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Hans Küng: cattivo teologo e seminatore di confusione

di Francesco Lamendola - 16/11/2015

Fonte: Il Corriere delle Regioni


 

 


 

A partire dal Concilio Vaticano II (a partire da esso e non a causa di esso) la dottrina cristiana è stata infiltrata da una mala razza di pseudo teologi “progressisti”, “ecumenici” e “modernisti”, i quali, oltre ad aver seminato confusione, spacciando le loro discutibili elucubrazioni per moneta buona, ossia per ciò che un buon cattolico è tenuto a credere, hanno preparato il terreno ad una schiera di vescovi e preti di uguale tendenza, tutti contrassegnati dalla smania di far vedere che sono tanto aperti, dialoganti e pluralisti, quanto può esserlo il laicista e l’ateista più sfegatato: dimenticandosi che il dialogo si costruisce a partire dalla coscienza della propria identità, e non dalla confusione e dall’assunzione delle identità altrui.

Uno di questi seminatori di confusione e di questi cattivi teologi, che si sono permessi di manipolare e manomettere la dottrina cattolica, autoproclamandosi i suoi “veri” e legittimi interpreti, è stato, senza dubbio, lo svizzero Hans Küng, classe 1928, presbitero che raramente si mostra in abito sacerdotale, nonché scrittore prolifico, il quale, benché sospeso dall’insegnamento della teologia cattolica fin dal 1979, ha continuato imperterrito a tenere conferenze, rilasciare interviste e sfornare un libro dopo l’altro, spesso raccogliendo i testi delle proprie lezioni e portando avanti una specie di battaglia per “svecchiare”, “modernizzare” e “aprire” la Chiesa e la comunità cristiana al dialogo interreligioso e per “sensibilizzarle” sui problemi etici, a cominciare da quello dell’eutanasia, pratica che lui, in determinati casi, ammette (si veda, in proposito, il suo libro significativamente intitolato «Sulla dignità del morire»). A tale scopo ha anche creato la Fondazione Weltethos (etica mondiale), il cui documento-base è stato approvato e adottato niente meno che dal Consiglio per il Parlamento delle religioni del mondo, a Chicago, nel 1993.

Hans Küng, che non si è trattenuto dal levare alte strida per essere stato allontanato dall’insegnamento della teologia negli istituti cattolici, paragonandosi ai martiri della Santa Inquisizione e puntando il dito contro i papi “reazionari”, come Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI, responsabili, a suo dire, del conservatorismo, della chiusura e dell’involuzione  della Chiesa cattolica, si è speso parecchio per diffondere i suoi punti di vista su numerosi argomenti, non solo di ordine etico, ma anche morale, sociale, civile, scientifico (sostenendo, ovviamente, che il cattolicesimo deve mettersi al passo con i progressi della scienza moderna, essendo ancora troppo restio a farlo), e sforzandosi costantemente di piegare il senso del Vangelo alla sua particolare sensibilità di teologo “moderno”, dunque particolarmente attento alle questioni della libertà, dei diritti, del potere ingiusto che dev’essere combattuto, dell’eurocentrismo che dev’essere superato, dell’esclusivismo che dev’essere abbandonato, senza mai stancarsi di denunciare le resistenze, le chiusure, le intolleranze, vere o presunte, che si annidano nella Chiesa e specialmente nella Curia e nelle alte gerarchie.

Oltre ad essere un interprete alquanto soggettivo e discutibile del messaggio evangelico, è anche un pensatore pochissimo originale: in fondo, non fa altro che ripetere quello che moltissimi cattolici progressisti e modernisti, specialmente di area tedesca, svizzera e olandese, sostengono da parecchi anni, e lo fa, oltretutto, in maniera involuta e quanto mai ambigua (questo, però, deriva forse da una strategia difensiva, per evitare censure troppo esplicite): come tutti costoro, egli guarda con ammirazione e con un mal dissimulato complesso di inferiorità alle Chiesa protestanti, e pensa che la Chiesa cattolica sarà assai migliore quando avrà imparato da esse, sia a livello dottrinario, sia a livello organizzativo. Non è certo un caso che nelle migliaia di pagine dei suoi libri, non si parli mai della Madonna o dei santi e non si affermi volentieri il dogma dell’infallibilità pontificia. Tutto questo, evidentemente, per lui è troppo cattolico: pertanto, o che non ci creda, o che non voglia offendere la sensibilità altrui, in nome di un ecumenismo che appiattisce e distrugge le identità e le differenze, di fatto egli pensa, parla e scrive come un teologo protestante, come un discepolo di Bultmann o di Tillich; non sembra affatto un teologo cattolico (e poi si meraviglia e si lamenta di essere stato sospeso dall’insegnamento; ma è la tipica strategia modernista: restare dentro la Chiesa per demolirne la Tradizione dall’interno); anzi, per dirla tutta, non sembra proprio un teologo, e solo con molta fatica si può immaginare che sia un cristiano.

Prendiamo il caso di uno dei suoi libri più famosi: «Vita eterna?», uscito a Monaco nel 1982: proprio così, con il punto interrogativo; che è stato preceduto da «Dio esiste? Risposta al problema di Dio nell’età moderna», del 1978, e seguito, fra gli altri, dall’ancora più eloquente «Contro il tradimento del Concilio. Dove va la Chiesa cattolica», del 1987 (stavolta il punto interrogativo cede il posto a una recisa affermazione, che qualifica di “traditori” quanti si oppongono, non al Concilio, ma alla sua personale interpretazione del Concilio Vaticano II).

In quel libro vi è, fra gli altri, un capitolo significativamente intitolato: «Difficoltà con la Resurrezione di Gesù». Dopo aver esaminato la questione ed essersi domandato se Gesù sia risorto veramente "con il corpo" e che cosa significhi l'espressione "vita eterna", Küng chiude il capitolo con un paragrafo riassuntivo, intitolato «La Resurrezione oggi». Anche questo titolo è significativo, perché, per duemila anni, nessun teologo si è mai sognato di chiedersi cosa voglia dire la Resurrezione di Cristo "oggi", vale a dire nella contemporaneità: tutti, sempre, hanno avuto piena consapevolezza che la Resurrezione è un fatto eterno, che trascende la storia e che non ha un particolare significato in questa o quella epoca storica, ma interpella l'uomo di ieri, di oggi e di domani, l'uomo di sempre: l'uomo in quanto uomo.

Ma tant'è: l'uomo moderno, come è noto, a un certo punto della storia ha detto: "io"; l’ha chiamata "rivoluzione scientifica", "rischiaramento delle tenebre", "svolta antropologica" e in tante altre maniere, ma sempre col medesimo significato. Per migliaia d'anni ci si è accontentati, come dice Kant, di credere quel che era stato detto dalle generazioni precedenti; l'uomo moderno, più evoluto e intelligente, ha deciso di fare altrimenti: di adoperare la propria ragione in maniera assolutamente libera e spregiudicata, senza alcun rispetto per la tradizione, e, soprattutto, senza riconoscere un limite al di sopra di essa: il suo limite è divenuto il Cielo. Dunque, è chiaro che l'uomo moderno, e specialmente l'uomo contemporaneo, non può porsi davanti alla Resurrezione con lo stesso atteggiamento dell'uomo pre-moderno; anche il credente non può accontentarsi della “semplice" fede: egli sa di essere un credente adulto ed emancipato, e storie per vecchiette o leggende edificanti non ne vuole più, si è stufato di una simile minestra. Vuole cose da uomo adulto, non fiabe; vuole credere da uomo libero ed emancipato, cioè con fede, sì, ma non una fede qualunque, non la fede dei padri, bensì con quel genere di fede che, sola, è compatibile con il mondo moderno: la fede razionale, esigente, "matura" e consapevole.

Ora, il paragrafo conclusivo di Küng si articola in tre momenti: nel primo (mezza pagina di testo) sostiene che la fede nella Resurrezione significa una radicalizzazione della fede in Cristo; nel secondo (una pagina e tre quarti) , che la Resurrezione significa una conferma della fede in Cristo; nel terzo (circa tre pagine) afferma che "Resurrezione" significa lotta di tutti i giorni contro la morte. Ed è qui che egli sembra concentrare la sua attenzione: la Resurrezione diventa, così, una specie di protesta contro la morte e, nello stesso tempo, una rivendicazione della vita autentica e secondo giustizia (ma la giustizia cui pensa va intesa in senso sociale ancor prima che morale): insomma, una protesta contro le “strutture ingiuste" che rendono la vita simile alla morte. Citando Bertolt Brecht, Küng rimprovera alla società di permettere molte forme d'ingiustizia e perfino di assassinio legale. Che cosa c'entri tutto questo con la Resurrezione di Cristo, non è proprio chiarissimo; par comunque di capire che il legame consista in una lettura "di sinistra" del Vangelo: la Resurrezione di Cristo è promessa e caparra dalla liberazione contro i mali del mondo. A quanto pare, si parla dei “mali” terreni, ai quali, evidentemente, bisogna porre rimedio: anche se Küng è abbastanza abile da porre in relazione l’ingiustizia terrena con l’ingiustizia morale e quindi con il “tradimento” del messaggio cristiano; comunque il risultato di tutto il suo ragionamento è, di fatto se non in linea di principio, che il “vero” cristiano, più che a cercare Dio e a testimoniare il suo amore, deve essere incessantemente impegnato a battersi per tutte le buone cause: della giustizia sociale, della pace, dell’ambientalismo, del dialogo interreligioso e specialmente con l’Islam (del quale si ritiene un esperto, avendo scritto un grossissimo volume su di esso): ma forse non si è chiesto se l’Islam è altrettanto interessato a dialogare con le altre religioni e specialmente con quella cristiana: ci piacerebbe sapere che ne pensa della distruzione dei Buddha di Bamian da parte dei talebani afghani, o di quella delle sculture assire da parte dell’I.S.I.S., o della cruenta e sistematica persecuzione delle comunità cristiane in Africa e in Asia).

Ci sembra opportuno, a questo punto, riportare la pagina conclusiva del ragionamento del'Autore, in modo che il lettore possa farsene un'idea più chiara (da: Hans Küng, «Vita eterna»; titolo originale: «Ewiges Leben?», Munchen, R. Piper & Co. Verlag, 1982; traduzione dal tedesco di Giovanni Moretto, Milano, Mondadori, 1983, pp. 155-156):

 

«Si comprende ora che cosa io intendessi, nelle osservazioni ermeneutiche preliminari a questo secondo blocco di lezioni, con l'espressione "verificazione indiretta" della fede nella resurrezione, con la CONOSCENZA, RAPPORTATA ALL'ESPERIENZA, DELLA VITA ETERNA: le nostre concretissime esperienze umane confrontare con e interpretate, illuminate mediante la speranza biblica nella resurrezione. La speranza nella resurrezione non riveste, quindi, una funzione consolatoria, ma piuttosto critico-liberatoria. [...] Ciò significa che la protesta contro la morte in virtù della speranza nella resurrezione è insieme una protesta contro una società, nella quale la morte senza questa speranza viene sfruttata per la conservazione di strutture ingiuste. Qui non vengono messe in questione la subordinazione e l'autorità in sé, ma il dominio e la schiavitù, ch si rivelano micidiali per entrambi per il signor come per il servo, per il padrone come per lo schiavo. La speranza nel risuscitamento, nella risurrezione dai morti, diventa qui la critica a una società segnata dalla more, nella quale i "signori" - grandi e piccoli, secolari ed ecclesiastici  possono sfruttare impunemente i loro servi, impunemente, perché essi  u questa terra, erigono se stessi ad autorità, norma e verità così che, per essi, in pratica, non c'è una superiore istanza di giustizia, una "superior auctoritas". la speranza nel risuscitamento, nella resurrezione, rivendica questa giustizia, diventando così un’inquietudine critico-liberatrice in mezzo agli uomini: essa destabilizza i rapporti di dominio, che qui e ora si ritengono definitivi,  e fa apparire ragionevoli i rapporti di vicendevole servizio, in cui viene esaltato" soltanto colui che si è "umiliato", in cui non soltanto l'inferiore deve servire al superiore, ma anche il superiore all'inferiore.

Il risuscitamento, la risurrezione ha un senso compiuto, oggi e ora, soltanto quando viene pensato nell'orizzonte del risuscitamento, della risurrezione domani e là. La tradizione cristiana conosce al riguardo due simboli, l'uno positivo e l'altro negativo: cielo e inferno.»

 

Ahimè, quando si va leggere il capitolo successivo, dedicato appunto al Cielo e all’Inferno, si scopre, ancora una volta, che il signor Küng gioca con le parole, si nasconde dietro formule ambigue, semina ovunque punti interrogativi; e l’unica cosa che si capisce è che egli non crede alla dottrina cattolica sull’Inferno, e specialmente alla sua eternità; mentre il Cielo è una speranza un po’ ingenua, non bisogna prendere troppo alla lettera la “vita eterna”, non bisogna immaginarsela come “una vita dopo la morte”; e bisogna ricordare che i primi cristiani, Cristo compreso, aspettavano la fine del mondo come imminente, ma sbagliavano. Noi moderni, che siamo più evoluti e intelligenti di loro, non crediamo più a queste fisime: l’aldilà lo vogliamo quaggiù, fin da ora; non ci interessa una “casa di luce” proiettata in un ipotetico altrove. E sia chiaro che Gesù non è “asceso al Cielo”, non ha fatto un volo spaziale. Del resto, perché meravigliarsi di fronte a simili, sconcertanti affermazioni, quando Küng confonde tranquillamente, come si è visto (anche se in un’altra parte del libro sembra consapevole della differenza) “risuscitamento” e “resurrezione”, due concetti diversissimi? Eppure, anche così si fa teologia, oggi: almeno da parte di certi cattolici progressisti…