Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Perché soffrono gli animali?

Perché soffrono gli animali?

di Francesco Lamendola - 26/10/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 


 

Perché soffrono gli animali? Che significato ha il loro soffrire, dal punto di vista etico, posto che ne abbia uno? E, se non ce l’ha, che cosa si deve pensare di un mondo che esiste al prezzo della sofferenza insensata d’innumerevoli creature, di nulla colpevoli tranne che del fatto di esistere, di vivere e di voler conservare, per quanto possibile, la loro vita?

Raramente i filosofi si sono abbassati per interrogarsi su questo problema: specialmente quelli di tendenza razionalista, come Cartesio, hanno tagliato corto affermando che gli animali non soffrono affatto, perché, privi come sono dell’organo della ragione, a loro non è nemmeno possibile provare il piacere o il dolore: altro non sono che res extensa, cose, oggetti che emettono suoni, ma non creature vive dotate di sensibilità e, tanto meno, di attributi spirituali. Dove non si sa se lamentare maggiormente la totale assenza di compassione del filosofo francese verso i nostri fratelli minori (che potremmo anche pensare anacronistica, al suo tempo, se una figura come quella di San Francesco d’Assisi, vissuto alcuni secoli prima, non testimoniasse che non è una questione culturale, ma etica e, pertanto, senza tempo e valida in ogni tempo), oppure la perfetta illogicità del ragionamento stesso: se l’attributo della res cogitans è la ragione, e se gli animali ne sono privi, che cosa c’entra questo con il fatto di soffrire o non soffrire, che non attiene per nulla alla ragione, ma alla pura e semplice sensibilità fisiologica? Se un cane viene bastonato, se un topolino viene vivisezionato, se un cucciolo di foca viene scuoiato vivo per strappargli la pelliccia intatta, queste situazioni non hanno niente a che fare con la ragionevolezza delle creature che ne sono vittime: non c’è bisogno di esser intelligenti per soffrire; è più che sufficiente avere un corpo che non sia stato, in qualche modo, anestetizzato.

Altri pensatori, di tendenza materialista, non si sono neanche posti il problema: hanno sostenuto che la lotta per la vita è la legge fondamentale del mondo, e che, di conseguenza, è inevitabile che le bestie soffrano, perché dove c’è lotta, c’è anche sofferenza; comunque, anche per costoro, la questione è irrilevante, perché, tutti presi e invischiati nel loro pregiudizio antropocentrico, ai loro occhi solo il soffrire dell’uomo merita rispetto e vale la pena di essere interrogato, mentre quello degli animali è una questione priva d’importanza, se non per dei cervelli un po’ bizzarri e per degli animi forse un po’ troppo sensibili e impressionabili. E, in fondo, è logico che il materialista la pensi così: egli è un signore che non vede, né ammette, negli esseri viventi, altro che la loro componente biologica. L’uomo è un mammifero particolarmente evoluto e intelligente, il solo capace di farsi delle domande: dunque solo il suo soffrire è degno di attenzione, ma allo scopo di trovare un rimedio, non una risposta. Alla sofferenza non c’è risposta, perché, secondo costui, non esiste nemmeno la domanda: si soffre perché il mondo è fatto così, c’è la sofferenza e basta. Al medico, allo scienziato, allo psicologo, tocca il compito di alleviarla, di ridurla, di esorcizzarla. La sofferenza è un nemico che va combattuto, un nemico cieco e privo di senso: e, come tutte le cose prive di senso, non vale la pena di lasciarsi interrogare da essa. Quanto agli animali, anch’essi soffrono, è innegabile; però non si fanno domande: soffrono e basta. In fondo, è il loro l’atteggiamento giusto: non c’è niente da capire. Però essi non possiedono l’intelligenza, che offre invece, agli umani, il modo di ridurre la sofferenza e, in certi casi, perfino di eliminarla. E allora, inutile perder tempo con gli animali. Tutt’al più, se il cane che ci è stato compagno per quindici anni, soffre troppo, lo si può portare dal veterinario e sopprimerlo con una pietosa iniezione di veleno. Ma occuparsi della sofferenza degli animai in generale è privo di scopo: gli animali selvatici e tutti quelli allevati dall’uomo, ma che non rientrano nella categoria degli animali da compagnia, soffrono e basta: è un dato naturale, come lo sono il tempo e le stagioni, e non c’è altro da dire. Nessuno può porvi rimedio e non c’è alcuna morale da trarne; dunque, i filosofi fanno bene a non perder tempo con una questione inutile e irrilevante.

Per colui che possiede una concezione spirituale del reale, invece, le cose stanno ben diversamente; e ciò vale, a maggior ragione, per il credente, animato da una fede religiosa nella bontà divina e, quindi, nella intrinseca bontà del mondo. Ma come può essere buono, un mondo nel quale soffrono milioni e milioni di creature senzienti e innocenti, che nulla hanno fatto per meritare il loro amaro destino di patimenti e di dolore?

In realtà, anche per gli animali bisognerebbe fare la distinzione preliminare fra il male puramente fisico e quello fisico e morale insieme. L’erbivoro che viene divorato da un predatore carnivoro, certamente soffre, non però dello stesso genere di sofferenza di un animale catturato e torturato dall’uomo, prima di essere ucciso: la prima forma di sofferenza risponde all’ordine della natura e ha una sua logica intrinseca; la seconda  deriva da un atto gratuito, commesso con una crudeltà che poteva essere evitata: non viene dalla natura, ma dalla malvagità umana. Si dirà che gli effetti sono gli stessi e che la sofferenza è la stessa. Noi non lo crediamo; la sofferenza che viene dalla natura è più accettabile: un animale ormai vecchio, che sente avvicinarsi la morte, e che soccombe perché non riesce più a procurarsi il cibo, o a riscaldarsi in inverno, soccombe a un ordine naturale del quale fa parte, del quale ha sempre fatto parte e fuori del quale non conosce nulla. Ma un cane allevato dall’uomo e poi abbandonato su una strada, che diventa randagio, che soffre la fame, la sete e l’angoscia di essere stato prima amato, poi rifiutato e infine gettato via, come una cosa inutile, subisce una sofferenza che non è solo fisica, ma anche morale; e che non proviene dalla natura, non è “ordinata”: è disordinata, perché proviene dalla malvagità intenzionale.

Ciò premesso, resta il fatto che gli animali soffrono. Che cosa si deve pensare di ciò? Come è possibile conciliare la loro sofferenza con l’idea di un Dio buono e giusto, di un mondo creato e ordinato a fin di bene? Forse, un indizio può darcelo la riflessione relativa al male che si abbatte sugli esseri umani innocenti: sui bambini in primo luogo; poi, sui santi, cioè sulle persone buone, che non hanno fatto nulla, assolutamente nulla, né direttamente, né indirettamente, per meritare la propria sofferenza: e stiamo parlando, naturalmente della sofferenza gratuita, intenzionale, disordinata, che solo gli uomini sanno infliggere alle altre creature viventi, compresi i loro simili. L’innocente soffre per espiare i peccati del colpevole: questa è la grande intuizione che la Croce ci suggerisce. E, difatti, il santo è colui che prende volontariamente la sofferenza sopra di sé, per farne dono a Dio, a compenso del male commesso da altri, come atto di riparazione offerto affinché la “massa” del male sia controbilanciata da una eguale “massa” di bene.

Ed ecco, in proposito, quel che pensava della sofferenza degli animali il grande scrittore cattolico francese Léon Bloy (Léon Bloy, «La fede impaziente», a cura di E. Zazo, Milano, Bompiani, 1947; cit. in: «Lunario dei giorni di quiete. 365 giorni di letture esemplari», a cura di Guido Davico Bonino, prefazione di Claudio Magris, Torino, Einaudi, 1997, pp.  344-5):

 

«”Se vi ho ben capito, le sofferenze delle bestie sono giuste e volute da Dio che le avrebbe condannate a sopportare una parte del nostro peso. Come può darsi ciò, se esse muoiono senza speranza?”

“Perché allora esisterebbero e come potremmo dire che soffrono se non soffrissero per noi? Noi non sappiamo nulla, assolutamente nulla, se non che le creature, irragionevoli o ragionevoli,  non possono soffrire al di fuori della volontà di Dio e quindi della sua Giustizia.  Avete osservato che la bestia sofferente è ordinariamente il riflesso dell’uomo che l’accompagna? In una qualche parte della terra si è sicuri d’incontrare sempre uno schiavo triste, seguito da un cane desolato. L’angelico cane del povero, per esempio, di cui hanno tanto abusato le chitarre delle romanze, non vi sembra una rappresentazione della sua anima, una prospettiva dolorosa del suo pensiero, qualche cosa infine come il miraggio esteriore della coscienza di questo infelice? Quando vediamo una bestia soffrire, la pietà che proviamo è viva perché suscita in noi il presentimento della liberazione. Noi crediamo di sentire che questa creatura soffre senza averlo meritato, senza compenso di sorta, perché non può sperare altro bene che la vita presente: ed è questa una spaventosa ingiustizia. Bisogna dunque che soffra per noi (gli Immortali) se non vogliamo che Dio sia assurdo. È Lui che dà il dolore, poiché non c‘è che Lui che possa donare qualche cosa; e il dolore è così santo che idealizza e magnifica gli esseri più miserabili. Ma noi siamo così leggeri e così duri, che abbiamo bisogno dei più terribili avvertimenti della sventura per accorgercene. Il genere umano pare abbia dimenticato che tutto quanto è capace di soffrire (dal principio del mondo) è debitore a lui solo di sessanta secoli di angoscia; che la sua disobbedienza ha distrutto la precaria felicità di queste creature disdegnate dalla sua arroganza di animale divino. E non sarebbe verosimile che l’eterna pazienza di questi innocenti sia stata calcolata da un’infallibile saggezza, per controbilanciare nelle più segrete bilance del Signore la barbara inquietudine dell’umanità? […]

Non avete notato che noi non possiamo comprendere gli esseri o le cose che nei loro rapporti con gli altri esseri o altre cose, mai nel loro fondo o nella loro essenza? Non vi è sulla terra un solo uomo che abbia il diritto di affermare che una forma discernibile è indelebile e reca in sé il carattere dell’eternità. Noi siamo dei “dormienti”, secondo la santa parola, e il mondo è dei nostri sogni come un “enigma nello specchio”. Noi comprenderemo questo “gemente universo” solo quando tutte le cose nascoste ci saranno svelate (compiuta la promessa del nostro Signor Gesù Cristo). Fino ad allora bisogna accettare con ignoranza da pecore lo spettacolo universale delle immolazioni, dicendo a noi stessi che, se il Dolore non fosse avvolto nel mistero, non avrebbe né forza né bellezza per il reclutamento dei martiri e non meriterebbe nemmeno di essere sopportato dagli animali.»

 

Quando si discute di un tale argomento, però, non bisogna mai dimenticare il punto centrale della questione, che riguarda tanto la sofferenza in generale, compresa quelli degli animali, quanto la sofferenza umana e quella degli innocenti, in modo particolare: vale a dire che la sofferenza, in tutti i casi, sia quella “naturale”, che abbiamo chiamato “ordinata” (nel senso di rispondente a una logica intrinseca ed evidente: gli esseri viventi devono nutrirsi gli uni degli altri, per sopravvivere), sia quella gratuita e malvagia, è sempre, in ultima analisi, un mistero.

Un mistero è una verità che gli esseri umani non sono in grado di afferrare, tanto meno di spiegare, a meno che non subentri in loro uno stato particolare di ordine soprannaturale, che i credenti chiamano Grazia, e che viene da Dio. Senza di essa, il mistero della sofferenza è destinato a rimanere tale: ivi compreso il mistero della sofferenza di Cristo. In effetti, il cristianesimo non è venuto a fugare i dubbi circa la sofferenza; non ha mai avuto la pretesa di spiegarla: si limita a indicarci la maniera giusta di viverla. Che non è quella di eluderla, o di respingerla, sempre e comunque, a qualsiasi prezzo (e qui ci viene in mente, a titolo personale, la disinvoltura forse eccessiva con cui gli esseri umani, per giustificare il fatto di alleviare la loro sofferenza, sono pronti a provocarla nelle altre creature viventi), ma piuttosto di interrogarla e di accettarla, quando essa è inevitabile, come un atto di amore per Dio e di offerta nei Suoi confronti. Anche Cristo, quando sudò sangue nell’Orto degli Ulivi, pregò il Padre di allontanare da lui la sua Ora; però concluse la propria preghiera dicendosi pronto a fare comunque la volontà del Padre, e non già la propria, qualsiasi cosa ciò comportasse.

Ed ora torniamo alla suggestiva ipotesi di Lén Bloy, che ebbe fama di uomo duro e spigoloso, molto amato ma anche molto odiato, e che pure, nella pagina che abbiamo sopra riportato, si mostra uomo di una sensibilità commovente e di una tenerezza infinita. Laddove, come abbiamo detto, tanti pensatori, a cominciare dal suo illustre connazionale, il filosofo René Descartes, si rifiutarono di prendere in considerazione la sofferenza degli animali, Bloy la affronta di petto, con la massima serietà e partecipazione, e suggerisce una “spiegazione”, o meglio una ipotesi, che ha veramente qualcosa di mistico e di squisito: gli animali soffrono senza colpa per espiare la malvagità degli esseri umani. La loro sofferenza ha, fra le altre funzioni, quella di costituire un monito, un richiamo, una interrogazione, nei confronti degli umani: è un continuo, silenzioso, umile memento, che solo pochi di noi sono disposti ad ascoltare, e ancor meno ad accogliere. Soffrono perché noi capiamo; soffrono perché noi siamo aiutati a redimerci; soffrono perché noi troviamo il necessario punto d’appoggio per innalzarci al di sopra del nostro egoismo, della nostra cecità; e perché siamo spinti a domandare a Dio, come invocava il profeta Ezechiele, un vero cuore di uomini, un cuore capace di sentire, in luogo del cuore di pietra con il quale viviamo, da assenti, la nostra stessa vita.