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L’unica risposta all’inferno del dolore è lo slancio dell’anima verso Dio

di Francesco Lamendola - 07/09/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

Tutti rimpiangono, a parole, la quercia caduta; ma nessuno si cura del dolore della povera capinera, il cui nido è stato distrutto insieme ad essa.

«La quercia caduta», che fa pare dei «Primi Poemetti» (pubblicati nel 1897), è una delle liriche più struggenti, ma anche più profonde, di Giovanni Pascoli: non solo per la sua capacità di calarsi nel dolore dell’animale, oltre che in quello umano, ma anche per l’acutezza straordinaria nel denunciare l’insensibilità, l’ipocrisia, l’utilitarismo cinico e incosciente con cui gli uomini si pongono di fronte alle cose e alle persone, lodandone il valore quando le hanno ormai sfruttate, ma senza aver mai rivolto ad esse, in precedenza, un pensiero di gratitudine.

 

«LA QUERCIA CADUTA

 

Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande

Morta, né più coi turbini tenzona.

La gente dice: Or vedo: era pur grande!

 

Pendono qua e là dalla corona

I nidïetti della primavera.

Dice la gente: Or vedo: era pur buona!

 

Ognuno loda, ognuno taglia. A sera

Ognuno col suo grave fascio va.

Nell’aria, un pianto… d’una capinera

 

Che cerca il nido che non troverà.»

 

La quercia non è stata abbattuta dagli uomini, è caduta per cause naturali: forse colpita da un fulmine, forse trascinata a terra da una frana. Gli uomini non hanno colpa della sua morte, e restano ammirati e stupiti per la possanza di quel cadavere: però non esitano a trarre qualche vantaggio dal dramma che ha piegato il vecchio gigante. Perché sprecare tanto ben di Dio? E allora ciascuno si accosta al colosso prostrato e si mette a lavorare di sega e d’accetta; ciascuno porta via quanta più legna è possibile. Non senza spendere parole di ammirazione per quell’albero colossale, al quale finora, non avevano prestato molta attenzione. Solo adesso vedono e riconoscono quanto fosse grande e quanto fosse vigorosa.

È cosa troppo facile riconoscere la bontà di qualcosa, dopo che è stata distrutta; ed è cosa turpe, mentre si recita un tale elogio funebre, seguitare nel saccheggio delle sue spoglie: sono due atteggiamenti umani, l’uno di superficialità ed egoismo, l’altro di disonestà morale e di cinismo, che si danno la mano e che s’intrecciano, e non si saprebbe decidere quale di essi sia il peggiore, tanto sono bassi, vili e meschini l’uno e l’altro. Viva, quella cosa non era stata apprezzata, né difesa in alcun modo; morta, diventa una ghiotta occasione della quale approfittare e suggerisce parole di lode tanto tardiva, quanto grossolanamente interessata.

L’unico rimpianto sincero è quello di chi sapeva bene il valore di quella cosa che è stata distrutta, perché su di essa aveva costruito il proprio presente; nella poesia del Pascoli, è la capinera che leva nell’aria la sola voce di dolore autentico: lei che, con la caduta della poderosa quercia, ha perso, insieme al suo nido, tutto il suo piccolo mondo, il suo rifugio.

Gli altri hanno perduto il superfluo, e, del resto, si stanno risarcendo abbondantemente,  facendo man bassa delle spoglie; la capinera ha perduto l’essenziale, e il danno, per essa, è stato totale e irrimediabile. È lei la sola e vera vittima. Le parole di circostanza degli uomini, quasi in presenza di un vecchio amico defunto, servono solo a placare i loro scrupoli, forse il sottile rimorso per la loro indifferenza precedente; il lamento della capinera non è una voce di circostanza, ma un autentico lamento, l’espressione di una desolazione vissuta sino in fondo.

A lei, tuttavia, nessuno pensa. Rimpiangono la quercia caduta, ma non si curano del dolore della capinera: il povero uccellino è completamente solo con se stesso. Lodano l’albero morto e si rammaricano per la sua scomparsa; non si accorgono nemmeno che un’altra creatura vivente è rimasta orfana, assai più di loro e nel senso più vero dell’espressione. Se essi hanno perso un’amica, che rappresentava un elemento familiare nel paesaggio della campagna, la capinera ha perso tutto, senza rimedio, e per sempre. Nulla potrà risarcirla, in alcun modo. La voce della capinera si perde nel buio della sera come una delle tante voci della natura, come uno dei tanti canti di uccelli: ed invece è un pianto sconsolato, colmo di disperazione.

Giovanni Pascoli è stato grande: in pochissimi versi, con poche parole, ha detto tutto: più di quanto uno scrittore meno penetrante sarebbe riuscito ad esprimere in diverse pagine di prosa. Perché questo è il vero senso della poesia: andare dritto al cuore delle cose, in un baleno, in un lampo, tralasciando tutto il resto. Agli altri, il commento; a lui, il poeta, la capacità di penetrare, in un attimo, nel mistero più grande di tutti: come un fulmine che squarcia il buio della notte e che rivela vividamente, quasi spietatamente, ciò che stava nascosto nel seno dell’oscurità. Il poeta sa vedere quel che gli altri non vedono, se qualcuno non fa loro un po’ di luce.

Il mistero più grande di tutti – Pascoli lo aveva visto perfettamente – è il mistero del dolore. Non c’è mistero più grande: tutti gli altri, al suo confronto, rimpiccioliscono e scompaiono; lui solo rimane, indecifrabile, a sfida perenne. Ed è anche il solo che non si possa eludere, mai, in alcun modo: ovunque si vada, in qualsiasi direzione si dirigano i propri passi, presto o tardi si finisce per imbattersi in esso. Si ha un bel girarci intorno o voltargli le spalle: fatto un altro po’ di strada, ecco che lo si ritrova nuovamente, imperioso, enigmatico. Non dà tregua. E lancia la sua sfida: o voi mi comprendete, oppure io vi perseguiterò per tutta la vita, come un mastino affamato, come un persecutore implacabile.

La filosofia aiuta, ma non basta. Chi è sul punto di schiantarsi per il dolore, non trova sufficienti ragioni nel pensiero: perché nessun pensiero è così abissale da rendere ragione d’un mistero tanto grande. E, mistero nel mistero, così profondo da dare le vertigini, così sconvolgente da turbare il sonno di qualunque giusto: il dolore che colpisce il piccolo, l’innocente. Il dolore che colpisce la capinera; il dolore che si abbatte su di un bambino. Non ci sono ragionamenti per spiegarlo; non c’è filosofia abbastanza grande per comprenderlo, meno ancora per spiegarlo. Il pensiero è impotente, la filosofia diventa un trastullo verbale. Ma il dolore del piccolo, rimane.

Eppure, il dolore non risolto diventa una forza demoniaca: bisogna strappargli ad ogni costo il pungiglione, oppure il suo veleno infetterà ogni piano di esistenza e quell’anima sarà persa. Esistono molti modi di trasformare il dolore in una forza del male: uno dei più facili, e dei più abietti, è quello di vivere di rendita grazie ad esso, imponendo il fardello del senso di colpa su tutti gli altri, “rei” di non soffrire altrettanto. Ci sono non solamente individui, ma gruppi e addirittura comunità, che hanno scelto questa forma di sfruttamento demoniaco del dolore: di essi si può avere solo compassione, ma bisogna anche difendersi dal loro atroce ricatto morale. Subirlo, sarebbe non soltanto una ingiustizia verso se stessi, ma un vero e proprio cedimento - e dunque una forma di collaborazione - con il male stesso.

Esiste una sola maniera per strappare al dolore il suo pungiglione velenoso: guardarlo bene in faccia, accettarlo, trasformarlo in un atto di amore, di offerta, di preghiera, e far sì che la maledizione diventi una benedizione, l’abisso della disperazione si trasformi in una esplosione di luce e di calore. Questo è l’unico modo: non ce ne sono altri, che non siano dei meri palliativi. Esistono dozzine di falsi medici e di false ricette che pretendono di insegnare altre maniere per “oltrepassare” il dolore: ma la verità è che il dolore non si oltrepassa, lo si può solamente attraversare e, dopo averlo attraversato, trasfigurarlo.

C’è solo un problema: che l’essere umano, e sia pure il più evoluto, il più spirituale, il più nobile degli esseri umani, è assolutamente incapace di realizzare una impresa del genere. Pensare il contrario, sarebbe come immaginare che esistano degli esseri umani capaci di volare fino ai pianeti più lontani, solo perché nell’anima umana vi sono il sogno e il desiderio ardente di volare e di uscire dai confini angusti di questo universo. Sogni e desideri non bastano affatto, per quanto ardenti possano essere. Chi scambia l’esistenza di un desiderio con la possibilità di realizzarlo, è uno sciocco o un deliberato impostore.

E allora?

La soluzione esiste: ma, per riuscire a vederla – non diciamo ad attuarla – è necessario un atto preliminare di umiltà: è assolutamente indispensabile deporre quell’orgoglio luciferino che è, ed è sempre stato, il principale nemico che l’uomo abbia coltivato in se stesso. Nessun nemico esterno ha mai procurato così gravi danni all’umanità, quanto l’orgoglio sfrenato che si annida nelle profondità dell’anima: l’orgoglio di credersi autosufficienti, di poter fare da soli, di essere pari al Creatore. Finché non si piega e non si spezza questo orgoglio diabolico, qualunque tentativo di uscire dal carcere dell’io sarà condannato in partenza al fallimento. Perché l’io è un vero e proprio carcere, una prigione soffocante e desolata: è in essa che la ferita del dolore s’infetta e diventa velenosa. Strappare al dolore il suo pungiglione, significa sfondare le porte ed abbattere le pareti di quel carcere, annientando le catene dell’orgoglio.

Quando l’uomo impara a deporre la pesante armatura dell’orgoglio - che egli s’illude valga a proteggerlo dalle minacce esterne, mentre è il principale strumento della sua inconsapevolezza, e quindi della sua sofferenza – allora, e solo allora, incomincia a vedere il reale per quello che realmente è, e non per quello che credeva che fosse: una proiezione dell’io, cioè una moltiplicazione all’infinito della sua stessa prigione. Ma il reale non è questo: non è la proiezione dell’io, bensì è la manifestazione dell’amore universale. L’io, aggrappato al proprio feroce egoismo, è ciò che si oppone all’amore; l’io, che – si badi – non è male in se stesso, ma lo diventa, quasi inevitabilmente, ogni qualvolta la coscienza gli concede troppo spazio e gli permette di insignorirsi, abusivamente, di tutta la vita dell’anima.

Riportare l’io dentro i suoi legittimi confini, significa valorizzare le sane aspirazioni di cui è portatore; ma non tutte le sue aspirazioni sono sane e, quel che è peggio, la sua naturale tendenza è quella di debordare, di invadere spazi della coscienza che non gli appartengono. Se fosse per lui, se gli si lasciasse le redini libere sul collo, tutto il resto scomparirebbe o verrebbe sottomesso dalla sua crescita esponenziale. La maggioranza degli esseri umani è afflitta da un io ipertrofico, cioè malato: chi ha compreso questo, ha anche nelle mani gli strumenti per iniziare un percorso di redenzione dall’inferno dell’io esorbitante e chiuso in se stesso.

Non stiamo dicendo che tutte le sofferenze provengono dall’io, ma che l’io è responsabile della maniera radicalmente sbagliata con la quale noi siamo soliti affrontarle. Le sofferenze possono venire anche dall’esterno: questo è verissimo. Ma sta a noi decidere se vogliamo dare loro sempre nuova esca, alimentando l’incendio con cui ci divorano l’anima, oppure far sì che non trovino più alimento e finiscano per spegnersi, restituendoci la nostra pace. Tuttavia, abbiamo detto che una tale impresa non è da uomini: è da Dio. Solo sopprimendo il proprio orgoglio e affidandosi a Dio, l’uomo può trovare la redenzione dal dolore. Il dolore accettato e offerto a Dio diventa il principio della liberazione, della luce e della gioia. Noi non siamo stati fatti per soffrire, ma per gioire (il che è cosa assai diversa dal “godere”, come credono i materialisti).

Tornando alla poesia di Pascoli: il rimpianto degli uomini per la quercia caduta è sterile e ipocrita; il pianto della capinera è sincero, ma sterile anch’esso. Se il dolore si chiude in sé, diventa l’inferno della nostra vita. Noi dobbiamo guardare avanti e in alto: all’Amore divino che incendia ogni cosa...