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All’origine del cattolicesimo di sinistra la filosofia “dossettiana” di Felice Balbo

di Francesco Lamendola - 31/08/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

A coloro i quali, nel 1968, rimasero stupiti e un po’ sconvolti dall’estremismo rivoluzionario dei giovani studenti e operai, i quali “volevano tutto e lo volevano subito”, bisognerebbe rinfrescare un po’ la memoria, o, se ancora non l’avevano – per ragioni anagrafiche – le necessarie conoscenze storiche: perché quella esplosione non scaturì dal nulla, almeno in Italia: essa era stata preparata, fra l’altro, da un ventennio di predicazione rivoluzionaria da parte dei “professorini”, un gruppo di intellettuali cristiani militanti, formatisi attorno all’Università Cattolica di Milano, fondata da padre Agostino Gemelli.

Circa vent’anni prima che scoppiasse il ’68, con la sua carica eversiva e con i suoi miti egualitari, democratici e vagamente dadaisti e surrealisti, profondamente impregnati di marxismo nelle sue varie ed eterogenee versioni novecentesche (dal leninismo, al trotzkismo, allo stalinismo, al maoismo), altri giovani italiani – giovani molto perbene, che andavano a Messa tutte le mattine e che vestivano in maniera dimessa, pur provenendo, sovente, da ottime famiglie, dalle notevoli possibilità economiche - si ritrovavano, tenevano convegni, fondavano e collaboravano a battagliere riviste, partecipavano al dibattito sociale e sindacale, avevano voce in capitolo presso il partito di governo e si consideravamo figli della generazione del ’45, piena di sogni di rinnovamento e di rinascita sociale, politica, culturale e umana. Erano dei giovani che parlavano assai disinvoltamente di “rivoluzione” imminente e di trasformazione sociale e antropologica, così come nemmeno i beceri totalitarismi del XX secolo avevamo osato fare: ebbene, non erano giovani di tradizione socialista o comunista, ma rampolli della migliore borghesia cattolica, che criticavano aspramente De Gasperi per il suo “centralismo” e che spesso militavano nel Partito comunista, o ne erano simpatizzanti e fiancheggiatori, essendo convinti che solo da lì, da Marx e da Stalin, sarebbe stato possibile attingere le forze fresche per il necessario, radicale rinnovamento della stanca e decrepita società italiana, e dell’ormai moribondo capitalismo europeo e americano.

In altre parole: non dal pensiero di Marx o di Bakunin, non da quello di Gramsci o di Togliatti, veniva quella generazione di giovani intellettuali di estrema sinistra, per i quali la Democrazia cristiana di De Gasperi era un misero compromesso con l’esistente, e che vivevano nell’attesa gioachimita di un avvento del mondo nuovo, totalmente rinnovato nelle forme sociali, economiche, politiche, secondo una ispirazione autenticamente cristiana, e perciò, anche autenticamente umana: ma dal Vangelo di Gesù Cristo, che essi leggevano con lo spirito rivoluzionario, impaziente e intransigente, che ha sempre caratterizzato coloro i quali si attendono la palingenesi universale in questo mondo, qui e adesso, e non certo in qualche imprecisato regno dell’Aldilà. Il germe del radicalismo di sinistra, dell’intransigentismo rivoluzionario e barricadiero, non proviene solo, e non proviene in prima istanza, dalla tradizione marxista italiana, non proviene da Turati, o da Labriola, o da Bordiga, ma da alcuni “professorini” cattolici, che avevano sul comodino non il «Capitale», ma la Bibbia, e perfino da alcuni preti: giovani come Dossetti e Lazzati, come Rodano e Ossicini, come La Pira e Fanfani. Alcuni di essi sarebbero poi confluiti nel Partito comunista, altri ne sarebbero usciti; tutti, comunque, avrebbero criticato l’immobilismo e il conservatorismo di De Gasperi e avrebbero auspicato un profondo, radicale rinnovamento dell’intera società italiana, sulla base di un egualitarismo che aveva poco da invidiare a quello marxista. Oggi sono arrivati a occupare le posizioni chiave sia nello Stato italiano, sia nella Chiesa cattolica: è il loro grande momento.

Politicamente, i giovani “rivoluzionari” di formazione e di orientamento cattolico sono seguaci, fra il 1945 e il 1951, di Giuseppe Dossetti; filosoficamente, si rifanno ad un filosofo torinese oggi poco noto al grande pubblico, ma  che ebbe, negli anni Cinquanta e Sessanta, una considerevole influenza non solo sul gruppo, in fondo relativamente ristretto, che a quell’area faceva riferimento, ma anche presso un settore molto più vasto della galassia cattolica, un settore che non guardava tanto alla Democrazia Cristiana, ma al Partito Comunista, quale strumento per realizzare l’auspicata trasformazione della società italiana in un senso autenticamente “progressista” e “democratico”, sì da abolire secolari ingiustizie e inammissibili, inveterati privilegi che impedivano, a suo giudizio, l’instaurazione dei valori genuinamente evangelici nella Città terrena.

Quel filosofo era Felice Balbo, nato a Torino il 1° gennaio 1914 e morto a Roma il 3 febbraio 1964, laureato in Giurisprudenza, ufficiale degli Alpini nella Seconda Guerra mondiale e poi membro attivo della guerra civile del 1943-1945, pardon, volevamo dire della Resistenza. Balbo è stato un importante punto di riferimento per una intera generazione di cattolici di sinistra: egli stesso ammiratore del comunismo e del Partito Comunista, è stato uno dei maggiori teorici dell’incontro fra le due ideologie, la cattolica e la marxista; e, pur rifiutando gli esiti materialisti della seconda, sul terreno della “praxis” trovava perfettamente naturale che un fervente cristiano, impregnato di ideali umanitari e assetato di giustizia sociale, cercasse a sinistra, fra Stalin e Togliatti, gli elementi per la ricostruzione di un mondo nuovo, più giusto e più umano, dopo le terribili tempeste del ‘900 e dopo il cataclisma della Seconda guerra mondiale.

Che vi sia una incompatibilità essenziale fra cristianesimo e marxismo, sul piano teorico; e che, sul piano pratico, il marxismo avesse già fatto milioni di morti tra le file dei cristiani, non solo in Unione Sovietica, ma in tutti quei Paesi in cui il comunismo aveva preso il potere, e sia pure, come in Spagna, per un periodo di tempo assai limitato: tutto questo, evidentemente, non turbava i sonni del filosofo piemontese e non scalfiva né punto, né poco, le sue rocciosa certezze circa la giustezza della propria concezione e la sua beata ingenuità di credere possibile e auspicabile una sorta di convergenza fra cultura cattolica e cultura marxista, per la creazione di una società italiana rinnovata, più felice e più consona agli insegnamenti del Vangelo. Ciò la dice lunga sulla lungimiranza di Balbo: il tempo è galantuomo e mostra di che moneta fossero tutte le filosofie che non seppero scorgere neppure questo fattore discriminante.

Venendo allo specifico della sua concezione filosofica, cediamo la parola a Gianni Baget Bozzo, nella sua pregevole monografia «Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti, 1945-1954», Firenze, Vallecchi, 1975, pp. 364-368):

 

«Balbo accettava il giudizio della cultura cattolica tradizionale, secondo cui la filosofia aristotelico-tomista era la philosophia perennis: cioè l’autentico universale modo di filosofare aveva avuto una realizzazione efficace nell’artistotelico-tomismo. Visto soprattutto attraverso la mediazione di Etienne Gilson, il tomismo appariva come filosofia dell’essere, opposta sia ad un “essenzialismo” che ad un “esistenzialismo”. L’essere era immanente e trascendente ad un tempo di tutte le sue realizzazioni: era il principio di una continua attualità e quindi il fondamento del divenire. Esisteva il divenire perché l’essere era trascendente ed immanente ad ogni ente. La dimensione della molteplicità era data dall’aspetto emiprico-sensibile dell’ente (da Balbo definito sempre come ente partecipato rispetto all’essere). Tale dimensione materiale fondava la variabilità dell’ente e quindi la necessità di una sempre sua diversa configurazione rispetto all’essere: da ciò la diversità dei linguaggi, delle funzioni, delle determinazioni, che esprimevano direttamente la variabilità dell’ente dovuta ala sua dimensione materiale, ma non ponevano in discussione l’identità degli enti con l’essere. La filosofia era possibile come logos dell’essere, come espressione dell’ordine dell’essere: ma la filosofia doveva per questo non rimanere astratta rispetto agli enti storici, ma entrare profondamente nel mondo del mutevole ed esprimere l’identità dell’essere nelle variazioni degli enti.

La filosofia aristotelico-tomista, che pur aveva riconosciuto la formalità dell’essere e la sua trascendenza rispetto agli enti, non si era poi spinta tanto innanzi quanto era necessario per riconoscere la legge dell’essere negli enti: ne era risultata una filosofia astratta, che non dava un’immagine dell’immanenza dell’essere negli enti, ma faceva dell’essere qualcosa come una zona separata e particolare delle realtà: insomma finiva per mistificare nella sua formulazione la vera realtà dell’essere. Ciò aveva condotto il pensiero moderno alla negazione della metafisica e alla riduzione della realtà alla propria dimensione fenomenica. Questo era dovuto anche alla scoperta di una dimensione di razionalità inerente al fenomeno come tale, senza riferimento alle sue cause ontiche: la dimensione della scienza nel moderno senso della parola. La dimensione scientifica si era espressa nel marxismo: Marx aveva scopeto la “ragion ateologica”, cioè la ragione che considera la realtà immanente senza condurla alle sue cause supreme. Per Balbo ciò non comportava un’antropologia atea: su questo punto egli polemizzò, in modo particolare, con Augusto Del Noce. Il marxismo non era altro che la ragion scientifica applicata alla ragione storico-sociale: considerarlo come anti-filosofia e come anti-religione significava per Balbo equivocare sulla sua realtà autentica. In questo equivoco era caduto lo stesso marxismo storico: e qui stava la ragione ultima delle dimissioni di Balbo dal Pci, avvenute nel marzo ’52 insieme ad altri esponenti dell’ex Sinistra cristiana.

Per Balbo esistevano due aspetti causali della crisi storica. La filosofia perenne si era separata dall’immanenza storica; la sua formulazione era divenuta inadeguata e, per questa ragione, falsificante, incapace cioè di condurre alla comprensione della stessa intenzionalità originaria del sistema. Ma, d’altro canto, il marxismo aveva equivocato sul suo stesso significato e si era auto interpretato come antropologia tea, invece che come riconoscimento della razionalità fenomenica, come “scienza della società”. Questi due gravi equivoci avevano condotto ad una radicale crisi della cultura e, quindi, della civiltà. Nessun progresso era possibile a partire dalla condizione culturale in atto,  che era il frutto dell’isterilimento della filosofia perenne e del fraintendimento del marxismo,. Era però aperto e possibile un compito storico e creativo: quello di riformulare la filosofia dell’essere in modo che essa potesse diventare realmente ragion storica e comprendere il segno dell’essere nella pluralità del divenire, riconoscendo così, al tempo stesso, la possibilità di una considerazione razionale della dimensione materiale e fenomenica degli enti, quella propria della ragion scientifica che il marxismo aveva per primo formulato sul piano della conoscenza storica.

Il pensiero di Felice balbo risolveva il tipo  di problema che i giovani dossettiani alla guida del movimento giovanile avevamo di fronte. Balbo, infatti, affermava l’esistenza di una crisi radicale  del pensiero politico e affermava in modo particolare, con il prestigio della sua esperienza politica,  che la crisi coinvolgeva anche il marxismo. Inoltre indicava, come chiave della soluzione, la filosofia aristotelico-tomista, che era allora, non solo in diritto ma anche in fatto, la filosofia pubblica della Chiesa e, quindi, la filosofia del partito dell’unità dei cattolici: ciò giustificava, dunque, l’esistenza, sia pure a titolo provvisorio, della Democrazia cristiana. Per di più, egli offriva la spiegazione per cui un’azione politicamente rinnovatrice non fosse possibile: mancava la filosofia capace di fondarla e, quindi, la cultura capace di sostenerla. Questo era proprio quanto Dossetti aveva affermato sciogliendo la corrente. La filosofia di Balbo forniva una legittimazione teorica ad un’azione politica “anticatastrofica”, come egli diceva: cioè di un’impresa che, senza risolvere alcuno dei problemi sociali aperti, consentisse di evitare le virtualità distruttive implicate nella situazione di crisi L’urto tra Oriente e Occidente, sia sul piano interno che su quello internazionale, era più che una probabilità, era la tendenza oggettiva del momento. Il compito di un’azione politica costruttiva stava, poste queste condizioni, nel garantire la convivenza delle parti contrapposte e non mediate, evitando che la logica della loro assoluta contrarietà prevalesse sulla possibilità della loro coesistenza. Balbo stesso riconosceva nella politica di De Gasperi tale virtualità “anticatastrofica”.»

 

Quando si dice la beata ingenuità di certe filosofie piene di candore e di buone intenzioni.

Balbo riteneva di poter rinnovare la filosofia e la cultura italiana, e, attraverso di esse, la vita politica e sociale della nazione, rivitalizzando l’aristotelismo tomista, mediante una robusta iniezione di “realismo”, sì da evidenziare l’immanenza dell’essere negli enti; e si proponeva di attuare ciò per mezzo del marxismo, riconosciuto, anzi promosso, al rango di sola filosofia veramente scientifica della storia, con il piccolo, insignificante dettaglio di negare l’ateismo della sua antropologia e di ristabilirne la vera natura, rimasta sconosciuta agli stessi marxisti. Insomma: Balbo aveva compreso il tomismo meglio di San Tommaso, e il marxismo meglio di Marx; aveva visto che il secondo non negava affatto il primo, né le sue radici metafisiche; e che la via maestra per ristabilire una visione spirituale e religiosa della vita, che tenesse conto dei bisogni del pensiero moderno e della sete di giustizia delle classi e dei popoli meno fortunati, era quella di fondere le due tradizioni, restituendole alla loro autentica missione, rimasta sconosciuta sia ai tomisti, che avevano peccato per un eccesso di metafisica, sia ai marxisti, che avevano frainteso la reale natura della loro stessa filosofia.

Che cosa dire, come commentare questo guazzabuglio di velleità incredibilmente ingenue e di ambizioni intellettuali tanto smodate, quanto irrealistiche e inconsistenti, quando non decisamente sbagliate in se stesse, ossia scaturenti da gravissimi errori interpretativi, sia dell’aristotelismo e del tomismo, sia del marxismo? Che cosa dire di questi ambiziosi “professorini”, di questi giovani seguaci di Dossetti, i quali volevano cambiare il mondo e che accusavano De Gasperi di gestione personalistica del partito dei cattolici e di impostazione conservatrice (in quanto liberale) dei suoi obiettivi sociali e delle sue finalità economiche?

Il minimo che si possa dire è che erano fuori della realtà, per un eccesso di dottrina astratta e di presunzione speculativa; e quanto fossero miopi, incredibilmente miopi e angusti, i loro progetti, o meglio, i loro sogni ad occhi aperti, lo si può ben giudicare adesso, a distanza di oltre sei decenni, ma già allora era chiaro, per chi fosse capace di vedere le cose con un poco di obiettività e di distacco: né si potrà mai deprecare abbastanza la loro incredibile infatuazione per il comunismo, specificamente nella sua versione marxista, che si illudevano di poter “correggere” e di poter “chiarire” agli stessi marxisti, coniugando tranquillamente il Vangelo e «Il Capitale»: e questo dopo gli orrori della guerra di Spagna, le “purghe” staliniane, la persecuzione sistematica della borghesia e dei cristiani in tutti i Paesi caduti nell’orbita sovietica.

Tornando a Felice Balbo, ci sembra di poter dire che esistano due tipi di filosofi: i pensatori autentici, che battono vie nuove, o, perlomeno, che battono vie note in maniera nuova; e coloro i quali si pongono l’obiettivo di “rivisitare”, “chiarire” (o pasticciare), “attualizzare” (a costo di stravolgerlo) il pensiero di altri: e Balbo apparteneva, senza dubbio, alla seconda categoria. Non vi è nulla di male, in questo: non tutti possiedono lo spessore e il vigore dell’autentico pensatore. Il male consiste quando si pensa di aver capito una filosofia meglio di coloro che l’hanno elaborata, e ci si pone lo scopo di “restaurarla”. È stato Marx a dare il (cattivo) esempio, quando ha affermato di volere, semplicemente, rimettere sui piedi la filosofia di Hegel, che se ne andava con la testa in giù: non c’è da meravigliarsi che tanti suoi seguaci abbiamo ricalcato le orme del maestro, applicando lo stesso “metodo”, se così vogliamo chiamarlo, ad altre linee di pensiero, e perfino a quella più robustamente stabilita, da secoli e secoli, sulle solide basi della propria tradizione: quella aristotelico-tomista. Dire che una simile operazione pecca di presunzione è ancora troppo poco: sarebbe più giusto dire che rappresenta un esempio da manuale di ciò che, in filosofia, è non solo opinabile e sconsigliabile, ma decisamente scorretto e irragionevole.

Quanto, poi, al fatto di regalare al marxismo la qualifica di sola ed unica filosofia capace di leggere correttamente la realtà storica e sociale, purché si sottoponga la sua antropologia ad un bagno forzato di teologia, e ciò proprio partendo da una prospettiva cristiana, e avendo l’obiettivo di instaurare una società pienamente cristiana: ebbene, tutto questo ci sembra che si qualifichi da sé: si tratta di una operazione speculativa semplicemente imbarazzante, anzi, addirittura disarmante, per il suo velleitarismo e la penosa inconsistenza delle sue basi teoriche e pratiche. Ma tant’è: anche di simili equivoci e di simili contraddizione vive la cultura italiana, sempre così protesa ad inseguire l’ultima versione del politicamente corretto, che, talvolta, le capita di salire sull’autobus sbagliato, per un eccesso di zelo e d’impazienza messianica. A volte, gli alfieri e i profeti della società futura, naturalmente più giusta e più umana, si affrettano con tale empito verso le magnifiche sorti e progressive, da bruciare le tappe e arrivare alla meta… dopo che la loro utopia si è già realizzata, ma in maniera ben diversa da come l’avevano sognata. Senza, però, vederla e senza riconoscerla.