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Come la cultura razionalista e borghese dichiarò guerra a oltranza alla cultura popolare

di Francesco Lamendola - 19/10/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 


 

La cultura popolare è stata colpita a morte, fin dal XVI secolo, nel corso di una guerra all’ultimo sangue che le aveva scatenato contro la cultura della piccola borghesia europea, specialmente protestante (ma, in misura minore, anche cattolica): è in tal modo che tutta una serie di manifestazioni della vita collettiva, dalle feste del Carnevale alle processioni religiose, dal teatro popolare al gioco delle carte in osteria, sono state radicalmente modificate, imbrigliate, controllate, ridimensionate, rettificate e, in alcuni casi, soppresse.

A fare da volano all’offensiva, scientemente dichiarata e metodicamente, tenacemente condotta contro di esse, è stata la Riforma protestante, con il suo anelito intransigente, settario, talvolta fanatico, verso una vita religiosa più austera e verso una vita sociale più conforme alla lettera del Vangelo; i riformatori cattolici – poiché non si deve dimenticare che c’è stata anche una Riforma cattolica, e non solo una Controriforma – hanno fatto il resto, colpendo dall’interno quelle forme della religiosità popolare che presentavano aspetti di eccessiva familiarità nei confronti del sacro – dalla predicazione religiosa al popolo, alle sacre rappresentazioni con carattere fortemente realistico – o, addirittura, tracce della cultura pre-cristiana.

Il fine, si capisce, era buono, anzi ottimo: si voleva ripristinare un cristianesimo autentico e combattere gli abusi e gli eccessi di una religiosità disordinata, superstiziosa, neopagana. Di fatto, quel che fecero i protestanti – si pensi alla Ginevra di Calvino – fu di instaurare, per legge, il regno della santità, ovvero il regno della tetraggine, della tristezza e del decoro obbligatorio; e quel che fecero i riformatori cattolici, anche se ciò non era nelle loro intenzioni, fu di togliere spontaneità e autentica partecipazione popolare alle forme cultuali più spettacolari, ma, forse, anche più profondamene sentite, specie nell’ambito della devozione ai santi e alla Vergine Maria. Si voleva, anche, separare l’ambito del sacro da quello profano; in pratica, si cauterizzò il sacro, spogliandolo di alcune delle forme più vive della partecipazione popolare – come le sacre rappresentazioni – e si impose una pesantissima cappa di censura su molte forme della vita profana, dai teatri alle osterie, in ossequio a una sorta di fondamentalismo quasi razionalista.

Perché, infatti, i riformatori non tolleravano più una serie di usanze, di riti, di pratiche, che erano antichi di secoli e secoli; che non avevano mai disturbato nessuno; che rappresentavano, anzi, semmai, una utilissima valvola di sfogo per certe tensioni, per certe contraddizioni sociali più o meno latenti, offrendo a tutti, e specialmente alle classi più povere – si pensi alle feste del Carnevale e al loro clima di pazzia istituzionalizzata, ma, in fondo, benefica, o comunque non distruttiva – l’occasione per allentare o per anestetizzare il malessere della vita quotidiana, la frustrazione della miseria, la difficoltà di conservare un orizzonte di speranza. Prendersela con il culto dei santi o con la predicazione popolare dei frati, così come combattere le osterie, il gioco dei dadi e delle carte, il teatro popolare, le danze e le feste carnevalesche: tutto ciò equivaleva a gettare via il bambino insieme ai pannolini sporchi: era come sopprimere gli eccessi e gli abusi mediante le decapitazioni e le amputazioni con le tenaglie roventi.

Lutero aveva incominciato la sua cosiddetta riforma – in realtà, una radicale rivoluzione religiosa – scagliandosi con violenza non contro l’abuso, ma contro la teoria e la pratica delle indulgenze: già da questo fatto si capisce, se appena vi si riflette, che non è stata l’ansia di rigenerazione morale a sospingerlo sulla via della crociata contro la Chiesa cattolica – poiché fu una vera crociata, selvaggia e sanguinaria: e quel che fecero i lanzichenecchi protestanti a Roma, durante il sacco del 1527, non giunsero mai a farlo, pur desiderandolo ardentemente, né i Turchi Ottomani, né i pirati barbareschi – ma una specie di furor teutonicus contro una teologia che chiamava l’uomo a collaborare con Dio alla propria salvezza, giudicandola empia e superstiziosa, in nome di una nuova teologia, che, sotto le apparenze di una moralizzazione e di una restaurazione evangelica, in realtà riduceva a niente il libero arbitrio e faceva dell’uomo un misero schiavo, anzi, un dannato in attesa di essere precipitato all’Inferno, o forse salvato all’ultimo istante, dal capriccio imprevedibile e insindacabile di un Dio lontanissimo e vendicativo, come quello dei passi più cupi e angosciosi dell’Antico Testamento.

Lo storico inglese Peter Burke, uno dei più affermati e prestigiosi storici contemporanei a livello internazionale (nato nel 1937), ha studiato l’offensiva anti-popolare dei riformatori delle due confessioni, la protestante e la cattolica – minimizzando, a nostro avviso, le differenze, che invece ci furono, e non piccole, tra l’una e l’altra - nel suo libro, divenuto ormai un classico, «Cultura popolare nell'Europa moderna»; titolo originale: «Popular Culture in Early Modern Europe», 19878; Milano, Mondadori, 1980, pp. 240-249):

 

«I riformatori si opposero soprattutto a certe forme della religione popolare, come le sacre rappresentazioni ("miracoli" e "misteri"), i sermoni popolari e, in particolare, le feste religiose, come i giorni dedicati ai anti o ai pellegrinaggi; ma si opposero anche a un buon numero di elementi della cultura popolare secolare.  Una lista completa raggiungerebbe davvero proporzioni enormi, ma anche un elenco riassuntivo dovrebbe comprendere: attori, ballate, burattini, carte da gioco, "charivari" [proteste collettive conto i peccatori], ciarlatani, combattimenti di cani contro gli orsi, corride, dadi, danze, divinazione, fiere, libretti popolari, magia, maschere, menestrelli, predizione dell'avvenire, racconti popolari, stregoneria e taverne.. Dal momento che un numero considerevole di queste voci riprovevoli si poteva trovare associato al Carnevale, non fa meraviglia che i riformatori concentrassero i loro attacchi su quest'ultimo. Per di più, essi misero al bando - o addirittura bruciarono - libri, fecero a pezzi immagini, chiusero teatri, abbatterono alberi della Cuccagna e dispersero "abbazie del Malgoverno".

Tale riforma della cultura non si limitò a quella popolare, in quanto gli "zelanti" disapprovavano ogni forma di spettacolo teatrale, Ciò nonostante, rimane l'impressione che a sostenere l'attacco siano state proprio le forme di divertimento popolare.  [...]

Ma che cosa non andava nella cultura popolare, per i riformatori? Vi erano essenzialmente due obiezioni l'ordine religioso, che Erasmo da Rotterdam condensa in una sola frase quando descrisse come "non cristiano" il Carnevale di cui fu testimone a Siena nel 1509. Non è cristiano, innanzitutto, perché contiene "tracce dell'antico paganesimo"; secondariamente, perché in tale occasione "il popolo indulge eccessivamente alla licenza". [...]

La prima obiezione si può dire teologica: i riformatori, cioè, disapprovavano le usanze popolari in quanto reliquie superstiti del paganesimo, "superstizioni" nel significato originario del termine. ... I costumi pagani erano peggio di un errore; erano semplicemente diabolici. Del resto, le divinità pagane erano spesso ritenute dei demoni; quando S. Carlo denunciò gli spettacoli teatrali in quanto liturgia del Demonio, è probabile che intendesse parlare alla lettera.

I riformatori protestanti andarono più in là e descrissero addirittura molte pratiche ufficiali della chiesa cattolica come delle reliquie precristiane, paragonando il culto della Madonna a quello di Venere e facendo dei santi i successori degli dei e eroi pagani, dei quali avrebbero fato proprie le funzioni di cura delle malattie e di protezione dai pericoli: S. Giorgio, ad esempio, fu identificato con un nuovo Perseo., S. Cristoforo con un secondo Polifemo. [...]

Anche la magia venne denunciata in quanto sopravvivenza pagana. Circe e meda non erano forse delle streghe? I protestanti accusarono i cattolici di praticare una religione magica e, a loro volta, i riformatori cattolici si sforarono di purificare la cultura popolare da incantesimi e sortilegi. [...]

Che alcuni riti popolari fossero modellati sulla liturgia cristiana, i riformatori lo riconoscevano, ma per loro non aveva affatto peso. I riti di questo tipo erano denunciati perché irriverenti, blasfemi, sacrileghi, scandalosi, tali da offendere la vista e l'udito delle persone per, profanatori dei sacri misteri e dileggiatori della religione. [...]

Analoghe furono le ragioni per cui il sermone popolare fu messo sotto accusa.  Erasmo dichiarò una volta che un buon predicatore doveva agire sulle emozioni dell'uditorio in forza delle parole e non con smorfie o gran gesticolare da buffoni, [...] come faceva qualche frate italiano.  [...]

Anche il dramma religioso popolare fu spesso attaccato su base analoghe. Il vescovo di Evora in Portogallo proibì nel 1534 le rappresentazioni che non avessero un permesso speciale, "anche e illustrano la Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, o la sua resurrezione, o Natività... poiché questi drammi sono causa di molti inconvenienti [...] e danno spesso scandalo a coloro che, non saldi nella fede cattolica, vedono i disordini e gli eccessi di questi drammi".[...]

Nodo cruciale di tutti questi esempi si direbbe l’insistenza dei riformatori sulla separazione fra sacro e profano, separazione che si fece ora molto più netta di quanto non fosse nel Medioevo. In altre parole, la riforma della cultura popolare fu qualcosa di più di un semplice passo avanti nella lunga guerra fra gli "zelanti" e i non "zelanti": essa accompagnò, di fatto, un cambiamento di maggiore portata nella mentalità o sensibilità religiosa. Gli uomini di chiesa si impegnarono ad abbattere la tradizionale familiarità col sacro, poiché ritenevano che esso alimentasse l'irriverenza.

La seconda obiezione di fondo alla cultura popolare tradizionale era d'ordine morale. Le feste vennero denunciate quali occasioni di peccato, più in particolare, di ubriachezza, di ingordigia e di libertinaggio, e per il fatto di incoraggiare l'asservimento al mondo, alla carne e al Demonio - ma soprattutto alla carne. Le recite, le canzoni e, soprattutto, le danze vengono condannate per il fatto di risvegliare emozioni pericolose e in quanto incitamento alla fornicazione: Phillip Stubbes, puritano dell'età elisabettiana, si scagliò contro quello che chiamava "l'orribile vizio della danza perniciosa", che dava ai partecipanti l'occasione di "osceni palpeggiamenti e di immondi maneggi", agendo così da "preludio alla fornicazione, da preparativo alla licenza e da introito ad ogni tipo di lascivia". [...]

Altro argomento d'ordine morale contro molti divertimenti popolari era l'idea che essi fossero "vanità", non graditi a Dio perché facevano perdere tempo e denaro. [...]

In breve, ci troviamo di fronte, in questo periodo, a due etiche o stili di vita in aperto conflitto. L'etica dei riformatori si ispira alla diligenza, alla serietà, alla modestia, alla disciplina., alla prudenza, alla ragione, all'autocontrollo, alla sobrietà, e alla parsimonia o, per usare una frase resa famosa da Max Weber, all'"ascesa intramondana" Fu in un certo senso fuorviante da parte sua chiamare tutto ciò un'"etica protestante", dal momento che essa era riscontrabile nelle cattoliche Strasburgo, Monaco e Milano altrettanto bene che nelle protestanti Londra, Amsterdam e Ginevra. Si sarebbe piuttosto tentati di chiamarla "etica piccolo-borghese", poiché doveva diventare caratteristica della categoria dei negozianti. L'etica dei riformatori era in conflitto con un'etica tradizionale che, più difficile da definire perché meno articolata, comportava in ogni caso una maggiore  accentuazione dei valori della generosità e della spontaneità e una maggiore tolleranza del disordine.»

 

Dicevamo che le differenze fra l’offensiva anti-popolare dei protestanti e quella dei cattolici vi furono, e furono più grandi di quel che il Burke sembri disposto a riconoscere: perché è vero che vi furono chiusure di teatri sia nella cattolica Madrid che nella protestante Londra, ma l’obiettivo era diverso, e diverse furono anche le modalità e l’intensità delle rispettive azioni. Ciò cui miravano i riformatori protestanti, specialmente calvinisti, era di spazzar via tutto: tutto ciò che, nel cristianesimo, era, secondo loro, “superstizione” (cioè l’intero edificio del cattolicesimo: e quante volte, nelle loro incisioni di propaganda, il Papa viene equiparato al Diavolo) e tutto ciò che, nella vita profana, era suscettibile di “indurre in tentazione”. Logico: non avendo alcuna fiducia nel libero arbitrio, diffidavano sistematicamente dell’uomo, non solo per i peccati che commetteva, ma per quelli che avrebbe potuto commettere; di qui la necessità di un ricorso continuo e sistematico ai metodi della “psico-polizia”, ovvero alla repressione preventiva, se ci si concede l’espressione, degli istinti cattivi e peccaminosi presenti nell’essere umano. L’obiettivo dei riformatori cattolici (talvolta, ma non sempre, essi stessi influenzati da analoghi atteggiamenti protestanti, pur senza rendersene conto), invece, era quello di purificare il culto religioso dalle manifestazioni morbose o disdicevoli e limitare, per quanto possibile, le dubbie commistioni di sacro e di profano.

Di fatto, una separazione netta era impossibile, a meno di curare il mal di testa con le decapitazioni: vale a dire, a meno di tagliare via tutto, anche le cose innocue o, in se stesse, apprezzabili, solo perché contigue a certe manifestazioni sociali suscettibili di abusi e degenerazioni. Si prenda il caso della cosiddetta religiosità popolare: chi potrebbe negare che vi siano, in essa, esagerazioni che disturbano il senso morale e che gettano un’ombra sul vero significato religioso? Però, nello stesso tempo: chi potrebbe negare che esse, moltissime volte, scaturiscano da una ricerca sincera del sacro e del divino, e che alle persone delle classi colte sfugge la loro dimensione positiva, o almeno potenzialmente positiva, a causa di un vero e proprio pregiudizio ideologico? Come negare che un intellettuale piccolo-borghese, impregnato di razionalismo e di scientismo (sia egli protestante o cattolico; ma specialmente se è protestante) sia irresistibilmente tentato di arricciare il naso e scuotere la testa, sia irresistibilmente portato a giudicare e a condannare, prima ancora di aver fatto il benché minimo sforzo per capire?

C’è poi un altro aspetto, tipico – appunto - dei riformatori protestanti, e che il Burke non tralascia di considerare: la lotta contro le forme della cultura popolare aveva non solo lo scopo di glorificare Dio, ma anche di consentire un risparmio di tempo e denaro, a maggior gloria dell’economia di mercato. Passare i pomeriggi o le serate all’osteria, giocando ai dadi o alle carte e sperperando il denaro nel vino e nella birra, non era solo una mancanza di rispetto verso Dio – specialmente se ciò avveniva di domenica: quando le botteghe e le officine erano chiuse – ma anche un danno al bilancio familiare e una sottrazione di risorse al circuito “virtuoso” dell’economia moderna: quello che vuole massimizzare i profitti, facendo di ogni produttore un accanito consumatore di quei beni che lui stesso contribuisce a immettere sul mercato, in una spirale di produzione e di consumo che, teoricamente, cresce sempre su se stessa, all’infinito, senza fermarsi mai (o, almeno, fino alla prossima crisi di sovrapproduzione). E anche questo è un segno del carattere razionalista della crociata contro la cultura popolare. Le forme più spontanee della cultura popolare andavano combattute ed eliminate perché rappresentavano una dispersione di tempo e di denaro: tempo e denaro che, al contrario, i grandi produttori e i banchieri avevano tutto l’interesse a tenere ben concentrati, affinché fruttassero al massimo. I ceti piccolo borghesi, per ragioni ideologiche, si prestarono volonterosamente a fornire le truppe d’assalto per tale crociata, i cui massimi beneficiari erano, in realtà, i detentori del grande potere economico e finanziario.

Ci sarebbero ancora tante cose da dire su questo argomento: si potrebbe riempire una intera enciclopedia.

Ci basta aver messo una piccola pulce nell’orecchio di tante persone sicuramente bene intenzionate, ma un po’ troppo zelanti nel loro desiderio di veder sparire ogni manifestazione della cultura popolare, o di quel poco, o pochissimo, che ancora di essa sopravvive. Ogni qual volta un piccolo borghese, e specialmente un intellettuale, storce il naso e scuote la testa davanti ad esse – che si tratti di una partita di calcio o di un viavai di pellegrini presso qualche santuario cattolico: certo, nella consapevolezza della diversità di tali situazioni – bisogna fare bene attenzione: è un piccolo inquisitore laico, razionalista e intollerante, che, coscientemente o no, si presta a fare il gioco sporco del potere finanziario oggi imperante: pianificare e controllare tutto, eliminare quel che al sistema non serve e contribuire a drenare ogni minuto di tempo e ogni singola moneta, per accrescere la già incalcolabile e distruttiva ricchezza dei padroni del mondo.