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L’estinzione della buona tavola: bande di inappetenti all’arrembaggio

di Fiorenza Licitra - 16/11/2015

Fonte: Il Ribelle


Il divampare della polemica sulla nocività della carne – trattata o meno – è solo la punta d’iceberg del “vivere politicamente corretto”, i cui dettami stanno ammorbando ogni versante dello scibile umano. Il ventre della nostra cultura, la gastronomia, non fa eccezione. Così, a destra e a manca, si va diffondendo una sorta di “crociata in tavola”, che fa razzia delle beatitudini tutte: fritti e soffritti, pane e pasta, pesce e uova, carne e formaggi, dolci e alcolici. 

Persino la Chiesa, un tempo, aveva trovato il modo di raggirare certi veti, approvando il consumo delle folaghe nei giorni di magro: erano, sì, uccelli, ma, bazzicando sulle acque aperte, potevano benissimo essere considerate alla stregua di “pesci volanti”. Più che un di peccato di gola, si trattò di una finezza per rendere onore alle creature. 

Lo smantellamento della tradizione culinaria non è affatto iniziato con i vegani, i fruttariani, i sedicenti brethariani o i seguaci della paleodieta – queste bande di inappetenti sembrano esserlo più per sazietà che per fini spirituali – ma è cominciata la volta in cui un signore, o più verosimilmente una signora, pretese che nel suo piatto non vi fosse presenza alcuna né di aglio né di cipolla a guastarle il fiato. Ecco com’è stato servito l’inizio della fine.

La voce, da quella famigerata volta, deve essersi diffusa a dismisura, perché tutti, o quasi tutti – fatta debita eccezione per le massaie, i veterani e i buongustai – cominciarono a domandare con una certa imperiosità non un piatto combinato a regola d’arte, bensì un alito immacolato. A loro avviso, andava salvaguardata a ogni costo la socialità orale, la quale probabilmente era già abbastanza “gracile”. 

Da lì in avanti, i dettati da trasmettere nelle cucine presero sempre più piede tra gli avventori che, ormai spavaldi in fatto di ordinazioni e pure di fornelli, sconsigliavano vivamente l’abbraccio del lardo nell’arrosto, l’ubriachezza della carne nel brasato, la grassa cotenna nella pasta e fagioli e persino la frittura di strutto per le patatine. Evidentemente, in loro era avvenuta una netta evoluzione: la socialità passava non più solo dalla bocca, ma anche dalla cinta.

Si sa che, ontologicamente, l’uomo protende all’infinito e che, una volta appagato per il traguardo appena raggiunto, immediato se ne prefigge un altro. Così è stato anche per i nostri avventori che, dopo avere depennato la sostanza dai piatti e, ahinoi, dai calici – profumi, grassi, interiora e intuizioni varie – hanno puntato sulla forma, ovvero sulla quantità da servire in tavola. Hanno così preteso che le porzioni non fossero più da camionista belga e che le portate, mai più molteplici e variegate, fossero al massimo due: un antipasto, possibilmente da dividere, e un secondo, sì, ma appena accennato. 

Tanta evoluzione, con l’andare dei tempi, si è stretta sempre più a braccetto con la produttività; subito dopo il pasto, infatti, costoro, anziché accompagnarsi a una grappa barricata e sfaccendare in poltrona tra le foschie di un sigaro e le pieghe di un libro, continuano il tran tran come se a quella tavola nulla fosse mai accaduto: a seconda degli orari, vanno a ballare, fanno sport o semplicemente seguitano a lavorare. Chi si ferma, pare proprio perduto.

A discolpa dei nostri detrattori, è però vero che, dalle fila delle cucine del secolo scorso, anziché far partire feroci improperi contro chi avesse osato mettere il naso dove non gli competeva e far valere l’antico detto “chi non mangia, ha già mangiato o mangerà”, si è preferito conservare caro il cliente e anche il commercio, dando udienza e ragione agli esattori del gusto. 

Con il progredire della socialità – strano, ma vero – è venuta a mancare la convivialità: la tavola non è più quel luogo d’appuntamento tra stomaci forti e spiriti affini, per i quali – parafrasando l’Artusi – una disquisizione sul cucinare l’anguilla valeva tanto quanto una dissertazione sul sorriso di Beatrice; oggi, piuttosto, il mangiare è diventato un obbligo da espletare il più in fretta possibile, non soltanto per quanto concerne la preparazione e il consumo, ma anche per l’oralità, che, scarna e altamente digeribile, non lascia traccia di sé. 

Quasi fossimo precipitati di millenni indietro nel tempo, il cibo si è ridotto a essere una questione di primitiva sopravvivenza, di nutrimento fine a se stesso. A dimostrazione dell’involuzione storica che sta avvenendo sulle nostre tavole, basta pensare all’invasione nel mercato gastronomico di cavallette e bestiucole simili.

Lo scotto, a suon di vuoti di memoria, lo pagheranno quei figli e quei nipoti che, una volta adulti, non verranno colti da alcun soprassalto proustiano: l’odore dell’aglio – che da quando casa è casa, ha procurato convivialità, confidenza e buon sangue – farà loro solo storcere il naso, avvezzi come sono alle mamme troppo indaffarate, che si limitano a cacciare sbrigativamente nel forno a microonde gli impersonalissimi “Quattro salti in padella” della Findus. A questi mancati gourmet non resterà che adeguarsi ai sulfurei modelli delle “pubblicità progresso” e ai loro suggerimenti… non escluso il “fidanzamento del figlio Luca con Gianni”.