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Konrad Henlein e i Sudeti nel 1938: riesaminare serenamente la questione

di Francesco Lamendola - 12/10/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Amarissimo destino, quello di Konrad Henlein e anche quello di tutto il suo popolo: il popolo dei Sudeti, cioè di quegli abitanti di lingua e cultura tedesca, insediati da secoli nelle regioni montuose della Boemia, che fino al 1918 fecero parte della Cisleithania, ossia la parte austriaca della Duplice monarchia austro-ungarica, e che, con la nascita della Cecoslovacchia, divennero stranieri in patria, membri di una grossa minoranza temuta e malvista, che il governo di Praga considerava una specie di enclave straniera, e potenzialmente nemica, entro il proprio territorio.

Poiché la loro richiesta di autodeterminazione, e cioè, in ultima analisi, di ritorno alla Germania (all’Austria era stato a suo tempo proibito, da una clausola del trattato di pace di Saint Germain en Laye, di fare la stessa cosa), non venne mai presa in considerazione dal governo cecoslovacco, e poiché la soddisfazione di quelle richieste coincise con la conferenza di Monaco, su cui la storiografia democratica ha steso un velo di obbrobrio, nonché con il preambolo per la distruzione della Cecoslovacchia, i Sudeti sono stati visti come un gruppo etnico che aveva spianato la strada a Hitler e contribuito alla scoppio della Seconda guerra mondiale. Le loro aspirazioni nazionali non sono state valutate con imparzialità; si è negata loro qualunque attenuante, qualsiasi indulgenza: e si è steso un pesantissimo silenzio sul fatto che nel 1945, al termine della guerra, essi vennero scacciati dal loro Paese, subendo una radicale “pulizia etnica”, ancor peggiore di quella che subirono gli Italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, anche perché moltiplicata per dieci: se i Giuliani in fuga erano stati circa 300.000, i Sudeti costretti a fuggire furono 3.000.000.

Quanto a Konrad Henlein, il loro capo carismatico, un avvocato nato a Mattersdorf nel 1898, da padre tedesco e madre slava, e morto suicida, presso Pilsen, nel 1945, dopo essere stato fatto prigioniero dalle Forze armate statunitensi, per non dover rispondere delle accuse che gli avrebbero rivolto come Gauleiter dei Sudeti (chissà se lo avrebbero spedito a Norimberga pure lui), nel suo tragico destino gli storici non hanno visto  nulla che li muovesse dalla loro granitica certezza che egli se l’era pienamente meritato e che il “crimine” di aver consegnato i Sudeti a Hitler (con questa parola si indicano sia gli abitanti di etnia tedesca, sia la regione stessa) lo esclude dalla loro pietas, che pure non si nega neppure ai cosacchi, ucraini e russi i quali, dopo aver combattuto contro Stalin, gli furono riconsegnati dagli eserciti alleati nel 1945, affinché li sterminasse.

Un buon esempio di come sia ancora assai difficile fare serenamente la storia di quelle vicende è offerto, fra gli altri, dal saggio dell’americano Keith Eubanck, scritto secondo i canoni classici della vulgata politicamente corretta, intitolato semplicemente «Monaco» (titolo originale: «Munich», University of Oklahoma Press, 1963; traduzione dall’inglese di Amos Nannini, Milano, Federico Motta Editore, 1965, pp.6-7, 9-10):

 

«… Hitler fu costretto ad agire cautamente in politica estera finché il riarmo non poté essere portato a termine.  Intanto la sua politica aggressiva nei confronti dei cechi dovette essere promossa dal partito dei tedeschi sudeti, una organizzazione nazista capeggiata da Konrad Henlein. Coi suoi occhiali non cerchiati, Henlein sembrava un uomo sincero che perseguisse la giustizia per il suo popolo. Veterano dell’esercito austriaco, combatté sul fronte italiano finché fu preso prigioniero nel 1918. Dopo la guerra divenne impiegato di banca e successivamente insegnante di ginnastica, viaggiando per la regione dei Sudeti come capo della associazione ginnica tedesca. Accettò il comando dei nazisti sudetici. Su invito del partito del Reich, nel 1933, Heinlein si trasferì ad Asch, circondato da tre parti dalla Germania  e a due miglia dalla frontiera.

Al 1935m, Hitler era pronto a estendere l’azione del suo partito poiché ricevette un sussidio da Berlino. Ricorrendo a minacce, violenze, boicottaggi, percosse, il partito di Henlein si fece portavoce dei tedeschi sudetici. Ben presto si pensò che le smanie dei nazisti esprimessero i desideri di tre milioni e mezzo di tedeschi sudetici. Vi erano altri partiti politici fra i sudeti che non desideravano diventare parte del Terzo reich, ma le loro voci non si facevano sentire o rimanevano ignorate.

Il sudeto medio voleva meno controllo da parte di Praga e un certo gradi di autonomia. Voleva polizia e funzionari tedeschi, ma non necessariamente nazisti. Voleva un mercato adatto per i prodotti sudeti, e forse immaginava che la Germania lo avrebbe procurato. Contrariamente ai cugini tedeschi, aveva libertà di criticare il governo e di leggere i giornali che si lamentavano dei funzionari cechi e del presidente Beneš. […]

Per porre un freno alle crescenti richieste da parte dei sudeti, il 18 febbraio 1937, il governo cecoslovacco offrì delle concessioni [a quello di Berlino]. Le ordinazioni governative di manufatti sarebbero state stabilite in conformità al grado di necessità delle singole aree. Nelle zone tedesche i lavoratori del posto sarebbero stati assunti in via preferenziale. Sarebbero stati concessi sussidi a seconda della necessità della zona. Il governo promise modifiche delle norme linguistiche. Il 28 febbraio Henlein replicò richiedendo l’autonomia e la rettifica degli errori commessi nel 1919. La situazione era ormai chiara: un gruppo legato alla Germania nazista esigeva un provvedimento che metteva a repentaglio la sicurezza dello stato cecoslovacco. Le richieste di Henlein furono respinte.

Il 16 settembre, il primo ministro cecoslovacco Milan Hodzha si incontrò privatamente con Henlein nella propria residenza ufficiale. Henlein chiese l’autodeterminazione, definendola come autonomia, accusò il governo di sostenere la propria opposizione e di non fare che chiacchiere per la soluzione del problema ceco-sudetico. Hodzha si lamentò che la questione dei sudeti turbasse le relazioni fra Berlino e Praga. Un diretto intervento di Berlino non sarebbe stato permesso e  Henlein ribatté che non sapeva cosa rispondere, perché questi non erano affari suoi. Il primo ministro voleva andare pienamente d’accordo coi sudeti. Sebbene favorisse un miglioramento nei rapporti con il partito di Henlein, chiese a quest’ultimo di evitare di far apparire il partito dei sudeti come un affiliato dell’hitlerismo.

Henelein non fece promesse.

Le affermazioni di Henlein non avevano alcun significato. Il suo scopo era la distruzione dello stato cecoslovacco attraverso le richieste di autonomia. Egli, col suo vittimismo, voleva accaparrarsi le simpatie delle nazioni piene di rimorsi per il trattato di Versailles. Fino a nuovo ordine, si impegnò con Berlino a celare la natura nazionalsocialista del suo partito e ad apparire vero democratico. Le sue mire, cioè l’annessione al Reich delle zone dei sudeti, rimasero immutate. Nell’Europa centrale, Hitler aveva adesso una quinta colonna pronta ad abbattere al suo cenno l’indipendenza cecoslovacca.»

 

Ebbene, questa pagina di prosa è un buon esempio di come non si dovrebbe fare storia; di come uno storico non dovrebbe ragionare ed esprimersi; di come non si capisca nulla del passato, se non ci si pone di fronte ad esso con un minimo d’indipendenza concettuale e di spirito imparziale. Tutto trasuda faziosità e distorsione dei fatti; non c’è un solo rigo che non tradisca un atteggiamento accusatorio e giudicante nel medesimo tempo. E la cosa più spiacevole è che esso si inscrive nella vulgata di coloro che hanno vinto la guerra e che, pertanto, non si danno alcuna pena per essere, o almeno cercare di essere, oggettivi e spassionati: per cui alla faziosità del partigiano si somma la viltà del vincitore, che sa di non poter essere smentito o contraddetto, perché egli rappresenta la versione ufficiale e definitiva della storiografia, quella “buona”; l’altra, invece, quella “cattiva”, è condannata al silenzio e all’infamia e non deve nemmeno osare di alzare la testa.

Partiamo dall’inizio. Henlein sembrava un uomo sincero che perseguisse la giustizia per il suo popolo; sembrava, si badi, ma non lo era; per giunta portava gli occhiali non cerchiati, come le persone comuni e non come i capi nazisti (ma dove ha studiato la storia, il signor Keith Eubanck: sui telefilm di Hollywood o sui fumetti di Sturmptruppen?), il che, evidentemente, è, - viste le cose a posteriori - un inequivocabile segno di doppiezza e malafede, perché Henlein, con quegli occhiali non cerchiati, mirava a farsi passare per una persona onesta e leale, mentre nel suo cuore tenebroso meditava già il nefando tradimento della sua patria (patria dei Sudeti, tedeschi da innumerevoli generazioni: la Cecoslovacchia).

Che Henlein, inizialmente, quando mise in piedi il movimento e poi il partito tedesco dei Sudeti, non fosse ancora nazista, anzi, non lo fosse affatto, questa eventualità non sembra sfiorare lo storico americano; egli vede solo ciò che è disposto a vedere e ad accettare. Eppure sappiamo che Henlein aderì al partito nazista solo nell’ottobre del 1938, dopo l’accordo di Monaco e l’annessione dei Sudeti alla Germania; e che egli si era adattato a cooperare con esso solo a partire dal novembre del 1937, cioè dopo più di un lustro dalla nascita del Fronte Patriottico tedesco dei Sudeti (Sudetendeutschen Heimatfront), divenuto poi Partito tedesco dei Sudeti (Sudetendeuschen Partei). Alla storico non  è lecito fare il processo alle intenzioni; e, se fa delle ipotesi o delle congetture, deve dirlo: altrimenti, bisogna che si attenga ai fatti. E i fatti sono questi: che Henlein non era nazista, ma lo divenne solo dopo l’annessione; che, per anni, guidò i suoi connazionali dei Sudeti in maniera autonoma da Berlino; che accettò un coordinamento con il Partito nazionalsocialista solo quando si convinse, a torto o a ragione, che non c’era da sperare in una vera autonomia da parte del governo di Praga e che il Terzo Reich era nelle condizioni di potere e volere assumersi il patrocinio delle aspirazioni nazionali dei Sudeti. Infine, che la montatura dei suoi occhiali non ha niente a che fare con le sue convinzioni politiche, con la sua sincerità o con la sua strategia, visto che la realtà della politica non è la stessa cosa di un film di Charlie Chaplin.

Poi Eubanck si sofferma a spiegare che molti Sudeti non erano nazisti, cosa certamente vera, e che la maggioranza di loro si sarebbe accontentata di una seria autonomia, cosa altrettanto vera, o, per dir meglio, probabile (a rigore, infatti, non abbiamo elementi certi per sostenere l’una o l’altra tesi): non si chiede affatto, però, quanta parte di responsabilità abbia avuto il governo cecoslovacco nello spingere codesti Sudeti, pacifici e potenzialmente leali cittadini, nelle braccia di Hitler e del nazismo, perché fra i suoi compiti di studioso della storia non rientra quello di verificare eventuali torti della parte lesa, cioè di quei governi che finirono vittime dell’espansionismo nazista. Egli, pertanto, dà per scontato che le colpe furono sempre e solo dei “cattivi”, ossia dei nazisti e della Germania: come avrebbe potuto essere altrimenti? E aggiunge immediatamente, con una petulanza poco appropriata in sede storica, che quegli stessi Sudeti che si lamentavano del governo di Praga, potevano però, intanto, leggere i giornali in cui le loro critiche venivano rappresentate, cosa che mai avrebbe potuto accadere se fossero già stati cittadini del Reich germanico.

Questo è un tipico caso di incongruenza logica e metodologica: che c’entra l’osservazione sulla libertà di stampa, quando si sta parlando del diritto all’autodecisione dei popoli, già promesso dai “14 punti” del presidente Wilson fin dal 1917, per cui non c’è il minimo dubbio che i Sudeti, benché liberi di leggere il giornale, non erano però liberi di adoperare la loro lingua, di amministrare le loro regioni, di decidere il proprio destino? Non potendo negare un fatto, e cioè che tre milioni e mezzo (ripetiamo: tre milioni e mezzo) di cittadini cecoslovacchi erano, in realtà tedeschi, e che erano discriminati nella loro stessa patria, si rinfaccia loro, retrospettivamente,  la grettezza e l’ottusità di non aver saputo apprezzare i vantaggi della democrazia: perché nella democratica Cecoslovacchia esisteva una Costituzione che rendeva legittimo il dissenso, anche se la loro libertà terminava lì e, per tutto ciò che non riguardava le chiacchiere e le nobili dichiarazioni di principio, ma i fatti concreti, quei tre milioni e mezzo di persone dovevano rimettersi al buon volere del governo cecoslovacco. Del governo, cioè, di uno Stato del tutto artificiale, formato da una minoranza di Cechi e da massicce popolazioni di Slovacchi, Tedeschi, Ungheresi, Ucraini della Rutenia Subcarpatica, Polacchi del distretto di Teschen, che era stato imposto dai vincitori della Prima guerra mondiale, i quali presero le loro decisioni ignorando qualunque riserva o protesta da parte dei vinti, e senza indire alcun esplicito referendum circa il destino complessivo dell’Austria-Ungheria. Di un governo che, nel 1945, a guerra finita, non aspettava altro che potersi vendicare…