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Il trascendentalismo volle esportare il “sogno americano”: ma se fosse un incubo?

di Francesco Lamendola - 09/11/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


   

Gli Americani, come è noto, hanno un’altissima opinione non soltanto di se stessi, ma del loro destino in quanto popolo: pensano, modestamente – da bravi discendenti dei Padri pellegrini – di essere venuti al mondo per instaurarvi il regno di Dio, nonché per crescere e moltiplicarsi, essendo il nuovo popolo eletto (anche al prezzo del genocidio di qualche milione di Amerindi, legittimi abitatori della terra di cui si sono impadroniti).

La Rivoluzione americana, d’altra parte, nasce da una centrale massonica e mira allo stabilimento sulla terra di una religione molto speciale: quella del Grande Architetto delle logge, di cui il protestantesimo non è che la facciata, buona per catturare l’adesione della gente semplice (cfr. il nostro articolo: «L’ombra della Massoneria dietro la nascita degli Stati Uniti d’America», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 09/02/2009).

Una volta stabiliti come nazione indipendente, gli Statunitensi non si accontentano di coltivare il proprio “destino manifesto”, ossia di sterminare gli Indiani e di espandersi, ai danni della Francia (Louisiana), della Spagna (Florida), del Messico (Texas e territori del Sud-ovest), della Gran Bretagna (Oregon) e della Russia (Alaska), arrivando fino al Pacifico: vogliono esportare in tutto il mondo il loro modello, la democrazia e il libro mercato. Cosa che seguitano a fare ancora oggi, con tutti i mezzi a loro disposizione, senza disdegnare l’uso della forza.

Vi è una certa contraddizione fra il concetto di “popolo eletto”, quale essi si sentono, e quello di “popolo guida” a livello mondiale, quale si sentono in egual misura: perché è evidente che lo stesso popolo non può essere “speciale” fra tutti gli altri, e, nello stesso tempo, porsi come modello da imitare per ciascun altro popolo: non tutti possono essere “speciali”, ovvero popoli eletti; sarebbe una contraddizione in termini. Nondimeno la contraddizione esiste e si è propagata nel tempo: anche oggi, basta leggere i discorsi del presidente Obama alle nazioni dell’Africa: ma è evidente che, se quelle nazioni davvero riuscissero a raggiungere il livello di stabilità politica e di benessere economico, propri degli Stati Uniti, allora questi ultimi si troverebbero a dover ripensare e rinegoziare il proprio ruolo di unica super-potenza mondiale, accettare una generale ridistribuzione delle risorse del pianeta e il drastico abbassamento del loro tenore di vita, che inevitabilmente ne discenderebbe. Cosa, per loro, francamente impensabile.

Comunque, contraddizione o no, gli Statunitensi non si accontentarono di essere stati eletti da Dio a dominare sugli immensi territori americani posti fra l’Atlantico e il Pacifico, togliendoli a quei popoli che non ne erano degni: i selvaggi Pellerossa e i “pigri” Messicani; ciò che volevano era esportare nel mondo il loro modello ideologico, ovvero le loro dottrine deiste, massoniche e democratico-imperialiste; e, per farlo, avevano bisogno di una rinnovata spinta ideale, dopo che la spinta iniziale si era un po’ smorzata con il raggiungimento del primo obiettivo, ossia l’indipendenza dalla madrepatria inglese.

Poco importa che, al crimine del genocidio dei Pellerossa, si aggiungesse il perdurante crimine dello schiavismo: gli intellettuali americani si sentivano portatori di una civiltà nuova, giovane, fresca, vergine, generosa e disinteressata: tutto il contrario della decrepita, reazionaria, stanca e ottusa civiltà europea, irrimediabilmente avviata verso la decadenza e, per di più, moralmente discutibile, perché impregnata di materialismo e di meschino opportunismo. Si affermava, così, lo stereotipo dell’americano - e dell’americana: vedi il romanzo di Henry James, «Ritratto di Signora» - giovane, puro, ingenuo, moralmente nobile e pieno di fresche energie, contrapposto alla perfidia, all’ottusità, alla malizia della società europea, corrotta e corruttrice.

Che questo mito grossolano abbia avuto successo al di là di qualsiasi aspettativa, è testimoniato dalla stessa cultura europea: la quale, nel corso della prima metà del Novecento, altro non fa che introiettare questi triti luoghi comuni e si fa discepola degli scrittori americani, traducendoli, imitandoli, veicolando la loro visione del mondo, il loro “americanismo”: il che, ad esempio in Italia, durante gli anni ’20 e ’30 del XX secolo, verrà sentito e presentato al pubblico come un anelito di libertà e una forma di battaglia culturale “progressiva” e innovatrice, contro il provincialismo nostrano, appesantito ulteriormente dalle pretese autarchiche del fascismo.

Il trascendentalismo fu l’espressione di quel bisogno della cultura americana di raccogliersi e lanciarsi in avanti in una “seconda ondata”, in un “secondo sogno”: dopo aver lottato per l’indipendenza, si trattava ora di espandere e rivitalizzare il modello della Terra Promessa, le basi stesse del nuovo modo di sentire e di pensare americano, senza alcuna soggezione nei confronti dell’Europa, anzi, polemizzando con la tradizione che essa rappresentava, pur senza mancare di prendere a prestito da essa – per esempio, dalla filosofia tedesca – gran parte del proprio bagaglio culturale. Logico, del resto: dove altro prenderlo, da parte di una nazione appena nata e praticamente priva di radici e di modelli di riferimento?

Il trascendentalismo, inoltre, ebbe la ventura di intercettare la spinta, di per sé innovatrice, del Romanticismo (altro movimento culturale di matrice europea e non certo americana): fece proprio gran parte del suo armamentario ideologico, e specialmente la tensione mistica e il profondo senso della natura; ed ecco, si trovò fra le mani gran parte di ciò di cui aveva bisogno per slanciarsi all’assalto del “secondo sogno”, consolidando le basi della identità culturale americana e, nello stesso tempo, iniziando a porsi quale modello di esportazione.

Non che vi fossero, in esso, dei contenuti filosofici profondi: come ebbe a dire lo stesso Herman Melville del suo massimo esponente, Ralph Waldo Emerson, era questi un “pesce d’acque basse”: e così è tutto quanto il pensiero di questo movimento, fatto di trascendentalismo kantiano, di naturalismo e vitalismo vagamente misticheggianti, di rivendicazione del primato individuale sulla società - fino ad un liberalismo estremo che, in Henry David Thoreau, sfiora l’anarchismo -, di panismo e panteismo più o meno ammantati di veli poetici (come sarà in Walt Whitman). L’esponente più serio e più profondo del movimento, Nathaniel Hawthorne, si trova in mezzo agli altri suppergiù come un masso erratico: spaesato e isolato; stessa cosa per un altro epigono, il già citato Melville, che fa storia a sé e per questo è ricordato come un grandissimo scrittore. Ma in tutti c’è come un’ansia di redenzione, che nei più superficiali (Emerson, Thoreau, Whitman) si sfoga in declamazioni pseudo-mistiche e in forme di ingenua venerazione della natura, nei più pensosi (Hawthorne e Melville) rimane irrisolto, proprio perché diretto verso le altezze più ardue e perché più consapevole della gravità della frattura operatasi nella coscienza dell’uomo moderno, rappresentato proprio dal tipo dell’homo americanus.

Quanto all’altro grande scrittore dei primi decenni dell’800, Edgar Allan Poe, egli è del tutto estraneo al movimento e ne viene anzi attaccato. Logico: nell’arte e nel pensiero di Poe vi è una robusta componente romantica, perfino pre-decadentista (una sorta di culto dell’arte per l’arte), ma vi è anche una consapevolezza del male di vivere, specialmente di quello americano, che gli rendono impossibile unirsi al coro ingenuo di lodi al “secondo sogno”, che caratterizza molti dei più tipici esponenti del trascendentalismo. In altre parole, Poe sente l’uomo americano come troppo vecchio, proprio perché rappresentante di una civiltà “nuova”, che però nasce vecchia, con una specie di maledizione congenita. Condivide con i trascendentalisti la diffidenza o il rifiuto di un conoscere puramente razionale, sente vivamente l’aspetto misterioso e inquietante del reale: sente i rintocchi funebri là dove gli altri sentono le campane a festa, è incline ad un pessimismo allucinato e misantropico, o, a volte, a un freddo e disumano humour che mal dissimula la sua disperazione esistenziale e che si innesta, senza fondersi, con un fondo lirico e quasi stilnovistico, specie nel vagheggiamento della soave presenza femminile (cfr. il nostro precedente articoli: «Edgar Allan Poe, non solo scrittore ma critico lucido e spietato della modernità» e «E. A. Poe, scopritore di una nuova malattia dello spirito: la modernità, pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente il 26/02/2012 ed il 29/11/2012). I trascendentalisti si sentono moderni, Poe no: è questa la vera barriera che li divide, irrevocabilmente.

Scriveva, dunque, con molto candore – o con molta faccia tosta – la psicologa umanista Marilyn Ferguson, dell’Università del Colorado, nel suo libro «La cospirazione dell’Acquario» (titolo originale: «The Aquarian Conspiracy», 1980; traduzione dall’americano di Lidia Perria, Milano, Marco Tropea Editore, 1999, pp. 144-146):

 

«Nella prima metà dell’Ottocento, i trascendentalisti americano riportarono alla ribalta il secondo sogno, infondendovi nuovo vigore.[ …] Essi respingevano l’autorità tradizionale a favore di un’autorità interiore. Il termine che adottarono per indicare l’autonomia era “autodecisione”. Il trascendentalismo sembrava loro una logica estensione della rivoluzione americana: una liberazione spirituale come controparte delle libertà garantite dalla Costituzione degli Stati Uniti.

L’autonomia dell’individuo era più importante per loro della fedeltà nei confronti di qualsiasi governo. Se la coscienza non era in accordo con la legge, secondo Thoreau, s’imponeva necessariamente la disobbedienza civile.

In teoria, con le loro idee nuove, i trascendentalisti minacciavano l’ordine costituito, ma la novità non consisteva nelle idee, bensì nella prospettiva di applicarle alla società. Nel loro eclettismo, avevano attinto a piene mani non solo dalle tradizioni quacchere e puritane, ma anche dai filosofi tedeschi e greci e dalle religioni orientali. Quando erano accusati di nutrire disprezzo per la storia, replicavano che soltanto la storia poteva salvare l’umanità.

Sfidavano i presupposti del loro tempo in tutti i settori: religione, filosofia, scienza, economia, arti, istruzione e politica, anticipando molte correnti che sarebbero poi fiorite nel Novecento. Come il movimento per il potenziale umano degli anni sessanta, i trascendentalisti sostenevano che la maggior parte della gente non aveva neanche cominciato a sfruttare i propri poteri,  non aveva scoperto il proprio carattere unico né la propria creatività. “Basta che facciate quello che sapete fare“ diceva Emerson “e vi conoscerò”.

In seno al gruppo tolleravano dissensi e diversità di opinioni,  perché erano convinti che l’unanimità non fosse possibile né desiderabile. Sapevano bene che ciascuno vede il mondo attraverso i propri occhi e la propria prospettiva. In grande anticipo su Einstein, sostenevano che tutte le osservazioni sono relative. Cercavano compagni, non discepoli. L’appello di Emerson era: “Aprite le porte per coloro che vengono dopo di voi”.

Credevano che la mente e la materia fossero tutt’uno. In contrasto con le idee meccanicistiche dominanti di stampo newtoniano, consideravano l’universo organico aperto e in continua evoluzione. A loro avviso, era possibile scoprire forma e significato nel flusso universale solo a patto di fare appello all’intuizione, la “ragione trascendentale”. Oltre un secolo prima che la scienza neurologica confermasse che il cervello segue un procedimento olistico, i trascendentalisti descrivevano lampi, intuizioni e una sorta di conoscenza simultanea. Qualche generazione prima di Freud, riconobbero l’esistenza dell’inconscio: “Ci troviamo nel grembo di un’intelligenza immensa” scriveva Emerson.

Ciò non significa che respingessero la conoscenza di tipo intellettuale: erano convinti che ragione e intuizione fossero complementari e si arricchissero a vicenda. Utilizzando in modo funzionale entrambe le facoltà,  si poteva restare vigili e vivere “nell’oggi che ci avviluppa”. (Una volta Emerson disse: “Ogni giorno è il giorno del Giudizio finale”.)

La riforma interiore deve precedere la riforma sociale, secondo il credo dei trascendentalisti; eppure si ritrovavano impegnati in campagne per il suffragio universale, il pacifismo e l’abolizione della schiavitù. E si rivelarono innovatori anche sul piano sociale, creando una comunità cooperativa e un collettivo di artisti.

Per diffondere le loro idee a un pubblico più vasto, contribuirono al lancio del movimento Lyceum, viaggiando da un capo all’altro del paese, in una versione iniziale del cosiddetto “circuito delle conferenze”, per mettere alla prova le loro concezioni in una vasta gamma di ambienti. Il loro periodico, “The Dial”, edito da Margaret Fuller, e in seguito da Emerson (con l’aiuto di Thoreau), aveva un impatto ben superiore alla tiratura di ben mille copie, proprio come i trascendentalisti stessi esercitavano un’influenza del tutto sproporzionata rispetto al loro esiguo numero.

Prima dello scoppio della guerra civile, il trascendentalismo aveva raggiunto le proporzioni di un movimento nazionale di carattere spontaneo. Evidentemente molti americani erano attirati da una filosofia che poneva l’accento su una ricerca interiore sul senso della vita. Anche se il movimento trascendentalista è stato sopraffatto dal materialismo alla fine dell’Ottocento, sotto vari aspetti è entrato nell’alveo della filosofia universale, , ispirando giganti letterari come Whitman e Melville e andando a rinvigorire generazioni intere di riformatori sociali.»

 

Il trascendentalismo, dunque, ha avuto il merito di portare alla riflessione del pubblico americano la domanda sul senso della vita; ma ha avuto anche il limite di presentare una sorta di risposta preconfezionata: il senso della vita è nella vita stessa, nella natura, nella storia, nella fiducia nel domani, nella fede nel grande destino dell’America: un po’ di idealismo tedesco, Fichte, Hegel, più un po’ di filosofia greca, più qualche spruzzata di misticismo orientale e perfino di taoismo, non più di quanto se ne possa trovare nei moderni movimenti di matrice New Age o magari nei corsi di “filosofia” Yoga, Zen, e chissà che altro, che si tengono nelle palestre occidentali a margine delle lezioni di ginnastica e di “fitness”.

Insomma, un bel minestrone, pressoché indigeribile, ma buono per una cultura ancora infante, già divorata, tuttavia, da ambizioni più grandi di lei: quella di fornire agli Stati Uniti delle solide patenti di nobiltà “naturale” (in mancanza di quelle storiche), e quella di porsi alla testa di una specie di movimento per l’espansione della coscienza a livello mondiale; di un “sogno” consistente nella reazione antirazionalista e nella riscoperta dell’immediatezza coscienziale, del ”qui e ora”; nella lezione romantica, di Keats specialmente, sul valor eterno e trasfigurante della bellezza (cfr., a quest’ultimo proposito, il nostro articolo: «John Keats: quando un poeta s’improvvisa maestro di vita, ma pessimo maestro», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 07/05/2015). Il che ci riconduce al punto da cui eravamo partiti: il sottinteso anticristiano del trascendentalismo, così come, in generale, dell’americanismo.

Un “nuovo” sogno, infatti, ha bisogno di proiettarsi verso la modernità, libero dal peso di qualsiasi tradizione: e la tradizione dell’Occidente è il cristianesimo. Emerson, per esempio, il “maestro” del movimento, era figlio di un ministro della Chiesa unitaria (cioè antitrinitaria: e che razza di cristianesimo è quello che nega la Trinità?) e ministro egli stesso di tale Chiesa; ma poi ne esce, si spreta, la ripudia con parole sferzanti, degne di un arrabbiato anticristiano: si rifiuta, dice, di adorare i cadaveri degli antenati e di praticare riti assurdi, come la Comunione, quando ci sono tante questioni attuali che richiedono il nostro interesse e la nostra attiva partecipazione.  Come stupirsi, allora, che, dietro il naturalismo, il vitalismo, il misticismo e l’estetismo dei trascendentalisti, vi sia, più o meno latente, più o meno cosciente, una tendenza di segno anticristiano, se non addirittura un progetto ben chiaro e consapevole, volto a completare l’opera massonica della Rivoluzione americana: la distruzione della visione cristiana della vita?