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Addio alle facoltà umanistiche? Perchè il Fatto (e gli studenti) hanno torto

di Federico Callegaro - 25/08/2015

Fonte: Barbadillo

valigia-libriDevo essere sincero: dopo aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano in cui il suo vice direttore Stefano Feltri, basandosi su una ricerca del centro studi CEPS, invitava i giovani a lasciar perdere le facoltà umanistiche perché poco spendibili sul mercato del lavoro, mi sono incavolato come una bestia. Contrariamente a quanto la mia laurea in Filosofia potrebbe far pensare, però, il bersaglio del mio risentimento non è stata la sua analisi ma quella di coloro che gli si sono subito lanciati contro. Il pezzo del giornalista, infatti, in breve tempo è rimbalzato sulle bacheche degli studenti delle facoltà umanistiche dello Stivale, corredato da una lunga serie di improperi o di riflessioni che cercassero di ‘giustificare’ la scelta di essersi iscritti a Storia dell’arte, piuttosto che a Lettere.

“Se nei secoli l’uomo non avesse cantato, per esempio, la Luna o le stelle nelle sue poesie, probabilmente oggi non ci sarebbe stato tutto questo stimolo e passione nel raggiungere la Luna stessa e lo spazio attraverso la scienza e la tecnologia”, ricorda uno studente. “Questo modo di pensare é deleterio perché concepisce lo studio come finalizzato esclusivamente all’arricchimento economico e non al miglioramento intellettuale. Una visione che sposa un punto di vista puramente quantitativo e non tiene conto della Qualità sfugge alla radice del problema cogliendone solo la piatta superficie”. Gli fa eco un altro che si sta attrezzando per postare sulla bacheca del giornalista una lettera collettiva per chiedere conto dell’affronto. Nel mentre, seminati qua e là, si fanno strada anche i commenti più ‘politici’. Quelli, cioè, che rimarcano il “pericolo di un’università azienda” e che paventano il rischio di “finire a studiare per i soldi anziché per la cultura”. E’ qui che vado in bestia. Che la lucidità va a farsi friggere. Nella mia carriera di studente universitario ho sentito questi discorsi ripetersi ciclicamente come un mantra. Non c’era giorno che i rappresentanti degli studenti di Lettere e Filosofia non ci mettessero in guardia dal pericolo che un posto di lavoro avrebbe rappresentato per le nostre vite, forse spinti dalla paura di vederci ridotti come ‘borghesi’ con rate da pagare e una vita monotona. Qualche tempo fa sono addirittura arrivato a pensare che l’ostinata lotta dei collettivi contro un’università che dialogava con il mondo del lavoro fosse una tanto terribile quanto sublime strategia politica per creare le torme di disoccupati di cui avevano bisogno per aizzare la sperata rivoluzione comunista.

Quello che mi pareva sensato rispondere a questi ragazzi che la mettevano giù così semplice era che il mondo del lavoro è cinico e baro, proprio come il destino. Che l’astio maturato nei confronti di Feltri avrebbero fatto meglio a riporlo verso quei docenti e quei presidi che facevano di tutto per rendere le facoltà luoghi completamente separati dal mercato. E non perché il mercato sia bello (anzi, fa proprio schifo) ma perché prima o poi ci si deve immettere. A pochi passi dalla laurea sono andato da un professore della mia facoltà per chiedergli l’autorizzazione (prassi burocratica) di fare uno stage formativo in una fondazione di arte come addetto stampa. Il Chiarissimo, piccato per una richiesta tanto ‘assurda’, ha dato il suo benestare soltanto dopo lunghe insistenze e non prima di avermi ricordato che non ci vedeva “proprio alcuna attinenza tra andare a fare fotocopie in un ufficio e lo studiare Filosofia”. Un’opinione molto diffusa negli atenei ma diversa rispetto a quella di chi si trova ad analizzare i curriculum, altrimenti bianchi, dei neo laureati.

Ha torto Feltri

Eppure, dopo aver dato tutti i torti a chi ne ha parecchi, l’articolo del vice direttore del Fatto continua a non quadrare. Che non tornano sono almeno due punti. Il primo è riportato dal giornalista stesso: “Guardiamo all’Italia – spiega dati del centro studi alla mano – Fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati)”. Con la tipica nonchalance delle parentesi si fa passare quasi inosservato uno dei cardini della questione: non è che in Italia le lauree umanistiche valgono poco, sono le lauree in generale a valere quasi nulla. I dati del paper, infatti, non tengono conto di quanto sia minimante spendibile oggi il titolo di dottore di giurisprudenza o del fatto che uno stesso ingegnere, dovendo scegliere tra uno stipendio da impiegato degli anni 60 o uno da manager, non ci pensi due volte ad abbandonare il Paese per l’estero. Se si volesse dare quindi un consiglio onesto ai giovani che devono scegliere cosa studiare, più che ‘non andare a Lettere’, dovrebbe essere proprio ‘non studiare’, ‘togliti dalla testa l’università’.

Il secondo punto che non torna è più complesso e rischia di farmi sembrare un complottista. Per chi ha studiato Heidegger o Gadamer all’università, però, potrebbe non apparire troppo privo di fondamento (quindi la filosofia serve!). Proprio il filosofo di Marburgo, Hans-Georg Gadamer, spiega in una sua opera che “la tecnica, abbandonata a se stessa, genera irrazionalità sociale”. E’ tendenza diffusa oggi giorno pensare esattamente il contrario, cioè che a occuparsi di determinati aspetti della vita debbano essere coloro che ne conoscono meglio gli aspetti ‘tecnici’. E’ importante osservare che per quelli che la pensano in questo modo il tecnico non è solo colui che deve decidere ‘come’ si faccia una cosa ma anche ‘perché’. Il discredito delle facoltà umanistiche, della filosofia soprattutto, passa anche attraverso questa corrente di pensiero. In un mondo in cui l’importante è ‘saper fare’ chi, giustamente, inizia un percorso accademico utile a sviluppare una determinata forma mentis che mira a far capire ‘perché fare una cosa o un’altra’ non è solo inutile, è pericoloso. Questo lo sanno gli economisti che pensano a un mercato che si regola da solo e lo sanno tutti coloro che vogliono anteporre la Tecnica all’Etica. E, ovviamente, lo sa anche Feltri quando piega (forse un pochino a comodo) i dati del paper per arrivare a dimostrare che il mercato, di filosofi non ha bisogno. E forse, aggiungo io, ne ha pure un pochino paura.