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Ironico, ribelle, ballerino di tip tap così ricordo mio padre Ezra Pound

di Mary de Rachewiltz - Antonio Gnoli - 14/09/2015

Fonte: La Repubblica


È vero, papà ammirava Mussolini. Ma solo perché vedeva in lui un “Principe” alla Machiavelli. Non aderì mai al regime. Anche se era a Salò insieme a Gentile


Varia fu la vita di Ezra Pound. Sommò intelligenza sublime e operosa, ostentate polemiche (da parte soprattutto di coloro che ne videro un dilettante, anche se di talento) e punizioni terribili. Su quest’uomo — nato a Hailey nell’Idaho — che amò come pochi l’Italia tanto da considerarla una specie di patria culturale, scese una strana notte. Una di quelle notti che non creano legami, ma spavento, che tengono distanti gli uomini dalla vita. Non è facile immaginare cosa provasse in quei momenti e a quale grado di sopportazione fosse giunta la sua resistenza. Ma è con questa immagine senza fiato che vado a trovare la figlia di Pound: Mary de Rachewiltz nel suo castello sopra Merano. È una donna che, nei tratti, rivela un’antica bellezza (ha compiuto in luglio novant’anni). Energica e dolce. Dotata di uno spirito franco e battagliero. Capace di arrabbiarsi, denunciando l’appropriazione indebita che “Casa Pound” ha fatto del nome del padre: «Una vergogna», commenta asciutta.
Ci sediamo nella stanza dove Pound passò alcuni degli ultimi anni della sua vita. Tra i mobili in legno che progettò, alcune copie dell’ Ulysses , dizionari e i libri che erano serviti, in parte, alla stesura dei Cantos , in parte per lavorare su Dante e Cavalcanti. Proprio su Dante sono usciti i suoi saggi: un libro misterioso che Vanni Scheiwiller non fece in tempo a pubblicare e che ora vede la luce, per Marsilio, grazie all’ottima cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani.
Vorrei chiederle intanto del suo cognome. Lei non porta quello di suo padre. Perché?
«Era già sposato, e non poté unirsi in matrimonio con mia madre: Olga Rudge. Mi chiamo Maria Rudge. De Rachewiltz è il cognome di mio marito Boris: un personaggio a suo modo singolare. Fu egittologo, incline al mistero. Il padre acquistò questo castello dove, a un certo punto, ci trasferimmo».
Suo padre con chi era sposato?
«Con Dorothy Shakespear da cui ebbe un figlio, Omar. Ma il vero amore fu con mia madre. Un’irlandese testarda, eccellente violinista, innamorata di quest’uomo speciale. Si scambiarono lettere per quasi tutta la vita».
C’è un verso famoso dei Cantos: “Conta solo l’amore, il resto è spazzatura”. Davvero contò solo l’amore?
«L’amore era per lui qualcosa di universale. Non solo l’amore per una donna, ma anche per un poeta, per uno scrittore, per un paese o una città. L’amore era la capacità di vivere con intensità quanto gli accadeva».
E crede che suo padre l’abbia amata a sufficienza?
«Penso di sì. Fu straordinario, anche se intermittente, il nostro rapporto».
Però la sua infanzia non fu facile tra queste due presenze — sua madre e lui — così forti e autonome.
«Non fu facile ma fu felice. Vissi selvaggiamente i miei primi anni in una casa di contadini a Gais in Val Pusteria. A quel tempo la mamma — grazie alle sue competenze musicali — lavorava soprattutto a Siena con il Conte Chigi. Mentre il babbo viveva un po’ a Rapallo e un po’ a Venezia».
Perché suo padre scelse l’Italia come luogo dove vivere?
«Perché amava il bello e il bello era l’Italia, che ritrovava nei mosaici di Ravenna, nella pittura del Quattrocento o nella poesia del Trecento. Amava Venezia. Vi giunse la prima volta da bambino nel 1890».
È giusto ricordare l’attrazione estetica che suo padre ebbe per il nostro paese. Ma ci fu anche l’attrazione politica per il fascismo. Come giudica questo secondo aspetto?
«Mio padre non subì nessuna infatuazione dal regime fascista. Apprezzò viceversa la figura di Mussolini. Tanto che nel 1933 andò a Roma per donare una copia dei Cantos al Duce».
Cosa trovava nel grande dittatore?
«Pur tra gli equivoci che con il tempo si produssero, credo che vedesse in lui quello che Machiavelli vide nel
Principe , cioè la figura in grado di affrontare e risolvere i gravi problemi del paese. Tra l’altro era convinto che Mussolini non volesse la guerra. Ne parlò con George Santayana. Anche lui certo che Mussolini non avrebbe mai dichiarato guerra alla Francia e all’Inghilterra ».
E invece ci finì dentro. Lei come visse gli anni della guerra?
«Ricordo l’ultima vacanza a Venezia. Era l’ottobre del 1940. Con il babbo andammo al Lido. Ogni cosa sembrava spenta. Diversa rispetto agli sfavillanti anni precedenti. Vissi l’entrata in guerra con questa percezione di dissoluzione».
Come reagì?
«Ero disorientata. La mia educazione si era svolta fuori dagli obblighi scolastici che vivevo come un incubo. Amavo leggere quello che il babbo mi consigliava. Un libro che mi affascinò furono Fiabe del Kordofan di Leo Frobenius».
Si conoscevano Frobenius e suo padre?
«Piuttosto bene. Ricordo che nell’edizione tedesca era apposta una dedica di Frobenius. Poi i due si scambiarono lettere. Entrambi mostravano un grande interesse per le civiltà scomparse. Alle tracce che erano sopravvissute: “ Risvegliare i morti” sentivo a volte ripetere. Ossia la capacità di tenere assieme il mito e la storia. Ma sto divagando. Ricordo, sempre a proposito di libri, che quando lessi le memorie di Florence Nightingale decisi che avrei fatto l’infermiera».
Ci riuscì?
«Nell’aprile del 1944 fui presa come segretaria nell’ospedale tedesco di Pocol. Non era esattamente come fare l’infermiera ma entrai in contatto con quel mondo della convalescenza dove il confine tra speranza e disperazione non era del tutto definito».
Che gente si curava?
«Soldati tedeschi vittime anche loro della guerra. Soprattutto cinquantenni: infermi, feriti, malandati, spesso senza denti, ingrigiti nei capelli. Non era un bel vedere. Ricordo, poi, la stanza numero 20».
Cosa aveva di particolare?
«Era detta la stanza dei morituri. Ci portavano i casi disperati. Vidi uno di quei casi. Un aviatore, giovane. Malridotto. Mi scambiò per un dottore. Voleva che fossi io a curarlo. Gli dissi che ero solo una segretaria. Mi mostrò le sue foto. E la medaglia d’argento. Mi raccontò della sorella che studiava medicina a Norimberga. Alla fine riuscii a parlare con l’infermiera che lo aveva in cura e credo che grazie alla sua assistenza quel soldato sia stato uno dei pochi a uscire vivo dalla stanza numero 20 ».
La guerra era persa. I tedeschi in rotta. Mussolini decaduto. E poi il tentativo di fare un nuovo governo, una nuova patria: la Repubblica sociale. Suo padre aderì, perché?
«Forse per un assurdo senso dell’onore e della coerenza. Non era, del resto, capitato qualcosa di analogo a Giovanni Gentile?».
Gentile fu ucciso. Suo padre catturato alla fine della guerra. Lei era abbastanza grande per avvertire tutta la forza della tragedia che si stava consumando.
Quando ne ebbe la certezza?
«Dovrei fare un passo indietro. Quando ci fu l’attacco a Pearl Harbur, da parte dei giapponesi, mio padre restò sconvolto. Poi, l’America dichiarò guerra. A quel punto come tanti americani cercammo il rientro in patria con l’aereo. Ci fu negato. Ci proposero il piroscafo.
Lo consideravano schierato con il nemico.
Ma con il mare infestato di mine e di sottomarini sarebbe stato un suicidio. Poi gli congelarono i conti. In pratica le autorità americane resero impossibile il suo rientro ».
«Per i suoi discorsi alla radio? La verità è che i suoi pronunciamenti, al di là dei toni spesso aspri, erano una denuncia dei poteri forti e della politica del Presidente. Lo accusarono di tradimento».
Che idea si è fatta?
«Pensai che la situazione aveva preso una piega terribile. Ripensavo non solo all’ultima fase, ma anche ai fotogrammi precedenti. Ero tornata a Gais, dove ancora ci si poteva sfamare. Fu qui che lo rividi. Aveva lasciato Roma. Come un fuggiasco. Giunse che sembrava un’altra persona. Aveva i piedi arrossati, martoriati dalle vesciche. Le gambe gonfie. I vestiti sgualciti. Mi si strinse il cuore».
Cosa le dava più fastidio di questa immagine di suo padre?
«Non provavo fastidio. Era tutto comprensibile. Semmai ricordavo l’uomo diverso. Lo spirito ribelle e burlone. Di solito si tende a vedere in Pound solo la
maestosa severità. Non era così».
C’è qualche episodio che le torna in mente?
«La prima volta che io e la mamma arrivammo a Roma, ci portò a vedere Biancaneve e i sette nani . Ci divertimmo tantissimo ».
Gli piaceva il cinema?
«Sì anche quello più popolare. Non disdegnava la commedia americana. Una sera vedemmo un film con Fred Astaire. Quando uscimmo dal cinema il babbo cominciò a ballare il tip tap. Era buffo. Divertente. Sapeva farti ridere e al tempo stesso coinvolgerti in un’impresa. Fu con questo spirito, ad esempio, che egli volle che fossi io a tradurre i Cantos ».
Come avvenne questa investitura?
«Fu abbastanza semplice. Un giorno si presentò con una rivista dove avevano tradotto una parte dei Cantos .
La gettò sul tavolo e disse: vorrei vedere se sai fare di meglio. Intendeva, se potevo tradurre in modo più appropriato. È stato così che ho dedicato parte importante della mia vita a questa impresa».
A proposito di traduzioni, quando suo padre venne arrestato stava traducendo Confucio.
«È vero. Due partigiani — in realtà due ex fascisti, due avanzi di galera che si erano riciclati — seppero che c’era una taglia sulla sua testa. Non gli fu difficile individuare dov’era: sulle colline di Sant’Ambrogio. Vi arrivarono, smaniosi di incassare il denaro. Picchiarono alla porta con i fucili, il babbo era solo in casa. Aprì. Dissero che era un traditore e che lo avrebbero condotto al Comando».
Dove lo portarono esattamente?
«Prima a Zoagli. Da qui a Genova e poi al campo correzionale di Coltano vicino Pisa. Fu difficilissimo rintracciarlo. Alla fine riuscimmo a conoscere la destinazione. Arrivai con la mamma a Pisa. Ci accolsero in una tenda e dopo un po’ arrivò il prigioniero Pound. Disse che erano stati gentili. Non mi parlò allora del posto dove lo avevano rinchiuso. Fu tutto molto penoso. Poi giunse un ufficiale. Decretò con durezza che il colloquio era finito. Il babbo fu portato via».
Cosa accadde?
«Restammo sole, io e mia madre. Angosciate dalla vista di un uomo invecchiato con gli occhi rossi, la camicia e i pantaloni militari troppo grandi, i piedi nudi infilati nelle scarpe senza stringhe. Ci sorrise. Ci abbracciò. E sparì. Solo anni dopo, quando era internato a Washington al St.Elizabeth’s Hospital, mi raccontò cosa era stata l’esperienza pisana, in quella che lui chiamò la “gabbia del gorilla”. A quali sofferenze inaudite fu sottoposto».
Quando tutto questo ebbe termine, cioè circa 14 anni dopo, suo padre decise di tornare in Italia. I testimoni e le persone che lo videro notarono una persona molto diversa.
«Cosa intende?».
Un uomo che aveva scelto il silenzio.
«Era giunta l’età del tacere ».
A questo proposito ricordo un breve filmato televisivo in cui Pasolini nel 1968 intervista Pound. Si nota l’emozione di Pasolini e la distanza quasi remota di suo padre.
«Pasolini era stato tra coloro che avevano non solo approvato ma incitato alla galera. Trovai strano e forse un po’ contradditorio quel ripensamento, quella visita così ossequiosa».
Comunque gli amici che lo difesero e che non l’abbandonarono furono diversi.
«Mia madre fece di tutto per mobilitare le persone che lo avevano conosciuto e amato. Da Hemingway a T.S. Eliot».
Ho visto qui nel Castello in una teca un assegno di Hemingway a suo padre.
«Ah, l’ha notato! Mio padre non l’ha mai riscosso. Millecinquecento dollari che Hemingway aveva messo a disposizione del babbo. Non aveva un rapporto facile con il denaro».
E poi il nome “Pound”.
«Già il nome. È buffo. Homer, suo padre, fu impiegato della zecca».
Come furono gli ultimi anni?
«Sembrava un fiume prosciugato. A un certo punto non voleva più mangiare. Sentiva in lui crescere un senso di inutilità. Venne così il tempus tacendi. Il bisogno di ritrarsi dal mondo».
“Lasciate che un vecchio abbia quiete”, scrisse nei “Cantos”.
«Pensava di aver parlato troppo. Ricordo quella quiete. A volte, con la lentezza dei vecchi, lo vedevo passeggiare con mia madre. Sembravano due sculture di Giacometti. Esili. Enigmatiche. Mute. Due fantasmi usciti dai Cantos che avevano invaso i miei sogni».
Repubblica 13.9.15
Antonio Canova
L’ultima rivincita dello scultore del Bello odiato dai romantici
di Antonio Pinelli


Dagli altari alla polvere, per poi risorgere dalle proprie ceneri come una fenice: Canova è forse il più clamoroso esempio di quanto possano essere repentine quelle che Francis Haskell definiva le “metamorfosi del gusto”. Idolatrate dai contemporanei come opere di un Fidia redivivo, già pochi anni dopo la morte dell’artista le sue sculture divennero il bersaglio privilegiato della critica romantica. Da fedele interprete del precetto- cardine di Winckelmann – «imitare l’Antico per divenire inimitabili» – Canova appariva ai Romantici, non a torto, come il massimo interprete di una scultura ispirata al culto dell’Antico e del Bello Ideale, alla quale essi opponevano due nuovi ideali estetici perfettamente antitetici: l’originalità e la spontaneità. Di qui, il marchio d’infamia di “grande artista mancato” che Canova portò impresso fino a poco più di mezzo secolo fa, perché neppure la prima metà del Novecento, dominata dall’estetica crociana, ostile a qualsiasi filtro concettuale frapposto tra conoscenza intuitiva ed espressione, volle riabilitarlo. Da allora la rivalutazione di Canova come artista sommo è un fatto acquisito, grazie a storici dell’arte del calibro di Rudolf Zeitler, Hugh Honour, Giulio Carlo Argan e Fred Licht, anche se i pregiudizi romantici sono duri a morire e circola ancora la leggenda di un Canova frigidamente accademico e “grande solo nei bozzetti”. Ben venga dunque una mostra come questa che si tiene nel Centro Saint-Bénin ad Aosta, organizzata dalla Regione Valle d’Aosta con la collaborazione della Fondazione Canova e curata dall’infaticabile direttore del Museo e Gipsoteca canoviani Mario Guderzo, coadiuvato da Giancarlo Cunial ( Antonio Canova. All’origine del mito , catalogo Silvana Editoriale, fino all’11 ottobre). Sempre allo scultore è dedicata a Possagno la mostra L’arte violata
nella Grande Guerra ( fino al 28 febbraio 2016) e nella stesso Museo Gipsoteca il 26 settembre arriverà la Venere di Leeds .
Ad Aosta, intanto, una sessantina di opere – una trentina di candidi gessi, pochi ma significativi bozzetti in creta e busti in marmo, cui si affiancano dipinti a olio e deliziose tempere autografe e acqueforti che illustrano i capolavori statuari di Canova e il Tempio di Possagno – offrono l’opportunità di una rivisitazione a largo raggio dell’arte canoviana, che stimola una riconsiderazione globale del processo operativo messo a punto dall’artista. Chi esalta i suoi bozzetti e ne denigra le statue crede di compiere un atto critico, ma in realtà non fa che precludersene la strada. Non è mettendo Canova contro Canova che si può pretendere di decifrarne il messaggio artistico.
«Abbozzare con fuoco ed eseguire con flemma»: questo era un altro dei precetti di Winckelmann che Canova seguiva alla lettera. Non ha senso, infatti, isolare i vari stadi attraverso cui lo scultore veneto passava dalla fase ideativa all’opera compiuta, contrapponendo quelli iniziali al risultato conclusivo, perché ciascuna fase era sentita dall’autore come la tappa di un processo funzionale alla realizzazione del marmo finale. Schizzi preparatori e bozzetti conservano l’irruenza dell’ispirazione, ma registrano anche i pentimenti, i dubbi, e perfino una voluta sommarietà, che serve a far risaltare meglio la dialettica tra pieni e vuoti, luci e ombre. Spesso in Canova, il fulcro dell’immagine è il “buco nero” di un vuoto, e nei gruppi statuari egli studiava a fondo l’effetto plastico e drammatico derivante dall’ombra che le figure si proiettano vicendevolmente. Si passava quindi alla fase, delicatissima, del modello in creta, che doveva essere della stessa dimensione della statua da compiere e da cui si ricavava il gesso. Quella del gesso era una fase ancillare e meccanica, di cui si occupavano allievi e collaboratori, così come un compito degli aiuti era la sbozzatura del blocco in marmo, compiuta mediante un procedimento semimeccanico. Sul gesso venivano applicati i repère, chiodini di bronzo spesso tuttora visibili, che, riportati sul blocco di marmo grazie a un meccanismo di compassi e fili a piombo, fornivano ai lavoranti una traccia sufficientemente precisa per riprodurre in esso la forma del modello in gesso. A questo stadio, interveniva di nuovo Canova per giungere al compimento finale della scultura con quella che egli definiva “esecuzione sublime”: una fase meditata, “flemmatica”, che non mirava a raffreddare lo slancio creativo, ma a depurare il dato sensoriale con una distillazione formale e poetica che determinava il trapasso dal “Bello di natura” al “Bello ideale”. A Canova, infatti, premeva mantenersi in bilico tra verità e idea, carnalità e astrazione, antico e moderno, senza mai scivolare da una parte o dall’altra di quel sottile crinale. Ecco perché la sua Paolina Bonaparte, mollemente sdraiata su un sofà che sembra preso di peso dall’arredamento di Villa Borghese, iscrive il fascino seduttivo del suo corpo sinuoso nel geometrico dispositivo di un’astratta sequenza di triangoli. Morbide curve dentro un’invisibile armatura di linee rette. Pieni cui fanno eco vuoti, entrambi calibrati al millimetro. Una donna, che però è una dea. Un marmo, che è però “vera carne”.
La Stampa 13.9.15
Calvino
Una morte seguita in diretta
di Paolo Di Paolo


«Calvino sta morendo». Fa un certo effetto, a trent’anni dalla morte, ritrovare le cronache de La Stampa nei giorni del lungo addio allo scrittore. Colpito da emorragia cerebrale nel pomeriggio del 6 settembre 1985 a Castiglione della Pescaia, viene ricoverato a Siena: i giornali seguono con un’attenzione oggi forse impensabile il congedo, l’alternarsi di speranze e di peggioramenti. «Calvino si aggrava» si legge ancora su La Stampa due giorni prima della morte.
«La testa fasciata»
«Alterazione febbrile, ulteriore spasmo cerebrale»: il bollettino medico è pubblico, curioso paradosso per uno scrittore tanto schivo e insofferente alle biografie. C’è l’ansia dei lettori e del mondo della cultura internazionale, il viavai degli amici all’ospedale: Natalia Ginzburg racconterà di averlo visto, dopo l’intervento, con «la testa fasciata, le braccia nude fuori dal lenzuolo, abbronzate e forti, ed era assopito». «Mi riesce difficile pensarlo morto - aggiunge Ginzburg - Non so perché, ma la morte mi sembrava quanto mai lontana dalla sua persona».
Calvino era poco più che sessantenne, stava lavorando alle Lezioni americane, che avrebbe tenuto ad Harvard nell’autunno. Forse non immaginava con quanta ansia gli studenti lo aspettavano. Uno di loro, Jonathan Lethem, diventato poi scrittore, si trovò davanti un avviso con su scritto che erano annullate: «Vissi la sua morte come un affronto personale», ha raccontato. Le cronache di questa morte inattesa e insieme annunciata fanno cortocircuito con i testi a cui Calvino stava lavorando: una conferenza dal titolo eloquente, Cominciare e finire, e la lezione americana non scritta, Coerenza.
Il silenzio
In entrambe, il silenzio è un tema centrale. Forse, agli studenti di Harvard (e a noi), Calvino avrebbe detto che sì, certo, aveva parlato molto di scrittura, lui che molto aveva scritto, ma che l’ultima lezione non poteva che essere sul contrario di scrivere. Stare zitti ancora per un po’, pensare, evitare di aggiungere altre parole, «preferire di no». Fermi, e solidi, nel ronzio di fondo, in ascolto, convinti che un silenzio - il silenzio - non solo è più eloquente, perfino più utile di molti discorsi. È più «coerente», e più onesto. Quanto a Palomar, il suo romanzo ultimo, finisce così: «Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, pensa Palomar, e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’esser morto. In quel momento muore».
Lo scrittore che più progetta, combina, esplora le possibilità della scrittura, i generi e le forme, sembra infine ossessionato da ciò che nega le parole, le interrompe. Dal silenzio, dalla pagina che finalmente resta bianca, come la distesa di neve alla fine di Marcovaldo. Ma ci parla del «senso di una fine» anche la chiusa del Barone rampante, con quell’ultimo «grappolo insensato di parole idee sogni». «Per me invece è la fine che conta» dice un lettore in Se una notte d’inverno un viaggiatore, «ma la fine vera, ultima, nascosta nel buio, il punto d’arrivo a cui il libro vuole portarti». Un altro confessa che il suo sguardo scava tra le parole «per cercare di scorgere cosa si profila in lontananza, negli spazi che si estendono al di là della parola ’fine’».
Il non dire
È là che va cercato e riletto Calvino, in questo suo eterno corpo a corpo col non dire, con il non dicibile e non detto, con la parola assediata dal suo contrario. All’indomani della scomparsa, su La Stampa, Nico Orengo ricordava come Calvino - «per ragionare, per riflettere un attimo di più» - fosse capace di inventarsi una finta balbuzie. Forse proprio per questo aveva scelto lo scrivano di Melville come protagonista dell’ultima lezione. Bartleby, con il suo «avrei preferenza di no», diventa inespugnabile, invisibile, muto. Rinuncia a parlare, e soprattutto a scrivere. Una forma di sublime apatia, contro un mondo che chiede troppo, contro la vitalità dei tempi, «rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante»?
È un ripiegamento difensivo o una più alta forma di presenza - sospesa, senza arroganza, senza illusioni? Forse ad Harvard avrebbe spiegato che scrivere ha molto a che fare col non scrivere. Forse avrebbe spiegato che dire no, o non dire, è il gesto di coerenza più grande. Forse avrebbe difeso anche la scelta di farsi da parte, di rinunciare quasi a esserci: scomparire, farsi tentare dalla rinuncia. Forse avrebbe detto che essere sé stessi fino in fondo può somigliare anche a un gesto di mitezza estrema. A un silenzio.
La Stampa 13.9.15
Ripensare Calvino oltre il cliché
della leggerezza
A trent’anni dalla morte le Lezioni americane restano la sua opera meno compresa
di Marco Belpoliti


Calvino? Le Lezioni americane. La leggerezza. Il brand dello scrittore, se così si può dire, è saldamente legato a quel libro postumo, all’idea del «togliere peso»; del resto, viviamo da vari decenni dentro il mondo dell’immateriale. E se, invece di lasciarci all’improvviso in quel settembre del 1985 , Calvino avesse potuto terminare le sue conferenze a Harvard, scrivendo l’ultima, quella sulla
Consistency, dedicata a Bartleby lo scrivano di Melville, quale immagine avremmo di lui? E se la sua idea di autobiografia senza Io, di cui ci resta l’abbozzo de La strada di San Giovanni, fosse stata portata a termine, come lo considereremmo?
Insieme a Pasolini e Primo Levi, Calvino è il più noto scrittore italiano della seconda metà del XX secolo. Certamente è ancora uno dei più letti, se è vero che nelle nostre scuole circola il Sentiero dei nidi di ragno, unico libro sulla Resistenza che i giovani hanno tra le mani, e anche la trilogia dei Nostri antenati che sembra reggere nel tempo, mentre non c’è architetto che non citi Le città invisibili, il suo capolavoro letterario, anche se sovente a sproposito. Non si può fare la storia con i se e con i ma, tuttavia le Lezioni americane hanno prodotto nella vulgata corrente una distorsione nella percezione del lungo, ampio e complesso lavoro di Calvino. Le citazioni prevalenti vanno alla lezione sulla Leggerezza, o al massimo a quella sulla Rapidità, mentre quasi nessuno richiama Visibilità o Molteplicità, ben più complesse, e certamente meno cool.
La lezione mai scritta
Il titolo americano delle Lezioni era più concreto e diretto: Six memos for the next millennium. Più un post it che una Bibbia del futuro. Calvino era intenzionato a riscrivere e sistemare i capitoli dei suoi interventi americani pensando ai lettori italiani. Inoltre, senza la finale lezione sulla «coerenza» (consistenza o compattezza) è difficile dare un senso a quello che viene passato come il suo testamento. A leggere gli apparati che Mario Barenghi ha allestito nel Meridiano dei Saggi, ci si rende facilmente conto che gli autori che Calvino avrebbe citato nella lezione mancante erano tutti personaggi, da Bartleby a Wakefild, che dicevano di no, che scomparivano, sottraendosi ai legami sociali: lavoro, matrimonio, residenza. Decisamente le Lezioni americane non hanno giovato alla comprensione di Calvino, non certo per colpa sua, ma per demerito di molti lettori, anche colti, che l’hanno eletto a profeta della leggerezza, là dove lui era invece il cantore da almeno venti anni del suo contrario: la pesantezza.
La pesantezza
Si è confuso, e si continua a confondere la leggerezza della scrittura di Calvino, frutto di un lavoro incredibile, come testimoniano gli autografi, con l’idea di leggerezza in generale. A partire dal 1968, Calvino ha cercato di contrastare la pesantezza che era entrata nel nostro mondo in modo forse definitivo. La nuova pesantezza, che egli cercava di diradare con l’utopia pulviscolare di Fourier, lascito del suo Sessantotto, gli era apparsa alla fine dei Sessanta più densa e consistente di quella degli anni di ferro del comunismo staliniano; con grande realismo il fantasioso autore del Barone rampante aveva cercato di contrastare la visione cupa subentrata allora mobilitando i suoi personaggi di carta, come il signor Palomar, un Marcovaldo redivivo, con tanto di occhiali, biblioteca di letture e pensieri da scrittore.
Calvino non può essere compreso se non si considera che è stato, oltre che uno scrittore, un intellettuale, il quale pensava il proprio lavoro letterario tarandolo sull’attualità sociale e politica, mediando continuamente tra questa e il suo talento e il suo carattere. Non c’è un libro di Calvino uguale all’altro, per quanto si continui a considerarlo uno scrittore unitario, o al massimo con due movimenti: primo e secondo Calvino. Come Levi, Calvino è un poliedro con tante facce. Certo, la coerenza era uno dei suoi problemi principali, ma non è solo su questo metro che possiamo oggi valutarlo.
Un doppio metro
Cos’è vivo e cosa morto del suo lavoro? Vivissimo è il suo libro d’esordio, Il sentiero, che ha guadagnato con il passare degli anni; anche i libri della Trilogia hanno una loro vitalità, Il barone rampante più di tutti. Le città invisibili sono un libro indecifrabile, misterioso e inafferrabile, che attende ancora i suoi lettori ideali. Meno efficaci sono invece i libri «realisti» come La speculazione edilizia o La giornata di uno scrutatore, per quanto sia uno dei suoi libri che amo di più. La vena favolistica continua a mantenere vive Le cosmicomiche, sebbene meno riuscite di altre parti della sua opera, tuttavia anche questi racconti contengono temi – la biologia ad esempio – che probabilmente torneranno utili in prossimo futuro.
Calvino non è stato solo un letterato; la sua valutazione non va compiuta tenendo conto del valore estetico dei suoi testi, o almeno non solo. Vale per lui, come per Pasolini e Levi, la considerazione su quanto la letteratura illumini aspetti decisivi della nostra esistenza, dalla psiche individuale ai grandi problemi sociali. La sua durata si misura su questo doppio metro.
Corriere 13.9.15
Troppe paure sulla crisi cinese ma urgono riforme per il futuro
Il Paese rimane il più grande soggetto commerciale del mondo
di Ian Bremmer


A luglio, la China Digital Times, un osservatore basato negli Stati Uniti che analizza le notizie provenienti dalla Cina, ha pubblicato un documento trafugato, il quale, secondo le indiscrezioni, informava i giornalisti cinesi, impegnati a seguire i mercati finanziari del Paese, di essere sotto sorveglianza da parte degli organi di governo. «Vi sconsigliamo dal condurre analisi approfondite, dall’avanzare congetture o valutazioni riguardo alle tendenze di mercato», avvertiva il memorandum. «Non esagerate né diffondete sensazioni di panico o di sconforto. Non utilizzate termini carichi di valenze emotive, come “calo”, “impennata” o “crollo”». Oggi sappiamo che il governo cinese faceva terribilmente sul serio. Negli ultimi giorni, difatti, i mezzi di comunicazione cinesi, controllati dallo Stato, hanno pubblicato le «confessioni» rese dai giornalisti che si sono accollati la responsabilità dei recenti scossoni avvertiti dal principale mercato azionario di riferimento, quello di Shanghai.
Ma non è la volatilità del mercato in Cina (né le possibili ripercussioni sulla seconda economia mondiale) a creare timori, quanto piuttosto la reazione ufficiale di Pechino, che davanti a questi problemi non ha saputo far altro che mettere a tacere ogni tentativo di discussione su come reagire alla crisi, preferendo cercare capri espiatori.
I timori per la tenuta dell’economia cinese sono indubbiamente esagerati. Da un lato, è naturale temere l’impatto globale di un rallentamento superiore alle attese in quella parte del mondo. La Cina, oggi, è il più grande soggetto commerciale al mondo, da sola è in grado di determinare i prezzi delle materie prime. I mercati azionari europei ed americani salgono o scendono a seconda dei suoi ultimi dati manufatturieri. Tuttavia, il gigante emergente non è affatto avviato verso un «atterraggio duro» nel prossimo futuro. La capacità dello Stato di stimolare i prestiti bancari e di investire grosse cifre in importanti progetti infrastrutturali suggerisce che la Cina riuscirà ad avvicinarsi al suo obiettivo di crescita per quest’anno, fissato a «circa il 7 per cento».
È vero che la borsa di Shanghai ha perso il 40 per cento nelle ultime settimane, ma questo segue un rialzo del 150 per cento nell’arco dell’anno precedente. Perché mai dobbiamo prendere il calo brusco come rivelatore della reale forza dell’economia cinese, anziché il rialzo precedente, tra l’altro molto più cospicuo? In realtà siamo di fronte a un mercato immaturo, che rappresenta un barometro molto più affidabile per misurare la volontà di controllo del governo, che non la reale economia cinese. In Cina, solo una persona su 30 detiene azioni, una percentuale molto inferiore rispetto ai mercati evoluti.
Né è il caso di allarmarsi eccessivamente per la decisione della Cina di svalutare la sua moneta. Questa mossa non è stata incisiva abbastanza da alterare significativamente la bilancia commerciale cinese con i suoi maggiori partner, e il Fondo monetario internazionale ha elogiato questa strategia, perché riporta il valore della moneta in linea con le forze di mercato. In breve, l’economia cinese è più stabile di quanto non siamo in grado di apprezzare.
Ma prima di decidere se sia il caso di ignorare ogni timore per la stabilità della Cina, speriamo che questa estate turbolenta convincerà i governi e le imprese, che fanno troppo affidamento sull’espansione cinese, a prestare maggiore attenzione ai pericoli sul lungo termine, che sicuramente dovranno affrontare se non adotteranno le dovute cautele. È probabile che la Cina resterà stabile negli anni a venire, ma la tendenza dei suoi governanti a fare marcia indietro sulle riforme necessarie — intervenendo, per esempio, a puntellare i mercati che sarebbe meglio lasciare agire indisturbati — appare preoccupante. Ancor più inquietante è l’abitudine dei leader cinesi a ricorrere alla censura e alla repressione.
Ma esiste anche un’altra preoccupazione. La Cina non resterà forte e stabile per sempre, in assenza di riforme economiche. In particolare, il governo cinese dovrà affrancare l’economia dall’eccessiva dipendenza dalle esportazioni, invogliando il pubblico cinese ad acquistare beni di consumo prodotti in Cina. Questo è essenziale per favorire la creazione di un’ampia classe media e assicurare una crescita sostenibile a lungo termine. Pertanto il successo dipenderà da un enorme trasferimento di ricchezza ai consumatori cinesi.
Per assicurare che coloro che saranno chiamati a mettere a disposizione gran parte di questa ricchezza non ostacolino le riforme, il presidente Xi Jinping ha lanciato un movimento anticorruzione che ha già espulso migliaia di funzionari dal governo, e ne ha spediti in prigione altrettanti. Per ora, Xi resta saldamente al comando, ma un numero crescente di potenziali nemici all’interno della leadership potrebbe essere in attesa del momento opportuno per passare all’attacco e respingere le riforme. Questo è un rischio a lungo termine di cui si dovrà tener conto.
In breve, i timori per un dissesto a breve termine sono esagerati. Ma se riusciranno a convincere i governi e le imprese, che dipendono dalla crescita cinese, a prepararsi ad affrontare una maggior volatilità — e a premunirsi contro l’eventualità che la Cina non riesca a sostenere una crescita stabile sul lungo periodo — allora questi timori si saranno rivelati estremamente utili.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

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