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Dharma e psicoterapia

di Mark Epstein - 14/09/2015

mandala buddhakapala.jpgMentre gli insegnamenti buddisti sulla sofferenza e la natura del sé si diffondono sempre più in occidente, gli psicoterapeuti hanno cominciato a scoprire le possibilità spirituali insite nel loro lavoro.

Alla prima conferenza di New York sul buddismo e la psicoterapia, alla fine degli anni ’80, il dialogo tra le due discipline si dimostrò più difficile del previsto. Erano presenti molti terapisti e dovevano parlare diversi insegnanti buddisti, ma parecchi di questi ultimi non erano particolarmente interessati al punto di vista psicodinamico, né avevano di esso una conoscenza approfondita.

I buddisti volevano parlare del buddismo, i terapisti intendevano discutere delle emozioni: non era molto chiaro quale terreno in comune avrebbe potuto esserci tra le due discipline.

Dopo il discorso di apertura, il disagio crebbe sempre più finché, dopo un giorno e mezzo, una donna esasperata si alzò dalla sedia e rivolse una frase al lama tibetano che aveva appena terminato il suo intervento. «Non mi interessa quanti maestri zen possano stare in piedi su una capocchia di spillo», cominciò, con una frustrazione evidente a tutti. Ci fu qualche applauso e l’attenzione crebbe in tutta la sala. «Voglio sentire parlare di cagare, pisciare e di fare sesso.»

Sull’uditorio piombò il silenzio: non era questo il modo di rivolgersi a un lama tibetano. Tuttavia, ciò che la donna voleva dire venne compreso da molti dei presenti. Gli interventi della conferenza sembravano troppo sublimi per i terapisti presenti, troppo lontani dalla realtà quotidiana dei loro casi terapeutici. Dov’era la concretezza dei vecchi, buoni istinti freudiani?

Il lama, senza comprendere, si voltò verso gli organizzatori della conferenza per ottenere una traduzione. «Vuole sentire parlare di cagare, pisciare e di fare sesso», gli dissero imbarazzati. Il lama, dopo un attimo di perplessità, chiese: «Ma come ha fatto ad arrangiarsi fin’ora?». Per un momento, l’interesse freudiano verso le esperienze primitive sembrò, alla luce del buddismo, assurdo.

Se questo particolare scambio fece emergere tutto il divario tra il dharma e la psicoterapia, tra gli istinti psicoanalitici e lo spirito buddista, l’ininterrotto dialogo che era emerso nell’ultimo decennio tra le due tradizioni aveva, però, molto arricchito entrambe. Benché i terapisti fossero frustrati dalla riluttanza degli insegnanti buddisti ad affrontare direttamente i temi emozionali, ciononostante rimasero fino alla fine della conferenza.

Qualcosa li stava spingendo verso il dharma. Cosa? Il riconoscimento, forse, che la concezione buddista del non-io dava un senso nuovo ai loro studi sull’io, o che lo “spirito” buddista aiutava molto a riequilibrare e rianimare il loro interesse verso il cagare, il pisciare e il fare sesso. I terapisti potevano fare riferimento al maestro zen giapponese Dogen, vissuto nel tredicesimo secolo, la cui famosa affermazione sul dharma si poteva leggere nel programma della conferenza: “Studiare il buddismo vuol dire studiare il sé. Ma studiare il sé vuol dire obliare il sé. E obliare il sé vuol dire venire illuminati da tutte le cose”.

Gli psicoterapeuti, nella loro attrazione verso il buddismo, avevano cominciato a recuperare le possibilità spirituali inerenti al loro lavoro. Nello studio del sé, avevano scoperto da soli quel curioso principio su cui si basa tutta la visione buddista: più ci concentriamo sul sé, più questo diventa difficile da localizzare. È come cercare di isolare un elettrone: più cerchiamo di vederlo come una particella, più esso si comporta come un’onda. I terapisti si erano ritrovati nella posizione del poeta Wallace Stevens, nella sua famosa opera Sedici modi di guardare un merlo:

Non so cosa preferire
La bellezza delle inflessioni
O quella delle allusioni
Il fischio del merlo
O subito dopo.

La psicologia occidentale è stata nella posizione di concentrare la sua attenzione sul fischio del sé. Ma dedicandosi a quel fischio, ha cominciato a comprendere quanto fosse grande la bellezza delle allusioni che stava perdendo. Molti terapisti sentono che il buddismo ha qualcosa di importante da insegnare sul “subito dopo”, sui benefici derivanti dal superamento di un’esclusiva identificazione con il sé.

Ma gli insegnanti buddisti hanno dovuto affrontare le implicazioni dell’ultima parte dell’affermazione di Dogen: “Obliare il sé vuol dire venire illuminati da tutte le cose”. “Tutte le cose” sono anche la vita emozionale: ovvero, il cagare, il pisciare e il fare sesso. In occidente, la vita emozionale insiste sull’attenzione. Il buddismo, grazie all’incontro con una cultura imbevuta di terapia, ha dovuto affrontare una moltitudine di temi emozionali che le tradizionali società orientali relegano alla sfera privata.

A uno dei primi incontri tra maestri buddisti asiatici e terapisti e insegnanti del dharma occidentali, per esempio, il Dalai Lama rimase assai meravigliato da quel concetto di “bassa autostima” di cui sentiva tanto parlare. Essa era completamente estranea alla sua esperienza. Alla fine andò in giro per la sala, chiedendo a ognuno degli occidentali presenti: «Tu hai questo? Tu hai questo?», scuotendo il capo in segno di incredulità quando ciascuno di loro gli rispondeva di sì.

Per lui, tutto ciò era tanto strano quanto, per il lama della conferenza, quell’affermazione proveniente dal pubblico. Nel mondo del Dalai Lama, la presenza di un forte e sicuro sentimento di sé è data per scontata, mentre nei praticanti buddisti provenienti dalla nostra cultura spesso esistono sentimenti di inquietudine e insicurezza molto forti.

In occidente, il dharma ha dovuto adattarsi a temi emozionali come la bassa autostima, mentre gli insegnanti buddisti, nonostante la scarsa dimestichezza con molti principi della psicoterapia e della personalità occidentali, si sono ritrovati a rendere incerta la linea divisoria tra insegnante e terapista. I bisogni dei loro studenti li hanno costretti a scavare a fondo nel substrato psicologico degli insegnamenti buddisti e a familiarizzare con le terapie occidentali, arrivando a creare nuove forme di dharma in cui i temi emozionali non sono relegati nell’ombra.

Alla stessa conferenza degli anni ‘80, lo psichiatra britannico R. D. Laing fece una delle sue ultime apparizioni pubbliche. “Abbiamo tutti paura di tre cose”, disse con voce tonante alla folla riunita; “Abbiamo paura l’uno dell’altro, della nostra mente e della morte”. Egli sottintendeva che sia il buddismo che la psicoterapia ci aiutano ad affrontare queste paure. Nessuna tradizione può rivendicare l’egemonia su di esse.

Grazie alla scoperta l’una dell’altra, avvenuta nel decennio passato, queste due tradizioni di saggezza non hanno soltanto avviato un fruttuoso dialogo, ma hanno anche accelerato la propria evoluzione, rendendo possibile una psicoterapia più spirituale e un buddismo più psicodinamico. Come ogni relazione vitale, quella tra psicoterapia e buddismo non sarà priva di conflitti, ma il potenziale di un’unione feconda dipende esclusivamente da noi.

Mark Epstein è uno psichiatra che esercita a New York. Inoltre, è autore di La continuità d’essere (Astrolabio, 2002), Lasciarsi andare per non cadere in pezzi (Neri Pozza. 1999), Thoughts Without a Thinker (HarperCollins, 1996) e Going On Being (Broadway Books, 2001).

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