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«La crisi globale ci sta aprendo gli occhi»: la via della rinascita

di Paolo Scroccaro - 07/09/2015

Fonte: AAM Terranuova


La crisi globale è devastante ma se non altro ci sta aprendo gli occhi, dobbiamo abbandonare per sempre il paradigma della crescita; queste le parole Paolo Scroccaro, docente di filosofia, esperto di decrescita e autore di “Immaginare la società della decrescita” (Terra Nuova Edizioni).  
La crisi globale è devastante ma se non altro ci sta aprendo gli occhi, dobbiamo abbandonare per sempre il paradigma della crescita; queste le parole Paolo Scroccaro, docente di filosofia, esperto di decrescita e autore di “Immaginare la società della decrescita” (Terra Nuova Edizioni).
Un sistema quello attuale che non regge più, basato sullo sfruttamento incondizionato delle risorse, sull'aspirazione ad una crescita infinita impossibile. Quanto è grave questo momento? Abbiamo ancora qualche chance per poter fare un passo indietro o è troppo tardi?
«Occorre premettere che il sistema attuale si basa su una contabilità errata e ingannevole, incentrata sul PIL e sulla misurazione monetaria delle merci: restando all’interno di tale immaginario, non è nemmeno possibile percepire seriamente la gravità della situazione, proprio perché i dati più importanti non rientrano nei criteri di calcolo prestabiliti. Occorre uscire dall’immaginario economico dominante per
valutare adeguatamente il degrado degli ecosistemi, la devastazione dei legami sociali, il grave squilibrio tra uomo e natura, il peso crescente delle cosiddette esternalità negative, l’inadeguatezza della cultura scolastica, il vuoto di senso che rende insopportabile l’esistenza. Se mettiamo da parte gli occhiali tipici dell’immaginario economicista, si vede subito che la crisi non è solo o soprattutto economica: è una crisi globale, poiché coinvolge anche tutti gli altri ambiti, non meno importanti, e in questa estensione sta la sua gravità che la rende insanabile. Nello stesso tempo, vi è tuttavia un riscontro positivo che occorre imparare a cogliere: la dimensione multifattoriale della crisi attuale sollecita una risposta complessiva, cioè un cambio di paradigma, e non delle semplici misure economiche a scopo mitigatorio. L’economia della crescita non è in grado di mantenere le sue promesse di benessere: come ripete H.Daly, nel mondo ormai “pieno” ogni incremento di crescita è sempre più dispendioso, e comporta disutilità crescenti che annullano i benefici e rendono controproducente questo modello. Questo significa che occorre cambiare registro e abbandonare per sempre il paradigma della crescita: questo è un passo avanti, non indietro».   
Quanto è limitante la visione antropocentrica che l'uomo continua a coltivare? Quale il paradigma cui avvicinarsi?
«Autori come Bacone, Cartesio, Kant e i filosofi tomisti hanno legittimato l’antropocentrismo, così da farlo percepire come “normale” nelle ideologie sviluppiste moderne: in realtà, nel contesto più generale della storia delle civiltà, esso figura come
un’anomalia inquietante, e questa valutazione trova ampie conferme nei documenti letterari, spirituali e filosofici di molti popoli premoderni.  L’antropocentrismo presuppone una visione strumentale dell’intera natura rispetto alla soggettività umana: pretende che l’uomo sia un ente privilegiato, e che possa disporre illimitatamente di tutto il resto.  Gli intellettuali laici ed ecclesiastici, in quanto organicamente funzionali al potere,  hanno cercato di nobilitare questa rozza pretesa, elaborando teorie antropocentriche dell’etica e della morale, che hanno giustificato la continua pressione antropica sulla natura, con esiti devastanti. Occorre aggiungere che l’antropocentrismo, lungi dal restare confinato nella sfera etica, ha permeato anche le altre dimensioni culturali. In particolare, l’economia  è fortemente intrisa di antropocentrismo: basti pensare al concetto centrale, quello di valore di scambio. Classici e neoclassici (marginalisti), nonostante i loro dissidi, ne danno una spiegazione che finisce per assolutizzare il protagonismo umano, sia pur considerato sotto forme diverse: per alcuni è soprattutto lavoro operaio, per altri bisogna aggiungere l’investimento capitalistico, mentre per i marginalisti il valore va ricondotto più che altro alle preferenze soggettive, variamente intese. Queste teorie presentano un tratto comune: ponendo l’accento sul fattore umano, dimenticano il fattore natura, che per gli antichi era la base della ricchezza reale (ed è ancora così, nonostante il poderoso sviluppo tecnologico degli ultimi secoli). Come ripetono illustri economisti e ricercatori non allineati, un’economia che dimentica la natura, perché non ne riconosce la centralità, finisce per essere distruttiva nei riguardi della Terra. La generale riabilitazione della natura, che si accompagna al superamento dell’antropocentrismo, è un passo indispensabile per  l’affermarsi di un nuovo paradigma capace di ridisegnare un nuovo equilibrio tra umani e natura».    
Parliamo di decrescita: bisogna pensare ad azioni dal basso, a impegno individuale nel quotidiano oppure a decisioni dall'alto che cambino regole e sistemi?  
«Naturalmente, le azioni dal basso e nel quotidiano sono indispensabili per il cambiamento, ma questo argomento è troppo importante per venire banalizzato, come troppo spesso accade. Molti amano fare un inventario di buone pratiche, ritenendo che la loro moltiplicazione possa indurre una trasformazione ecologica della società: di qui l’esaltazione delle energie rinnovabili, del risparmio energetico, del riciclaggio, delle case non dispersive, delle lampadine, degli elettrodomestici e delle auto a basso consumo. Ovviamente, vediamo con qualche favore tutto questo, e però non bisogna alimentare aspettative sproporzionate e prive di senso critico. Si tratta di un punto particolarmente sensibile e delicato, che abbiamo evidenziato nel libroImmaginare la società della decrescita. Il problema può essere riassunto così: molti comportamenti sono ritenuti virtuosi perché mettono in pratica l’ecoefficienza, e quindi, teoricamente, dovrebbero comportare la riduzione dell’impatto ecologico, ma spesso questo non accade, per via del paradosso di Jevons e dell’effetto-rimbalzo. Sembra che l’economista Stanley Jevons (1835 -1882) sia stato uno dei primi a scoprire il paradosso dell’effetto-rimbalzo nel suo secolo. Semplificando con esempi attuali: se l’automobile è ecoefficiente e consuma meno, il consumatore incallito è portato a percorrere più chilometri di prima; analogamente, le lampadine a basso consumo resteranno accese più di prima, e così via (effetto- rimbalzo di tipo diretto). E’ documentato inoltre l’effetto-rimbalzo di tipo indiretto: ciò che il consumatore
eventualmente risparmia in un settore per via della maggiore efficienza, viene utilizzato per nuovi consumi, per esempio viaggi aerei un tempo non accessibili. Nonostante i progressi tecnologici nel campo dell’ecoefficienza, il risultato globale non comporta automaticamente una riduzione dei consumi di energia e materiali, ma addirittura un aumento:  diversi ricercatori hanno evidenziato che dalla rivoluzione industriale in poi, i prelievi di risorse naturali sono aumentati, proprio grazie alla maggiore efficienza, e contrariamente a quanto immagina il senso comune! La lezione che si ricava è questa: non si danno soluzioni meramente tecnologiche, perché queste vengono fatalmente risucchiate nella logica consumista-sviluppista del sistema dominante.  Affinché esse possano avere successo, devono essere collocate all’interno di un nuovo paradigma, estraneo a quanto sopra: in definitiva, la soluzione non è tecnologica, ma culturale. Detto altrimenti: l’ecoefficienza potrà essere d’aiuto, solo nella misura in cui essa sia guidata da un immaginario non ossessionato dalla crescita e dal consumismo. Ecco perché la parola d’ordine di Latouche, “decolonizzare l’immaginario”, diventa così importante. Aggiungo una considerazione: operando in questo ambito, diventa indispensabile rivalutare la disciplina del senso del limite, centrale per le antiche saggezze cosmocentriche, anche occidentali; essa infatti aveva lo scopo di neutralizzare in anticipo ciò che noi oggi indichiamo come effettorimbalzo».  
Un messaggio di speranza?
«La speranza non è basata sul fatto che, in Italia e altrove, vi sia un certo numero di circoli di decrescita: ben di più, la speranza riposa su fenomeni di più ampia portata, i quali segnalano che, comunque, il vecchio paradigma della crescita è in difficoltà, e che i disertori della crescita sono in aumento (anche se non necessariamente amano il termine decrescita). La scienza cartesiana, incentrata su idee quali separazione, matematizzazione, frammentazione, meccanicismo, dominio… un tempo incontrastata, deve confrontarsi con altri modelli di scientificità, caratterizzati in senso olistico, sistemico, transdisciplinare, ecologico; le forme religiose dominanti, incentrate su un dio dominatore visto come suprema volontà di potenza, devono confrontarsi con esperienze più miti e serene che cedono il posto a concezioni libertarie e pluralistiche della spiritualità; l’aggressiva etica antropocentrica, incapace di garantire il vivere civile, perde legittimità di fronte alla corruzione dilagante e alle critiche provenienti dai settori radicali dell’ecologia e dell’animalismo; molti economisti che lavoravano per le agenzie sviluppiste, hanno rivisto la loro posizione, elaborando critiche di grande spessore che colpiscono al cuore la dogmatica della crescita e del pensiero unico; più in generale, crescono le riserve nei riguardi della civilizzazione occidentale moderna, ed aumenta la sensibilità verso molte saggezze premoderne, portatrici di insegnamenti che possono essere riattualizzati; le ideologie sviluppiste della modernità, di destra e di sinistra, hanno perso la credibilità di un tempo, a favore di nuove prospettive ecofilosofiche in gestazione… questi vasti fermenti culturali, oltre a descrivere le crepe che sempre più numerose indeboliscono la grande muraglia del vecchio paradigma, suggeriscono che  un nuovo mondo è in via di elaborazione. Nel loro insieme, essi tendono a delineare un nuovo paradigma, in cui la prosperità è pensata al di fuori degli schemi angusti della crescita economica».