Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Apologia della controra

Apologia della controra

di Fiorenza Licitra - 28/09/2015

Fonte: Il Ribelle


È nel mese di settembre che molte persone risentono di una melanconia particolare: quando sono costrette a ritornare al lavoro, quando si lasciano il mare dietro le spalle. Soprattutto, quando le giornate si accorciano inesorabili, ecco dispiegarsi in loro la memoria della controra: accecante lasso temporale, che si vorrebbe circoscritto tra l’una e le quattro del pomeriggio, in cui il Meridione tutto, sprofondato in una pozza di arsura, pecca di accidia e riposa senza pentimento alcuno. 

È ambientata nel Sud del sud dei diavoli, l’inerzia più satolla, quella dei corpi che, sudati e già cupidi, cercano riparo tra le pieghe del lino eternamente bianco – con foglie di limone infilate dentro il cuscino – o, ancora, dietro le pagine di un quotidiano, la cui lettura facilmente verrà interrotta dal sogno del corpo che accanto  giace. 

Questa controra, legata a doppia mandata con la luce, è un rito che si svolge allo scuro, nel luogo dell’immaginario per eccellenza, quello delle gelosie socchiuse, dietro le quali, quasi per meglio conformarsi alla penombra, il tono della voce inclina in bisbiglio e i gesti si fanno lenti, come catapultati nel pieno di un’attesa, in cui tempo e spazio sono sospesi: il riverbero d’oro delle strade pare non esistere più e, nella tregua della camera semibuia, anche gli affollati clangori della vita vengono esiliati. Così, nel profondo Sud, è una stanza d’estate: perfettamente sospesa.  

Alla controra, poi, sono legate precise norme riguardanti l’intera comunità familiare: gli uomini, già avvezzi all’inoperosità domestica, acconsentono che pure le donne – madri, zie, nonne – interrompano il governo della casa per dedicarsi a questioni private come la carnalità nel letto nuziale o, semplicemente, al riposo della membra; prima, però, quelle stesse donne intimeranno il silenzio assoluto ai bambini, che, volenti o nolenti, dovranno addormentarsi in men che non si dica. Un dettato, quest’ultimo, quasi impossibile da soddisfare a comando, ma che, ogni pomeriggio, complice il torpore diffuso, sarà miracolosamente esaudito pure dai bimbi più recalcitranti. Con larga soddisfazione per le questioni private. 

Quelle ore saranno anche il tempo delle chiacchiere e delle confidenze su ciò che è avvenuto in precedenza o durante la giornata. Più difficilmente, invece, ci si intratterrà sul domani: l’avvenire, nel Sud del sud dei diavoli, non è granché contemplato, mentre in Sicilia è talmente rimosso che nel vernacolo isolano manca il verbo al futuro, e non solo per riguardo alla scaramanzia – in auge in qualsiasi civiltà si definisca tale – ma anche per un mitico retaggio storico, che si coniuga indelebilmente al fato personale: “oggi ci siemu, rumani nun si sapi”. 

Un fatalismo di tal fatta, resistentissimo tanto alla modernità quanto ai suoi dettami improntati sulla linearità temporale, è uno dei cardini originari della controra: essendo assegnato a ciascun uomo un destino inintelligibile e circolare, l’unico modo per sopportarlo è abbandonarvisi quanto più possibile. Ecco, questo abbandono – quando nelle sue forme peggiori non diventa ignavia – si manifesta perfettamente nel modo di essere e di pensare del Sud, attraverso una concezione del tempo smisuratamente lenta, quasi eterna. Del domani non v’è certezza, non c’è dubbio, ma laggiù a essere infinito è il pomeriggio inondato di luce su luce; non resta allora che trovare scampo in un ricettacolo d’ombra, adattando la lentezza del fare all’eterno meriggio. 

Non bisogna credere, però, che la controra debutti al momento dell’ozio postprandiale – per i profani, la cosiddetta “pennichella” – semmai è vero il contrario: essa precisamente ha inizio da quando ci si siede a tavola; è lì che la controra viene magnificamente apparecchiata. Malgrado i quaranta gradi o, forse bisognerebbe dire proprio grazie a un’eroica insubordinazione a questi, si mangia come se si trattasse dell’ultimo pasto di un condannato a morte: parmigiana, fumante brodo di gallina, pasta alla norma – la melanzana fritta è un diktat a cui è viltà ribellarsi – caponata e pesce, immancabile in tutte le sue varianti; ovviamente, durante il pasto, scorrerà abbondante vino a innaffiare sete e smarrimento. 

La metafora del condannato a morte non è né casuale né impropria: almeno a tavola si deve perdonare e  dimenticare l’assurdo affanno di esistere, grazie alla generosa sapienza che permette di impastare i frutti della terra con l’arte della consolazione, altrettanto terrena. 

Da appagare dev’essere non solo la gola, ma anche e soprattutto lo spirito che, finalmente mansueto, può darsi all’antica accidia medievale – di cui furono seguaci i monaci – sorta in seno all’abbondanza e alla pienezza d’essere. Mai il contrario. È proprio a partire da una sorta di ebbra sazietà che la controra trae la sua origine: una volta soddisfatto il necessario, ci si può concedere ai fasti del superfluo, dell’eccesso e dell’immaginario, di cui il Sud, a onor di cronaca, fin troppo spesso fa incetta. È tutto qui, lo sfrenato lusso della controra: un’accurata perdita di tempo quotidiana, quasi si trattasse di un esercizio zen, che solo apparentemente risulta sciocco e inutile. 

È solamente nell’abbondanza che ci si può dedicare all’inusitato dei tempi attuali: l’inazione, i cui migliori rappresentanti restano la lettura, che nella controra è spesso e volentieri arrestata per meglio rifletterla; le speculazioni, che forse non portano ad alcuna conclusione efficiente, ma conservano intatta la grazia di aprire un fitto dialogo con se stessi e, ancora, il sogno delle cose impossibili, quelle ormai troppo lontane e quelle che probabilmente smarriremo perché così dev’essere: la vita è un susseguirsi di separazioni e il “tempo perso”, a saperlo comunque rendere  proprio, può fare da propedeutica. 

Non può essere certo un caso, il paragone tra un Nord, strenuamente operoso e pure ricco ma stressato, e un Sud, perennemente arretrato eppure più incline allo svago, incurante com’è degli obblighi del mercato. Otium versus negotium, laddove il primo, affinché vi siano le condizioni per realizzarlo, impone come fine ultimo il compimento del necessario, mentre il secondo – che desidera bulicamente l’illimitato materico – al di là di un mero punto di partenza, del necessario non sa che farsene. 

Per rimarcare le benedette differenze tra un modus vivendi e l’altro, l’esempio più incisivo resta quello degli orari lavorativi: al Nord sono oramai continuativi e anche gli stessi giorni, un tempo considerati intoccabili – la domenica, le date dei Santi Patroni e le restanti feste comandate – sono ora i più produttivi dell’intero anno; in parecchie zone del Sud, al contrario, resistono ancora le festività tutte e anche nelle giornate qualsiasi gli orari delle attività commerciali sono alquanto flessibili, chiusura all’una e riapertura dopo le cinque, mezz’ora più mezz’ora meno. A partire da giugno, poi, in certe spensierate province non è affatto raro trovare dei negozi che al pomeriggio aprono esclusivamente dietro richiesta, in barba alla crisi economica. 

I pro e i contro, molteplici e svariati, sono certamente presenti in ambo i versanti, ma ciò di cui qui si va parlando è la considerazione che si ha del proprio tempo privato, inaccessibile all’utilizzo altrui, e del trattamento che gli si deve riservare: lo si può relegare entro gli stretti e angusti tempi del sollazzo, cioè durante le ferie che questo Stato concede, oppure custodirlo, giorno dopo giorno, socchiudendo quelle vecchie gelosie per essere tra i più soavi dei perditempo: coloro che, distesi sul divano, non fanno altro che fissare il soffitto senza che un pensiero neanche lontanamente li sfiori. Ecco, quei modernissimi Oblomov raggiungeranno ciò che i trascendentali e i sapienti hanno affannosamente e lungamente ricercato: il vuoto. 

È nei tempi vuoti, e a volte subito dopo obliati, la chiave di lettura della controra che, lungi da ogni forma definita e definitiva, si rifà a una certa indeterminatezza di essere e di sentire: chi ad essa si abbandona, pur essendo qui, è perfettamente altrove. Una condizione, questa incauta interruzione del reale, per sbilanciarsi sull’indicibile, operando però l’indimostrabile. 

Provate voi a fare altrettanto.