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Le nazionalizzazioni e l’affaire Mattei: un affare scomodo

di Alex Barone - 07/09/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


A partire dagli anni Cinquanta, i governi italiani, al fine di far fronte alle numerose crisi del dopoguerra e di provvedere alla realizzazione di opere di pubblica utilità, ha talvolta adottato la strategia politico-economica della cosiddetta nazionalizzazione, trovando tuttavia pesanti attriti nel mondo del privato.

  

Quando si parla di nazionalizzazione, si genera, inevitabilmente, un atavico dibattito economico-politico, tra sostenitori della libera impresa e della libera iniziativa e sostenitori delle economiche di tipo socializzato e programmato. Nazionalizzare significa, in sostanza, porre sotto il controllo, l’esercizio e l’autorità dello stato una determinata attività in grado di produrre beni o risorse, al fine di garantire la realizzazione di precise condizioni o ricchezze utili alla collettività. Tra le ragioni di stato in grado di giustificare eventuali nazionalizzazioni delle aziende, possono esservene differenti, tra cui, ad esempio, la riduzione del tasso di disoccupazione, piuttosto che il poter gestire e stabilire i prezzi, regolamentare le produzioni economiche, o, semplicemente, assicurare la distribuzione del bene prodotto secondo precise esigenze collettive. Principio, dunque, che contrasta radicalmente con il principio cardine che, invece, regge le economie sorrette dalle logiche del libero mercato, le quali hanno come fine ultimo la produzione di servizi non con l’intenzione di garantire un bene collettivo (sebbene, di fatto, anche questo tipo di economia possa garantirlo) ma al fine di ottenere profitto (a vantaggio del privato gestore e proprietario della struttura produttiva). Questa logica della nazionalizzazione dei servizi, in Italia, talvolta, venne adottata da diversi governi, i quali posero sotto il monopolio di stato alcune ricchezze produttive al fine di garantire la distribuzione di risorse a prezzi proporzionati alle disponibilità della popolazione. Nel corso della storia italiana, infatti, il processo di nazionalizzazione é stato condotto più volte. Di fatto, ad oggi, la carta costituzionale italiana prevede ancora la possibilità -tramite un decreto legislativo – , qualora l’attività possa rivelarsi utile al bene collettivo, di porre sotto  regime nazionalizzato entità aziendale e produttive. I governi italiani, nel corso del Novecento hanno talvolta ritenuto fosse una ragion di stato questa pratica di apparente esproprio economico, o, semplicemente, di inquadramento di un determinato complesso produttivo al di fuori delle logiche della direzione privatizzata. Basti pensare alla costituzione dell’AGIP (azienda generale italiana petroli), nel 1926, piuttosto che alle opere di tentata socializzazione delle aziende operate nella fase ultima della Repubblica Sociale Italiana.

Nell’immediato dopoguerra, all’alba della creazione della nuova Repubblica Italiana, il dibattito intorno alle socializzazioni delle principali aziende e alla statalizzazione di buona parte delle risorse e del capitale italiano, non fu per nulla assente. Ai primi anni Cinquanta risalgono le prime operazioni in chiave nazionalizzante compiute durante il periodo repubblicano in seno alla produzione economica. In questi anni, anche per far fronte ai danni devastanti della Seconda guerra mondiale ricevuti dall’economia italiana, lo stato inizia ad assumere profili, talvolta, fortemente interventisti. Nei primi anni cinquanta, infatti, la Democrazia Cristiana (forza politica con maggiori consensi) aveva iniziato ad adottare un orientamento meno liberista rispetto all’inizio e sempre più vicino al cosiddetto cattolicesimo sociale. Nel 1953 viene fondato (in riferimento anche ai precedenti enti attivi nel settore degli idrocarburi, realizzati in epoca fascista), L’ENI (Ente nazionale idrocarburi). Lo scopo di questa azione legislativa (da parte dello stato) era quello di creare una struttura monopolizzata dallo stato, avente come obiettivo la ricerca di idrocarburi nella pianura padana, al fine di garantire l’estrazione di questo bene naturale per il benessere collettivo della nazione. La presidenza dell’ente fu affidata ad un illuminato ed astuto imprenditore e dirigente italiano, Enrico Mattei, il quale avrebbe dovuto condurre i lavori ed il buon funzionamento del progetto. Egli aveva in mente un progetto infinitamente ambizioso da applicare sfruttando l’esistenza di questo nuovo ente pubblico, ovvero il progressivo raggiungimento di indipendenza ed autonomia energetica dell’Italia rispetto alla dittatura monopolistica degli Stati Uniti sul petrolio ed in particolare delle cosiddette “Sette sorelle” (le più grandi aziende petrolifere mondiali). Mattei iniziò a stipulare positivi e fortunati contratti e rapporti con alcune nazioni (tra le quali Egitto, Iran e Russia), a compiere operazioni vincenti e sempre più indirizzate  verso questo brillante progetto, a stringere alleanze e trovare sostegni con partiti politici. Tuttavia, questo progetto non vedrà mai concretamente la luce, poiché Mattei, il 27 ottobre del 1962, verrà trovato morto in un incidente aereo, avvenuto in circostanze ancora poco chiare.

Dopo la non riuscita azione di Mattei e alla creazione dell’ente pubblico per la ricerca di idrocarburi, un successivo tentativo di nazionalizzazione di un altro bene pubblico venne operato dallo Stato. Nel luglio del 1962, dopo un periodo caratterizzato da discussioni in ambito parlamentare, e da forti pressioni politiche (da parte della sinistra italiana del tempo, in particolare dall’ala dei socialisti), venne approvata una legge che, di fatto, poneva sotto il controllo nazionale l’energia elettrica (fonte naturale fondamentale all’interno di un paese ormai industrializzato e non più prevalentemente agricolo, quale iniziava ad essere l’Italia), culminando con la creazione del primo ente di distribuzione di energia elettrica in tutto il paese, l’ENEL (ente nazionale per l’energia elettrica), con profonde critiche da parte degli ambienti dell’energia elettrica privata. Questo nuovo complesso societario, negli effetti, acquisiva il monopolio su quasi tutte le aziende elettriche private del paese, al fine di autenticare un disegno politico che auspicava, appunto, all’unificazione della produzione e della gestione di energia in tutta l’Italia.

Questo grande ed ambizioso progetto governativo, avrebbe consentito allo stato di organizzare equamente la distribuzione di elettricità tra la popolazione, garantendo il regolare flusso di energia elettrica in relazione alle richieste (con la realizzazione di programmi aziendali costanti) ed il controllo dei prezzi in questo settore. Tuttavia, dopo un periodo (negli anni Settanta ed Ottanta) caratterizzato da seri di cambiamenti e rinnovamenti all’interno dell’ente, da crisi ripetute (con la crisi energetica del 1973), a partire dagli anni Novanta, anche l’ENEL ha subito gli effetti della progressiva tendenza neo-liberista e privatizzante avviata a partire da quest’epoca e ad una graduale liberalizzazione degli assetti societari di buona parte della società. La nazionalizzazione dei beni, infatti, ingenera, inevitabilmente, un rapporto di profonda scissione tra pubblico e privato, e l’esistenza di strutture aziendali in grado di superare le logiche del profitto e della competizione economica, anteponendo, invece, il “bene pubblico” alle istanze egoistiche dell’individuo, se non sostenuta da governi solidi, stabili e profondamente interessati al bene collettivo, in grado di far funzionare progetti di pubblica utilità, risulta essere una bella utopia destinata al fallimento. Tuttavia, il concetto di nazionalizzazione, è quasi un tabù, di cui si evita sempre di parlare e d’approfondire, vagliandone le eventuali possibilità di concretizzazione a lungo termine. Da sempre risulta essere un affare profondamente scomodo, troppo scomodo per non essere sostenuto.