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Pregiudizio e tradizione: i due fondamenti del pensiero e della società

di Francesco Lamendola - 19/10/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 


 

Viviamo nella società permissiva ed edonista, relativista e pluralista, che ha fatto della lotta contro il pregiudizio la sua bandiera. Se si domanda a cento, a mille persone che cosa pensino del pregiudizio, a stento se ne troveranno un paio che non ripeteranno la filastrocca del politicamente corretto: che il pregiudizio è il nemico numero uno, l’obbrobrio che deve essere abolito, l’infamia che deve essere estirpata dalle nostre menti e dai nostri cuori, e, naturalmente, dalla società intera. Solo allora, solo quando lo avremo riconosciuto, isolato e distrutto, solo quando lo avremo seppellito sotto una montagna di disprezzo e ne avremo cancellato in noi stessi anche il ricordo, solo allora potremo impostare serenamente le nostre vite; solo allora la società cui apparteniamo potrà dirsi una società accogliente, civile, progredita.

Peccato che, senza il pregiudizio, qualunque pensiero diventi impossibile: è il pregiudizio che ci fornisce le coordinate di partenza per qualunque ragionamento, per qualunque avventura del reale. Se anche non lo volessimo, lo troveremmo comunque in noi, sotto forma di patrimonio genetico e come effetto dell’educazione, dell’ambiente, della storia. Il pregiudizio ci offre la struttura mentale e conoscitiva di base: nessuno di noi è una tabula rasa, nessuno di noi parte da zero allorché si pone di fronte al mondo e si trova a dover formulare giudizi, a prendere decisioni, a compiere delle scelte. Il pregiudizio non è, o non è necessariamente, una lente deformante che altera la nostra percezione del reale e che ci impedisce di comprendere correttamente i fatti: esso è la necessaria struttura fondamentale, ancorché provvisoria (in quanto soggetta a continua revisione) per l’esercizio, libero e responsabile, della nostra razionalità.

Inoltre, storicamente, il pregiudizio è sempre stato combattuto dall’Illuminismo e dai movimenti intellettuali e culturali che ad esso si richiamano; in pratica, è una invenzione del Settecento, del “secolo dei Lumi”, che pone la Ragione in maniera rigida e che immagina un esercizio della Ragione totalmente svincolato dalle strutture psicologiche, affettive, sociali, ambientali, che ne costituscono non l’ostacolo, ma la necessaria integrazione. Ora, l’Illuminismo non è – come h sempre voluto dar ad intendere - la dottrina della ragione, ma una delle dottrine che, tenendo conto della ragione, come di altri aspetti della conoscenza, mirano a promuovere la crescita complessiva  della dimensione umana: rifiutare i suoi presupposti più estremi, significa rifiutare anche il pregiudizio nei confronti del pregiudizio, riconoscendone l’utilità  e la necessità (cfr. il nostro preceente articolo «Elogio del pregiudizio, contro la tirannia di una Ragione arrogante e totalitaria», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 25/01/2014).

Uno dei pochi pensatori contemporanei che hanno evidenziato la funzione positiva del pregiudizio è stato Hans Georg Gadamer (Marburgo, 1900-Heidelberg, 2002), che, rifacendosi esplicitamente a Heidegger - e a Dilthey -, ha criticato il concetto di “metodo” e ne ha mostrato l’inadeguatezza per fondare le scienze dello spirito. Non è sufficiente il “metodo”, ci vogliono delle “pre-comprensioni”, o “pre-giudizi”, in qualunque atto conoscitivo: l’ermeneutica diventa così non la dottrina del metodo, ma, in un certo senso, la critica al metodo e la necessità di costruire una rete di linee interpretative provvisorie, che consentano almeno le fasi iniziali del conoscere, quando ci si avventura in una terra inesplorata e non se ne possiedono affatto le coordinate. In fondo, è precisamente quel che diceva Platone, allorché affermava che, nel conoscere, si conosce già qualcosa fin dall’inizio, altrimenti non si saprebbe cosa, come o dove cercare; ma non si conosce tutto, altrimenti non vi sarebbe neppure la necessità della ricerca. Certo, il pre-giuizio non è sufficiente; e, soprattutto, non può, né deve, configurarsi come il giudizio definitivo: esso è solo lo strumento iniziale, che occorre incessantemente rivedere, sottoporre a verifica, correggere, e, se necessario, modificare anche sostanzialmente, perché la sua funzione non è quella di chiudere il percorso della conoscenza, ma di aprirlo e agevolarlo.

Riportiamo, in proposito, una pagina del classico testo di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero, «Filosofi e filosofie nella storia» (Torino, Paravia, 1992, vol. 3, pp. 638-640):

 

«Il punto-chiave della dottrina della dottrina di Gadamer sostiene che l'interpretante accede all'interpretato solo tramite una serie di "pre-comprensioni" di "pre-giudizi" che, nel loro insieme, costituiscono delle preliminari ipotesi di decodificazione dell'interpretato stesso. Lungi dall'essere  una tabula rasa le mente dell'interprete è dunque abitata da una serie di attese o di schemi di senso, ovvero da una molteplicità di "linee interpretative provvisorie". Questa situazione circolare, per cui ciò che si deve comprendere è già in parte compreso, costituisce il cosiddetto "circolo ermeneutico", che Heidegger, secondo Gadamer, avrebbe avuto il merito di non degradare a circolo vitiosus, considerandolo non solo come qualcosa di ineliminabile, ma anche come una condizione positiva del conoscere, ovvero come l'unica maniera per accedere all'interpretandum. Anzi, Heidegger ci avrebbe fatto capire come il problema non sia quello di sbarazzarsi del circolo, ma di acquistarne coscienza, mettendo "alla prova" i pregiudizi che lo costituiscono e mostrandosi eventualmente disposti - di fronte all'"urto" con i testi - a rinnovare le proprie presupposizioni. Tanto più che i primi "urti" del soggetto interpretante con l'oggetto interpretato rivelano di solito l'inadeguatezza delle pre-comprensioni iniziali, obbligando l'interpretans a ritornare su di esse, a rivederle e a correggerle, tramite un reiterato confronto con l'interpretamdum. [...]

La teoria del circolo ermeneutico si accompagna, in Gadamer, ad una delle dottrine più caratteristiche del suo pensiero, ossia alla riabilitazione dei pregiudizi, dell'autorità e della tradizione. Innanzitutto, Gadamer chiarisce come i pregiudizi non siano qualcosa di necessariamente negativo (secondo uno schema illuministico che ha influenzato tutta la cultura moderna, sotto forma di un vero e proprio "pregiudizio contro il pregiudizio") poiché accanto a pre-giudizi falsi e illegittimi esistono pregiudizi veri e legittimi: "Un'analisi della storia dei concetti mostra che solo nell'illuminismo il concetto di pregiudizio acquista l'accentuazione negativa che gli è abitualmente connessa. Di per sé, pregiudizio significa solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi, obiettivamente rilevanti". [...] In secondo luogo, Gadamer mette in luce come i pregiudizi facciano parte integrante della nostra realtà di esseri sociali e storici (in quanto "molto prima di arrivare ad una autocomprensione  attraverso la riflessione esplicita noi ci comprendiamo secondo schemi irriflessi nella famiglia, nella società e nello Stato") al punto che una loro ipotetica eliminazione coinciderebbe, di fatto, con l'annullamento del nostro io concreto.

Parallelamente a questa rivisitazione dei pregiudizi, Gadamer puntualizza come il rispetto per l'autorità non implichi necessariamente, secondo un'altra credenza di tipo illuministico, credenza cieca e abbandono della ragione, in quanto nel suo aspetto positivo e razionale, cioè autenticamente umano, essa risiede "nell'atto in cui si riconosce che l'altro ci è superiore in giudizio e in intelligenza" Tant'è vero che "l'essenza dell'autorità che rivendica l'educatore, il superiore, lo specialista, consiste proprio in questo".

Analogamente, per quanto concerne la tradizione, Gadamer chiarisce come "sia la critica illuministica alla tradizione, sia la sua riabilitazione romantica non colgono la verità della sua essenza storica". Infatti, di fronte alla ingenua pretesa illuministica di sbarazzarsi della tradizione si erge la pretesa romantica di stabilire delle 'tradizioni radicate' davanti alle quali la ragione dovrebbe solo tacere", dimenticando che la tradizione, per essere umanamente tale, ha bisogno di essere razionalmente e liberamente accettata: “Anche la più autentica e solida delle tradizioni non si sviluppa naturalmente in virtù della forza di persistenza di ciò che una volta si è verificato, ma ha bisogno di essere accettata, di essere adottata e coltivata…”. In ogni caso, l’uomo non può collocarsi fuori della tradizione, poiché quest’ultima fa parte della sostanza storica del suo essere.»

 

Anche su questo punto, la tradizione, il pensiero di Gadamer è salutarmente originale: di una originalità, cioè, che non consiste nel demolire le certezze per instaurare il deserto e la confusione, il relativismo e la rassegnazione, ma nell’aprire nuove prospettive e nel suggerire nuove strade per affrontare i problemi umani. I progressisti odiano la tradizione perché in essa vedono il peso morto del passato: si pensi con quanto furore certi urbanisti e certi architetti demoliscono vecchi edifici e interi quartieri urbani, per ripartire da zero, innalzando quelli nuovi in maniera totalmente svincolata da qualunque condizionamento storico, estetico, paesaggistico. Ma la tradizione che essi odiano, in realtà, non esiste: non esiste una tradizione che sia fatta solo del passato quale peso inerte; la vera tradizione è ben altro: è la viva continuità fra l’ieri e l’oggi, fra le generazioni che ci hanno preceduto e le attuali. Pertanto, ignorare, disprezzare o combattere la tradizione è l’equivalente di una auto-amputazione, di una auto-castrazione, e, in ultima analisi, di una auto-distruzione morale.

Rivalutare sia il pregiudizio, sia la tradizione, pertanto, non significa assumere posizioni paradossali e reazionarie, se per “reazionario” si intende qualcosa che sia ciecamente, ottusamente chiuso a qualsiasi novità; al contrario: significa compiere un atto di giustizia verso due elementi indispensabili del pensiero e del vivere civile, senza i quali noi tutti, sia come singoli individui, sia come corpo sociale, precipiteremmo in un kafkiano annaspare nel nulla, in un pirandelliano gioco delle parti, nel quale finiremmo per smarrire, insieme a noi stessi, la ragione medesima, nonché il significato della civile convivenza. Senza di essi, infatti, è come se gli uomini e le società dovessero iniziare ogni cosa dal nulla: il che equivale alla barbarie. “Barbaro” è colui che ignora tutto e che non ha rispetto di nulla; colui che basa ogni sua azione sulla pura forza materiale e che non riconosce legami di affetto, di patria, di religione; colui che sa solo distruggere e che prova gusto nella distruzione, ma non sa costruire, perché ignora l’arte della pazienza, della durata, della responsabilità: è l’individuo che vive nell’effimero e se ne compiace.

Aver denigrato ingiustamente il pregiudizio e aver disprezzato e calpestato la tradizione sono stati non già degli atti di liberazione, ma dei crimini nei confronti dell’umano: perché l’uomo, spogliato delle strutture fondamentali del pensiero non solo razionale, ma ragionevole, e del solido e accogliente fondamento della tradizione, viene privato della sua stessa umanità e ridotto ad animale anonimo, vagante, sradicato e alienato: un marziano senza pace, che non appartiene ad alcun luogo e che di questo estraniamento si vanta, chiamandolo cosmopolitismo; un barbaro che crede di ragionare meglio di chiunque altro, solo perché si adagia nel conformismo dell’anticonformismo e nel relativismo assoluto; un corpo estraneo, refrattario a qualsiasi senso di comunità e identità: infine, un atomo errante, che non appartiene ad alcun luogo, ad alcuna società, ad alcuna civiltà, perché la sua sola patria è il proprio io e il solo legame che lo interessi è quello che nasce dall’opportunismo, dall’interesse temporaneo, dalla convenienza interessata.

Un individuo siffatto si sente a casa ovunque, non perché sia capace di amore e gratitudine verso un luogo o una comunità, ma, al contrario, perché è totalmente disancorato, totalmente impermeabile a qualunque vincolo ideale: va dove trova un tetto e un pasto caldo, e parte quando trova qualcosa di meglio; si unisce a un compagno o a una compagna, mette al mondo dei figli oppure se ne disinteressa e li trascura, o li abbandona, a seconda di ciò che gli pare conveniente in un dato momento, senza alcun impegno nei confronti del futuro e senza accettare alcun limite all’esercizio della propria “libertà”, intesa in senso puramente negativo ed egoistico. È un individuo che fa paura: un piccolo, meschino superuomo di massa, fabbricato con lo stampino in milioni di esemplari e perfettamente equivalente a innumerevoli altri piccoli, irresponsabili, meschini egoisti come lui, mercenari come lui, vagabondi come lui; e, nondimeno, in cima ai suoi pensieri e alle sue azioni vi è sempre la smania, e l’illusione, di essere diverso da tutti gli altri, di essere unico e speciale, di essere straordinariamente autentico e originale.

Un mondo popolato da individui così, è un mondo alla deriva, che ha le ore contate: perché è un mondo nel quale non esiste proporzione ragionevole fra il prendere e il dare, ma tutti vogliono solo prendere e nessuno vuol dare, o cerca di dare il minimo. È questo, allora, il futuro che desideriamo?