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Il movimento cluniacense donò alla Chiesa e all’Europa una seconda giovinezza

di Francesco Lamendola - 09/11/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

La riforma cluniacense e il movimento che ne scaturì, fra X e XI secolo, ossia nel momento della massima frammentazione politica dell’Europa, seguita alla disgregazione dell’Impero carolingio, diede alla Chiesa e alla società europea gli strumenti spirituali per rigenerarsi e per vivere una seconda giovinezza: tale fu il suo significato più profondo.

Il vasto moto religioso che si irradiò dall’abbazia di Cluny, in Borgogna, a partire dalla seconda metà del 900, e si diffuse a macchia d’olio in tutto il continente, suscitando o ridestando immense forze morali, ebbe un significato assai più grande che un “semplice” ritorno alla Regola benedettina o una “semplice” riforma moralizzatrice in seno alla Chiesa, divenuta sempre più corrotta, mondana e simoniaca: fu una vera e propria rifondazione delle radici stesse della spiritualità benedettina, anzi, di più, quasi un ritorno alla spiritualità dei Padri del deserto, degli anacoreti; di certo, un recupero della netta separazione fra Chiesa e mondo, ed una opzione radicale per la prima, vista come il tramite indispensabile alla salvezza dell’anima.

A Cluny, insomma, si gettarono i dadi per i successivi quattro o cinque secoli: in un certo senso, la Chiesa visse delle energie spirituali accumulate dalla riforma cluniacense, le spese, le dissipò, e, al principio del XVI secolo, si trovò di fronte, per la seconda volta, al proprio logoramento interno, alla perdita della spinta morale che l’aveva sostenuta; e allora, tardando troppo ad auto-riformarsi (nonostante le numerose, ma inascoltate, grida d’allarme), Lutero prima, Zwingli e Clavino poi, si inserirono nella breccia e scardinarono dall’interno la sua unità. Eppure la Chiesa cattolica sarebbe riuscita a superare anche quella terribile prova, e, di nuovo, grazie al tempestivo affermarsi di una nuova fonte di energia spirituale: quella sprigionata dal nuovo ordine fondato da Ignazio di Loyola, i Gesuiti. Senza di loro, forse la Chiesa non avrebbe superato la prova e si sarebbe sfasciata, oppure avrebbe trascinato una lenta agonia, spegnendosi a poco a poco: grazie ai Gesuiti, fu addirittura in grado, dopo aver serrato le file e medicato le ferite più gravi, di riprendere l’iniziativa.

Oltre a tutto questo, Cluny ebbe anche un altro significato: lo svincolarsi delle abbazie dall’autorità dei vescovi, troppo spesso mondanizzati e compromessi col potere politico. Senza il movimento della riforma cluniacense, ben difficilmente Gregorio VII avrebbe potuto lanciare all’imperatore Enrico IV il guanto della sfida sulla questione delle investiture, e, attraverso la nomina dei vescovi-conti, la Chiesa sarebbe ritornata – o, per meglio dire, sarebbe rimasta – sottomessa all’autorità del potere temporale, e avrebbe definitivamente smarrito la propria missione. I monaci di Cluny svolsero, dunque, l’immensa opera di riportare la Chiesa a se stessa, alla propria ragion d’essere e alla propria vocazione originaria: che non era di compromissione con il mondo, ma di alternativa al mondo. Ponendo, di fatto, l’autorità e il prestigio delle abbazie al di fuori, e, non di rado, al di sopra di quelle delle diocesi, i monaci cluniacensi riportarono la cristianità nel clima, fervente e carico di tensione verso il soprannaturale, che aveva caratterizzato l’espansione missionaria verso la Germania, verso i Paesi slavi e verso le Isole britanniche, nei secoli oscuri che vanno dalla caduta dell’Impero Romano di Occidente alla fondazione dell’Impero carolingio. Furono loro a indicare nuovamente agli uomini la via del Cielo, della vita perfetta, del pellegrinaggio verso la realtà eterna, con lo stesso fervore e con la stessa che aveva spinto i monaci irlandesi ad alzare le vele persino verso le terre brumose e semi-leggendarie dei mari artici, per evangelizzarle, avendo ormai raggiunto gli estremi confini del continente nella diffusione della Buona novella di Cristo.

Ha scritto il grande storico Henry Pirenne nella «Storia d'Europa dalle invasioni barbariche al XVI secolo» (titolo originale: «Histoire de l'Europe des invasions au XVIe siècle»; traduzione dal francese di Cristiana Maria Carbone, Roma, Newton & Compton Editori, 1991, pp. 133-137):

 

«Il feudalesimo, diffondendosi e distruggendo lo stato, ebbe ripercussioni anche sulla Chiesa. In Francia, in Lotaringia,in Italia, la situazione dei vescovi è pressappoco la stessa di quella del papa a Roma. Devono difendersi contro i feudatari dei dintorni, oppure vengono imposti al clero da quegli stessi feudatari, cacciati se non piacciono al partito più forte, assassinato, talvolta, se lo sfidano troppo apertamente. Il papa non può niente per loro [...].

A differenza di ciò che accadde per lo Stato, il male della Chiesa non è che in superficie. Essa accusa il contraccolpo del'espansione feudale, ma poiché la sua organizzazione è al di fuori della società politica, non può esserne intaccata. [...]

L'influenza delle abbazie aumenta perché molte chiese sono di loro proprietà o dipendono da esse e hanno monaci per cappellani. L'ideale che si coltiva della santità, è 'ideale monastico: la rinuncia al secolo per salvare l'anima, a esclusione di qualsiasi attività sociale, e di qualsiasi altra virtù che non siano la rinuncia, l'umiltà e la castità. Da qui sarebbe venuto il rinnovamento della Chiesa, non dai vescovi, fossero essi semi-feudatari come in Francia, o fedeli alla tradizione carolingia come in Germania.Il loro sapere non ha alcun effetto su questo pubblico incolto, che ha bisogno di santi e di taumaturghi. In questo senso il feudalesimo, al pari del popolo, pensa che i vescovi siano suoi avversari. Saccheggia i monasteri, ma li rispetta, e, sul letto di more, i principi che li hanno maggiormente depredati, fanno cospicue donazioni. Tutti venerano la santità e deplorano il disordine in cui sono caduti i monasteri, pur essendone loro la causa. [...]

Credo si possa dire che con Cluny, il monachesimo lascia per secoli la sua impronta sul cristianesimo occidentale. Senza dubbio, già prima di allora i monaci hanno avuto un ruolo notevole, soprattutto con la conversione dell'Inghilterra. Ma il clero secolare è più importante. : è attraverso di esso che si realizza l'alleanza tra la Chiesa e lo Stato. All'epoca carolingia, i vescovi sono per metà funzionari regi; in Germani,a diventano principi. Ora, è proprio questo che condannano i Cluniacensi.  Per loro, il secolo è l'anticamera dell'eternità.  Tutto deve essere sacrificato ai fini ultraterreni.  La salvezza dell'anima è tutto, e non può realizzarsi che attraverso la Chiesa, la quale per adempiere alla propria missione, non deve assolutamente venire contaminata dall'ingerenza temporale. Qui non si tratta più dell'alleanza tra Chiesa e Stato, ma della subordinazione totale dell'uomo e della società alla Chiesa, intermediaria tra lo Stato e Dio, nell'ambito spirituale. Occorre dunque considerare colpevole di simonia chiunque assecondi  l'ingerenza del potere laico nelle questioni religiose.  Il prete appartiene soltanto alla Chiesa. Non deve più avere un signore, non deve più avere una famiglia. Il matrimonio dei preti, tollerato di fato, è un abominio che deve scomparire.  Spiritualizzazione completa della Chiesa, osservazione assoluta del diritto canonico,, ecco, se non il programma vero e proprio, almeno la tendenza di Cluny. Nell'ambito della devozione, l'ascetismo; nell'ambito politico, la piena libertà della Chiesa, la rottura dei vincoli che la tengono legata ala società civile. In questo senso, Cluny si può dire anti-carolingio. Ma è papista, perché è evidente che la Chiesa, per essere indipendente, deve unirsi sotto il suo capo, che è a Roma. 

Queste conseguenze politiche, implicite nella riforma, non si sono manifestate immediatamente. Fin dal principio, i è visto in Cluny solo un rinnovamento della vita ascetica e da ogni parte, principi e vescovi gli hanno chiesto monaci  per rinnovare le abazie delle loro terre. [...] E dovunque si introduce, la devozione aumenta, una devozione esteriore, che consiste prima di tutto nel piegarsi al culto, nel rispettarne le feste, nel rimettersi in tutto e per tutto alla Chiesa, sposa di Cristo, sua rappresentante in terra, sorgente mistica di grazia e di salvezza. Aumenta il numero di cavalieri che entrano in religione, dei principi che muoiono indossando l'abito da monaco; le fondazioni di monasteri nuovi si moltiplicano. Dal X all'XI secolo ne sorgono in quantità. La Chiesa si presenta decisamente come un'istituzione sovrumana.  Si vive nel sublime. I miracoli sono all'ordine del giorno.  [...] La pace di Dio, che interrompe le guerre private in occasione delle grandi festività annuali, è una delle conseguenze di questa azione straordinaria della Chiesa.  [...]

Tutto questo movimento si è sviluppato al di fuori di Roma e del papato. Ma doveva necessariamente arrivare fino a loro e restituire d'un tratto al successore di Pietro degradato in mezzo agli intrighi feudali e ai conflitti dipartito, protetto dall'imperatore e impotente nelle sue mani il governo di questa forza immensa che lavorava per lui e aspettava il momento di agire sotto il suo comando.»

 

Il movimento cluniacense, dunque, non è stato solamente un movimento monastico; è stato molto di più: un movimento di riforma complessiva della vita religiosa, spirituale, intellettuale, morale, della Chiesa e dell’intera cristianità, i cui effetti si prolungarono lungo un arco di tempo di almeno tre secoli, se non di più. Non si possono capire l’immenso moltiplicarsi delle vocazioni monastiche, maschili e femminili, né la prodigiosa fioritura delle cattedrali, romaniche dapprima, gotiche poi; e neppure la spinta evangelizzatrice che permise alla Chiesa di convertire, e trasformare in nuovi bastioni della difesa europea, i popoli e i regni del Settentrione e dell’Oriente: Danesi, Norvegesi, Svedesi, da un lato, Polacchi, Russi, Bulgari, e infine gli stessi, temutissimi Ungari, dall’altro; non si possono capire né i successivi ordini mendicanti, francescani e domenicani, né il sorgere e il diffondersi della poesia religiosa, e nemmeno la «Divina Commedia» o la pittura di Cimabue, Giotto e Duccio di Buoninsegna, o la scultura di Arnolfo di Cambio, di Nicola e Giovanni Pisano, se non si tiene a mente quanto profonda e incisiva fu la riforma cluniacense e quanto essa fu suscitatrice di rinnovate energie morali e spirituali.

Non solo: essa rivendicò il primato della Chiesa spirituale sulla Chiesa mondana, delle abbazie sui vescovadi, dei monaci sui preti diocesani. Nel momento storico in cui si era verificata la massima confusione tra le due sfere, quella religiosa e quella politica, confusione tipica della crisi del sistema feudale, la riforma cluniacense ristabilì fermamente il prestigio e il primato dello spirituale, e, con ciò, l’idea che la cosa più importante, per il cristiano, e anche per la società cristiana nel suo insieme, è la salvezza dell’anima: dunque, l’affidarsi completamene alla Chiesa, il frequentare la messa, il pregare, il fare penitenza. Insomma la vita monastica divenne non solo una parte rispettata e ammirata della società, ma ne divenne il modello supremo: tutti, anche i signori più potenti, anche i borghesi più ricchi, si sentivano piccoli di fronte alla maestà della vita conventuale, e tutti deponevano l’abituale orgoglio, se non in vita, al momento della morte, lasciando per testamento delle immense eredità proprio ai conventi cluniacensi. I quali resistettero alla terribile tentazione rappresentata da quella massiccia e inusuale disponibilità di ricchezze, non si lasciarono tentare e rivolsero ogni sforzo per rimettere la vita della Chiesa sulla carreggiata della più austera e rigorosa spiritualità.

Non  si può non fare qualche seria riflessione in chiave di attualità davanti ad un fenomeno storico di tale ampiezza. Anche se sarebbe improprio spingere troppo in là il paragone con la società europea odierna, la quale si è quasi completamente laicizzata e, da tre secoli, si trova sotto l’influsso di una cultura dominante implicitamente o esplicitamente irreligiosa e anticristiana, resta il fatto che la Chiesa odierna ha scelto, per affrontare la crisi radicale che la investe, la via opposta a quella della riforma cluniacense: vale a dire una più intensa partecipazione ai problemi del mondo, della vita sociale, della sfera “politica”, quasi per mostrarsi più zelante delle pubbliche autorità e per rimarcare il proprio impegno, la propria vocazione ai grandi temi della giustizia, della pace, dell’ambiente e perfino dei diritti della persona, veri o presunti. Ha scelto di radicarsi sempre più nel territorio, ma in forme sempre più secolarizzate: con un clero diocesano che, a partire dai vescovi, sembra prendere più a cuore le questioni relative alla dimensione terrena, che il senso della relazione con Dio. I teologi progressisti hanno chiamato tutto ciò “svolta antropologica”: di fatto, hanno quasi smesso di parlare del peccato (compreso il Peccato originale), del bene e del male, dell’anima, della vita ultraterrena, e di tutte le virtù che favoriscono la vita buona e l’incontro con Dio: la sobrietà, l’umiltà, l’obbedienza, la mansuetudine, il fiducioso abbandono al Padre. La messa tende a trasformarsi in un rito civile, laico, quasi profano, con chitarre e burattini: ma Dio, dov’è?