag. 160), [perché il dotto] esiste in virtù della società e per il vantaggio della società (ib.). [Il dotto] deve portare gli uomini alla consapevolezza dei loro bisogni, alla conoscenza dei mezzi atti a soddisfarli (pag. 161) […]

Il dotto non deve soltanto istruire gli uomini sopra i loro bisogni e sopra i mezzi necessari per soddisfarli in generale. Deve anche guidarli, in particolare, in un determinato tempo e in un determinato luogo, a prendere coscienza dei bisogni che si presentano in quelle particolari circostanze e a scoprire quei mezzi particolari che servono per raggiungere i fini in certo modo imposti dalla situazione presente (pag. 163)… [Il dotto, poi, deve dare il buon esempio, perché] deve essere l’uomo moralmente migliore della sua età(  pag. 167). […]

Questo è l’ufficio a cui sono chiamato, a rendere testimonianza della verità. Nulla importano… la mia vita e la mia sorte, ma l’ufficio che io compio ha una importanza infinita. Io sono un Sacerdote della verità. Appartengo alla sua milizia.; ad essa ho prestato giuramento  di fare, di osare, di soffrire tutto fedelmente per lei (pag. 168).»

 

E così, alla fine, scopriamo che il dotto, modestamente, è lui, proprio lui: Johann Gottlieb Fichte, l’oratore che sta tenendo, all’Università di Jena, nell’estate del 1794, questo ciclo di lezioni, la domenica, dopo la messa. Anch’egli, come il pastore luterano, è un sacerdote; anzi, è un sacerdote più alto: quello non serve che il Dio rivelato, mentre lui, Fichte, serve la Verità stessa, la Verità filosofica, che, per gli idealisti, comprende, e soprattutto supera, la verità religiosa (riservata, quest’ultima, a coloro che dotti non sono, e devono accontentarsi di una verità di grado inferiore). In compenso, Fichte, nel suo delirio di onnipotenza, è perfettamente sincero: quando afferma che la sua vita e la sua sorte non contano, perché egli si è totalmente votato alla propria missione, bisogna prenderlo sul serio: dopo aver incitato i Tedeschi a combattere contro Napoleone (non solo in nome della libertà conculcata, ma proprio di una supposta superiorità culturale della Germania), spingerà la moglie a prestare la sua opera di infermiera negli ospedali militari, dove ella avrebbe contratto il colera, contagiando il marito - divenuto ormai rettore dell’Università di Berlino, nonostante le accanite polemiche sul suo ateismo - e portandolo a morte, nel 1814.

A quanto pare, Fichte non si rende conto sino in fondo (a meno che se ne renda conto anche troppo…) delle implicazioni totalitarie, e peggio che totalitarie, della sua concezione del dotto, e di quella che ritiene la sua specifica missione. Innanzitutto, egli definisce il dotto in maniera tale da identificarla con la categoria dei filosofi: e sin qui, niente di particolarmente originale, visto che anche Platone, nella sua «Repubblica», aveva fatto lo stesso; e visto che lo stesso Socrate aveva fatto della sua vita un perenne richiamo alla verità nei confronti dei suoi concittadini. Ma Fichte si spinge molto oltre: sostiene che il dotto ha il diritto e il dovere di governare egli stesso la società. Dal momento che egli solo ne conosci i “veri” bisogni, nonché i mezzi per soddisfarli. La sua totale dedizione alla società non attenua la realtà paurosa, demoniaca di questo potere illimitato, che si pone da se stesso al di sopra di tutti e stabilisce da solo cosa sia bene e cosa sia giusto per i suoi simili: sappiamo bene come un dittatore possa arrivare al sacrificio di sé per il bene della sua patria, ma non senza averla portata, a suo insindacabile giudizio, oltre l’orlo della catastrofe. Nessun controllo, dunque, nei confronti di chi guida i destini comuni: il dotto è giudice di se stesso, la purezza delle sue intenzioni è sufficiente garanzia di moralità e di saggezza. Non occorre che siano gli altri a riconoscergli quel ruolo: del resto, non conoscendo la verità, non potrebbero.

Ora, se si allarga l’orizzonte – come vuole Fichte – al mondo intero, e si immagina una repubblica mondiale governata dai dotti, i quali sono gli uomini “moralmente migliori” del proprio tempo, c’è da avere i brividi: sì, è proprio il progetto di un Nuovo Ordine Mondiale che costoro perseguono; e lo perseguono in perfetta buona coscienza, cosa che li rende ancor più pericolosi, come lo sono i fanatici di ogni tempo e di ogni idea.

Si noti, del resto, quel passaggio conclusivo alla prima persona: dopo aver parlato, e a lungo, del dotto in terza persona, e spiegato quel che egli deve essere e quel che deve fare, a un certo punto Fichte rivendica, senza arrossire, di essere lui, proprio lui, quel dotto, quel Sacerdote della verità, quell’uomo moralmente eccellente, che svetta al di sopra dei propri simili. Si potrebbe pensare, semplicemente, al delirio di un pazzo, ma si tratta di qualcosa si assai più sottile e di assai più pericoloso: si tratta del logico e coerente punto d’arrivo della filosofia idealista del Nostro, il quale fa derivare l’essere dal pensiero, e non viceversa. In buona sostanza, Fichte sostiene, imperturbabile, che il mondo è la sua creazione, la creazione del suo spirito, ed è quindi perfettamente logico che egli solo rivendichi a se stesso il diritto e il dovere di comprenderlo, di spiegarlo, di guidarlo, imponendo l’obbedienza a tutti gli altri.

Certo, le frasi in cui egli afferma che il dotto nulla vuole per sé, e tutto vuole offrire alla società, appunto per restituirle ciò che ha ricevuto, si sprecano addirittura; così come si sprecano quelle ove sostiene che il dotto è colui che deve dare il buon esempio dell’impegno per il bene comune, che deve porre la sua vita sotto il segno della dedizione agli altri. Ma chi sono, in pratica, codesti altri? Se l’Io penso è il mondo, tutto il mondo, chi sono codesti altri, se non ombre o fantasmi della mia coscienza, nella quale nulla esiste che non sia l’Io penso, nulla, dunque, al di là e al di fuori della mia coscienza soggettiva, arbitrariamente dilatata sino ad inglobare e a comprendere in se stessa ogni manifestazione del reale?

Questo è il problema di fondo dell’Idealismo: che, di fatto, nelle sue vertiginose costruzioni speculative viene a mancare il “tu”, il tu concreto, l’altro. Non c’è posto che per l’Io. E se ciò avviene, non deve fare meraviglia che l’altro debba essere ridotto alla condizione di creta da modellare, alla quale l’Io impone la forma che ritiene giusta e necessaria, senza interpellare nessuno, senza ascoltare altri che sé medesimo.

Anche questa, del resto, è una conseguenza logica e necessaria. Dove è andato a finire Dio, nella concezione fichtiana? Dio si è ridotto alle proporzioni dell’ordine morale del mondo: più che un Dio, una necessità del pensiero. Dio, per l’idealismo, non è Persona, non è neppure l’Essere in senso metafisico, causa prima e motore della realtà sensibile: è soltanto una astrazione del ragionamento filosofico. Ora, se Dio non è più il Tu, cui l’io possa e debba far riferimento, per tornare all’Essere da cui proviene, inevitabile conseguenza è che anche il “tu” sensibile, il “tu” degli altri, finisca per essere subordinato e relegato in posizione di sudditanza. È uno gnosticismo vero e proprio, quello degli idealisti, nel quale solo il sapiente conosce la verità, e a lui solo, pertanto, spetta la responsabilità di guidare gli uomini verso di essa. Perché il sapiente, o meglio il sacerdote, della verità, è anche una sorta di scienziato (si noti l’enfasi posta da Fichte sulla funzione delle scienze per il bene comune: non lo sfiora il sospetto che tutto dipende da come la scienza viene concepita, realizzata ed impiegata: per fare il bene o per fare il male): in definitiva, egli è il sacerdote di una religione immanente, la religione del Progresso. La scienza, in fondo, per Fichte è un’astrazione: una concezione teorica, alla quale tutto si deve assoggettare.

E abbiamo visto, purtroppo, dove ci portano siffatti sacerdoti delle astrazioni, posto che riescano a conquistare il potere. L’epistemologo Paul K. Feyranbend, più recentemente, ci ha messi in guardia contro i rischi di una scienza che si proclama guida necessaria e sufficiente del genere umano: essa è una costruzione astratta, un’idea che vale quanto un’altra idea e che non può rivendicare un valore assoluto e indiscutibile. Essa, pertanto, diviene un’idea totalitaria, che fa paura, e dalla quale ci si deve difendere.  Prima che sia troppo tardi…