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Un omaggio d’amore alla città natale

di Francesco Lamendola - 12/10/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 

 

La città in cui si è nati conserva per sempre un fascino misterioso, delicatissimo, simile quello per la propria madre: la città, infatti, in un certo senso ci è madre, perché ci mette al mondo, ci accudisce, ci fornisce i primi strumenti per orientarci nella vita, e imprime nel nostro animo ancora vergine delle impressioni indelebili, che ci accompagneranno tutta la vita.

Questo è vero, almeno, per chi ha avuto la fortuna di nascere e crescere quando le città erano ancora a misura d’uomo e avevano una loro ben precisa fisionomia, possedevano ancora un’anima, unica e inconfondibile, perciò sommamente preziosa. Quando le città erano ancora fatte di case e di persone, non quasi solo di banche e di automobili; quando i bambini giravano da soli e gli anziani non avevano il terrore di essere scippati o derubati. Quando dimenticare il portafogli all’osteria non era un dramma, perché chi lo trovava, lo rendeva quanto prima al proprietario. E quando i cortili, gli orti, i pergolati, i balconi, erano fatti per accogliere persone, amici, famiglie: per stendere i panni e allevare i conigli, ma anche per godesi le sere d’estate, per giocare, chiacchierare, fumare e bere qualche buon bicchiere in compagnia.

La domenica, poi, nel silenzio del mattino, le campane suonavano a festa e i piccioni volavano in schiere fitte e rumorose, essi pure festosi; la gente indossava il vestito buono e andava a messa; al pomeriggio, le bocce o la partita a carte. I negozi restavano chiusi e i supermercati anche, quei pochi che c’erano. Tutt’al più, si andava al cinema; oppure si guardava la partita al bar, o, magari, un spettacolo di quiz, o un film di fantascienza: con la bocca aperta e gli occhi spalancati. Ma alla processione del santo patrono, non mancava mai nessuno: era un fatto di fede, certamente, ma anche di civiltà e di valori sociali intimamente condivisi.

La città era viva, di una vita semplice ma serena, accogliente, composta. La gente si conosceva e si rispettava; la povertà non faceva scandalo, purché si accompagnasse al decoro e alla pulizia delle persone e delle cose. E in genere era così. La città stessa, infatti, era anche molto pulita: infinitamente più pulita e decorosa della città odierna. Era raro vedere anche solo una cartaccia per terra, figuriamoci un sacchetto d’immondizie abbandonato, o una intera collinetta di sacchetti. Niente siringhe, perché non c’era la droga; e niente sacchetti di plastica, perché si andava a far la spesa con la borsa di vimini. E poi c’erano pochi rifiuti perché non si buttava via niente, si riutilizzava quasi tutto.

La città era assai meno rumorosa di quanto lo sia oggi; e non solo perché il traffico era meno convulso e congestionato; non solo perché era normale, per chi non doveva fare troppa strada, spostarsi a piedi o in bicicletta, oppure servirsi dell’autobus. Ai bambini si insegnava a parlare senza alzare troppo la voce: la quiete era un valore, e, specialmente nel primo pomeriggio, un po’ tutti evitavano di produrre rumori inutili. Nei bar, al massimo, si sentiva la musica dei juke-box; non il clangore metallico e continuo delle macchinette mangiasoldi e dei giochi elettronici. Il rumore veniva dalle chiacchiere dei clienti o dalle grida dei giocatori di carte. E per la strada, nei borghi, di primo mattino, si sentiva risuonare il canto del gallo.

Erano, peraltro, quelli della città di allora, rumori assai più umani: meno martelli pneumatici e più martelli da falegname; perfino la costruzione delle case avveniva in maniera meno sguaiatamente rumorosa. Non c’era bisogno di regolamenti condominali, o di giudici di pace, per capire che i lavori non indispensabili non si facevano alle ore dei pasti, né durante i giorni festivi; gli artigiani possedevano professionalità e coscienza, non lavoravano a qualsiasi ora e in qualsiasi giorno, tanto per fare cassa. E non assumevano operai maldestri e improvvisati, di chissà quale provenienza, al solo scopo di pagarli meno. Ci tenevano a che il cliente rimanesse soddisfatto: non a sbrigare il lavoro nel minor tempo possibile, per poi passare subito ad un altro.

Una pagina viva, e intensamente poetica, è stata dedicata alla sua città natale, Udine, dallo scrittore Alcide Paoline - noto per romanzi come «Paura di Anna», 1976; «La bellezza», 1979; «L’eterna finzione» (1983), «La donna del nemico», 198, e del quale ci eravamo già occupati (cfr. «Una pagina al giorno: così muore un paese, di Alcide Paolini», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 08/04/2008), che qui riportiamo (A. Paolini, «Una città difficile a dire», in: «Enciclopedia monografica del Friuli- Venezia Giulia», Istituto per l’Enciclopedia del Friuli-Venzia Giulia, Udine, 1971, vol. 1, «Il Paese», parte seconda, pp. 822-824):

 

«Arrivare a Udine dal viale Venezia è forse il miglior modo di fare conoscenza con la città, poiché ci dà subito l’occasione di penetrare la sua naturale intimità di ieri e di oggi. […]

[Da piazzale XXVI Luglio e dopo aver percorso via Poscolle, si arriva in via Zanon ove sorgeva, fino a qualche anno fa, un platano colossale, i cui rami maestosi si aprivano sopra le bancarelle del mercato]. Qui la roggia, uno dei pochi tratti rimasti scoperti, continua le sue chiacchiere4 sommesse anche la notte, diciamo già dopo le nove di sera, quando la città, se si esclude qualche mese d0’estate, è ormai semideserta, e la si può godere, forse meglio che in qualsiasi altra ora del giorno, nelle sue pieghe più riposte e segrete. [Sulle rogge di Udine, cfr. anche i nostri articoli: «Quando il dio cemento e la dea automobile imposero la copertura delle rogge urbane», e «La copertura delle rogge, primo atto della distruzione dei vecchi centri urbani», pubblicati sul sito di Arianna Editrice rispettivamente in data 05/03/2010 e 27/06/2012).

A porgere bene l’orecchio, ad ascoltare pazientemente, dietro il fraseggio basso di quest’acqua chiara e senza sosta, si può riconoscere l’eco della giornata di mercato, cariche di voci e di richiami, di allegri ghirigori, di contrattazioni, di richieste e di offerte fatte ancora nella sussurrata lingua friulana, ij un andirivieni continuo soprattutto di donne di casa, di madri, di nonne, rapide ma senza fretta, arrivate dritte dritte dall’altra piazza vicina, piazza Matteotti, o più comunemente “delle verdure”, attraverso un portico e un cortile dall’aria privata e domestica. È da qui che partono strade contorte come vecchi e nodosi rami d’albero, vicoli nascosti, piazze raccolte, così intime tra loro, percorse da un’unica calma e silenziosa bellezza, che viene naturale infilarle una dopo l’altra come perle di una autentica collana, a passi lenti, meditandovi sopra, raccogliendovi il senso di una civiltà faticosamente inseguita, cin modestia, e sacrificio, e caparbietà, e misura, e aristocraticità.

Un tessuto di case e palazzi, di chiese e archi e sottoportici senza gradi bellezze edonistiche, senza orpelli e civetterie, senza impennate e senza sfarzi, all’esterno – anche se all’interno, a volte, vi scopri poi veri e propri tesori, capolavori -; un accostarsi progressivo, in un’atmosfera vagamente turbativa, appena inebriante in primavera o dolcemente intima e tenera d’autunno, o tersa e cristallina d’inverno, coi selciati sonori di vento o bagnati e lucidi, i sottoportici bui: un progressivo lento elegante naturale avvicinarsi al gioiello di famiglia, dalla grazia leggiadra, varia e completa: piazza Libertà.

La loggia del Lionello, il porticato di san Giovanni, la fontana, la torre dell’orologio, i mori, le colonne, le due statue amiche, Florean e Venturin, le vecchie casette tutte balconcini e finestre, i tetti e gli abbaini, la campana dell’Arengario: tutto sembra fondersi e contribuire a rendere grazioso e semplice, ricco e nel medesimo tempo umano e leggero questo luogo d’incontro, dove tutto il gusto, la misura, la razionalità e l’eleganza del Rinascimento si concedono il lusso di lasciarvi stupiti.

Anche qui, dove la sera si riversa il passeggio cittadino, e i giovani di tutte le generazioni, seduti ai due lati della via che l’attraversa, sulle pietre lucide del terrapieno e dall’altra parte sulla levigatissima banchina esterna alla loggia, compiono la loro “educazione sentimentale”, anche qui la notte è carica di echi, ingranditi dal silenzio che vi arriva da tutte le strade e vi si raccoglie.

Da qui inoltre, per chi sale al Castello (che la leggenda tramandata con caparbia serietà e contro ogni logica, vuole fatto innalzare da Attila per ammirare l’incendio di Aquileia conquistata), attraverso il bel porticato, l’arco Cappello,l’antica chiesa di Santa Maria, la Casa della Confraternita, quella della Contadinanza, il grande piazzale verde, la mole poderosa del castello con in cima lo svettante arcangelo a segnare infaticabilmente il vento ecco la città proprio sotto, e l’arco dei colli, e le montagne ad anfiteatro degradanti verso est; e di contro la vasta e calma pianura finoa l mare, che nei giorni chiari, si dice, luccica all’orizzonte.

I tetti qui sotto, ovunque si guardi, sono come un mare agitato da mille correnti, le strade diventano inestricabili labirinti, complicati arabeschi che solo la lunga riflessione e l’appoggio di edifici e campanili permettono di penetrare, fino a indovinare il senso più vero della città e la sua storia, che proprio da questo colle ha preso a nascere e ad allargarsi, e contro il quale ancora oggi si stringe.  […] Se alzate gli occhi, adesso, scoprite che il cielo, questo cielo di Udine, è il più trasparente che abbiate mai visto.»

 

Una pagina ispirata e profondamente poetica, e piena di verità, per chi conosca la città di cui si parla; peccato solo che manchi un accenno a uno degli edifici più significativi e carichi di storia, il duomo, simbolo del glorioso Patriarcato medievale e ricchissimo di opere d’arte [cfr. i nostri articoli: «Il duomo romanico-gotico di Udine ha un cuore in puro stile settecentesco» e «Un quadro al giorno: La resurrezione di G. B. Tiepolo nel Duomo di Udine (1754 ca.)», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente il 18/02/2008 e il 28/08/2008).

È vero che il volto più intimo di una città si coglie nelle ore in cui la gente dorme. Non occorre che sia di notte, però; è sufficiente uscire per le strade nelle prime ore del mattino, specialmente alla domenica, quando le persone restano a letto più a lungo, e i cani e i gatti restano più a lungo padroni dei vicoli e dei cortili. Quando il primissimo chiarore del nuovo giorno è salutato dai canarini nelle loro gabbiette appese ai davanzali, ma gli scuri delle finestre rimangono chiusi ancora per un’ora o due, allora si può cogliere il volto più segreto di una città, la sua anima più nascosta: quando gli spazzini non sono ancora passati, o – nel caso della giornata festiva - non passeranno affatto: è allora che si vede, senza trucco e senza inganno, il grado di pulizia dei suoi abitanti, il loro autentico livello di civiltà. È come fare un’ispezione in una scuola, o in una caserma, senza che il preside o il comandante siano stati preavvisati; è come quando il vescovo si presenta davanti ad una chiesa, così, visitatore non atteso, all’insaputa del parroco.

La città, all’alba, possiede una dolcezza tutta particolare, languida e molle in estate, austera e severa d’inverno. È come una donna sorpresa nel primo risveglio: al naturale, senza trucco. Se è bella, è bella anche così, perfino se non più giovane: la bellezza non deriva altro che dall’essere se stessi con dignità, serenamente, in trasparenza. E una città è bella quando può permettersi il lusso di lasciarsi sorprendere così, all’alba, nel suo volto struccato, nella veste da camera un po’ sgualcita; non serve che sia giovane, basta che sia se stessa. Non sono le vetrine scintillanti dei negozi che la rendono amabile, tanto meno le banche e i grattacieli. Sono, semmai, i muretti a secco, i vecchi portoni, i cortili raccolti, le rogge chiacchierine, i pergolati di edera selvatica, i ciottoli di fiume che pavimentano le strade e le piazzette, i giochi di ombre e luci riflessi dal sole contro i muri delle case, i profumi di salvia, lavanda e rosmarino che vengono dagli orti.

Chi non ha girato per le strade della città all’alba, non ne ha ascoltato le voci sussurrate, non ha ammirato i riflessi di luce sulla corrente veloce delle rogge, non può dire di conoscerla veramente: è come un amico che non è mai uscito dai discorsi generici sul tempo e sul governo, che non ha mai aperto il proprio cuore all’amico, che non ne ha mai intravisto l’anima, né mai ha mostrato la sua, per mancanza di autentica fiducia. Per amare una città, bisogna fidarsi di lei; solo così ci si può sentire amati da lei; solo così si avverte la soave carezza della sua maternità.

La città viva possiede anche una lingua, che è il dialetto: chi parla sempre e solo in italiano è come se vedesse la televisione sempre e solo in bianco e nero. Il dialetto è la lingua materna, la prima che s’impara; o, almeno, lo era. I genitori che si vergognano di sentire i figli parlare in dialetto, e che vorrebbero levar loro tale “cattiva” abitudine, li stanno derubando di una ricchezza cui avrebbero diritto. Non c’è nulla di più dolce e di più santo della lingua materna; nulla che leghi altrettanto, con i vincoli più forti del sentimento filiale, una persona alle proprie radici.

Le persone, oggi, sono sradicate: si sentono di casa dappertutto e in nessun luogo. Questo è molto triste. «Un paese ci vuole», rifletteva Cesare Pavese. Senza radici, gli uomini sono come le foglie al vento: al primo soffio, saranno spazzati via. E Dio sa quanto soffiano forte i venti della modernità…