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La democrazia del numero serve a disorganizzare i popoli e ridurli a «masse»

di Francesco Lamendola - 23/11/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

La democrazia moderna è la democrazia del numero, quantitativa e meccanica: logico, visto che la modernità stessa è figlia della rivoluzione scientifica del XVII secolo, che introduce una visione del reale di tipo, appunto, numerico (matematico, direbbe Galilei), quantitativo e meccanico; e che il pensiero politico moderno non è che l’estensione del principio scientista di Francis Bacon: «Sapere è potere».

Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che gli uomini e i popoli della civiltà moderna credono e s’illudono di essere divenuti protagonisti della storia, solo perché hanno sentito dire, fin dai banchi di scuola, che la democrazia è ”il governo del popolo”; ma la democrazia, ridotta a una serie di riti meccanici, culminanti nel rito supremo – e, in genere, supremamente ridicolo e insulso - delle elezioni politiche, basato sul principio (numerico e meccanico): un uomo, un voto, non è affatto il governo del popolo, semmai è il tradimento e l’asservimento del popolo, qualunque cosa voglia dire l’espressione “popolo”. In essa, infatti, la persona umana scompare, sopraffatta dal principio quantitativo, si riduce a numero; e la società si trasforma in una somma numerica: non in una organica fusione e armonizzazione di volontà, coscienti e intelligenti, ma in una sommatoria ragionieristica di voti, da cui escono partiti fasulli, leader fasulli, politiche truffaldine o demagogiche, o entrambe le cose insieme.

Il grande inganno risiede nella negazione delle disuguaglianze: nel fare finta che tutti gli esseri umani siano perfettamente equivalenti e intercambiabili in fatto d’intelligenza, cultura, saggezza, discernimento, disponibilità al pubblico servizio, onestà e disinteresse: il che equivale alla favoletta re li mostrano tutti i giorni, sacrificandoli sull’altare di una ideologia illuminista tanto velleitaria e falsamente buonista, quanto ipocrita e foriera di esiti catastrofici. Esiti perfettamente prevedibili, del resto: quando si dà torto ai fatti reali in nome delle idee, giuste o sbagliate che siano, il disastro è sicuro; è come mettere un bambino al volante di una potente automobile, lanciata sull’autostrada a duecento chilometri all’ora.

Gli esseri umani, infatti, non sono per niente equivalenti e intercambiabili: si tratta di una verità talmente evidente, che i nipotini di Rousseau devono fare ricorso a stranissime contorsioni mentali per tentar di renderne ragione (ad esempio, puntando il dito contro la malvagità della società, corruttrice del sano e onesto individuo, uscito perfettamente innocente e ragionevole dalle mani della natura). Inoltre si è fatta una confusione deliberata fra l’uguaglianza dei diritti, sulla quale si può anche discutere, ma senza darla per scontata e come auto-evidente, e l’uguaglianza delle capacità e dei ruoli, che, se presa sul serio, conduce il corpo sociale dritto verso la pazzia e la disintegrazione, come infatti sta avvenendo, attraverso una metodica selezione alla rovescia, che premia gl’individui peggiori e mortifica i migliori.

Se presa alla lettera, inoltre, la stravagante e pericolosa dottrina della sovranità popolare (è sempre la buon’anima di Rousseau che ci perseguita!) porta, fatalmente, a due alternative, entrambe esiziali: o alla demagogia più sfrenata, per cui i rappresentanti di detta volontà popolare non osano mai contraddire le aspettative dei loro elettori, né dire loro, chiaro e tondo, che, non essendo in grado di comprendere a sufficienza i fatti dell’economia, della finanza, della vita sociale e politica, della scienza e del pensiero, devono rinunciare a dettar loro la linea da tenere e rimettersi a chi ne sa di più; oppure all’inganno sistematico e all’aggiramento della volontà popolare mediante meccanismi di suggestione collettiva, e pratiche di sotto-politica e sotto-governo, che scavalcano bellamente la volontà popolare e riducono il popolo a una massa da imbonire e tacitare con l’apparenza della partecipazione e del controllo sugli eletti, negandogliene però la sostanza.

Nella democrazia numerica e quantitativa, infatti, non vi sono più, propriamente, dei popoli, così come non vi sono più delle persone: e come le persone sono ridotte a numeri, a quantità astratte, così i popoli sono ridotti a “masse”. Una massa è un aggregato caotico, instabile, imprevedibile, anarchico ed egoistico, di soggetti, di interessi, di bisogni, di ambizioni, di illusioni, di frustrazioni, di prepotenze, che si intrecciano e si sovrappongono, si combattono e si neutralizzano a vicenda, perché non esiste, in essa, una gerarchia, né un principio di autorità universalmente riconosciuto, e quindi sufficientemente autorevole, per armonizzare, coordinare ed integrare quei diversi e contrastanti soggetti. Thomas Hobbes (1588-1679) lo aveva ben visto, appunto agli albori della modernità: senza un principio di autorità sottratto alla volubilità dei singoli, la società si trasforma in un incessante ed atroce campo di battaglia di tutti contro ciascuno, in un perenne ed insensato «bellum omnium contra omnes».

Ebbene: è esistita, fino a pochi anni fa, una grande istituzione, internazionalmente autorevole e ben radicata nella coscienza delle persone e delle famiglie, che si è conservata immune, o parzialmente immune, più a lungo di ogni altra, dalla sfrenata demagogia e dalla insensata dottrina della democrazia meccanica e quantitativa, fondata sulla riduzione delle persone a numeri, e dei popoli a masse inconsapevoli e abbrutite. Questa grande e saggia istituzione, antica di duemila anni, era la Chiesa cattolica: la quale, pur nei suoi limiti umani (non parliamo, infatti, della Chiesa nella sua dimensione soprannaturale, perché tale sarebbe un discorso di fede, escludente coloro che non sono credenti), e cioè con frequenti cadute e contraddizioni, è sempre riuscita, nondimeno, a tener fermi i principî di una vera società organica, e ha sempre saputo guardare all’uomo (a differenza dei filosofi illuministi, marxisti, progressisti) per quello che è, e non per quello che si vorrebbe che fosse. In particolare, la Chiesa ha sempre tenuto fermo il principio gerarchico, che è la negazione del principio democratico: chi più è dotato e servizievole, tanto più deve occupare posizioni-chiave; chi è meno dotato e più egoista, deve accontentarsi di occupare le posizioni comuni. Solo così un corpo sociale, o una istituzione, possono funzionare: e così, infatti, ha funzionato, per duemila anni, il grande e vivo organismo della Chiesa cattolica: perché «non c’è servo superiore al padrone», e «nessuno può servire due padroni».

Da qualche tempo a questa parte, tuttavia, l’ondata demagogica della mentalità democraticista e quantitativa si è abbattuta con forza anche sulla Chiesa, stravolgendo le intelligenze, sovvertendo le certezze, rivoluzionando pratiche antiche, fondate sulla Tradizione e sperimentate attraverso mille battaglie e mille burrasche. Il principio gerarchico è stato contestato, in nome del procedimento elettoralistico: quasi che le verità religiose si possano stabilire a colpi di maggioranza. E questa baraonda, questo sconquasso, questa babelica confusione, sono stati denominati “apertura”, “rinnovamento”, “svolta antropologica”, “dialogo col mondo”, “aprire le porte”, mentre non sono altro che il segno di un collasso, di un suicidio, di una auto-distruzione consapevole e programmata.

Anche se il contesto da cui è estrapolato meriterebbe una serie di chiarificazioni e di riflessioni critiche, ci piace riportare qui, per la sua chiarezza e linearità espositiva, quando sostenuto da Ennio Innocenti nel suo libro «Dottrina sociale della Chiesa», Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1980, vol. II, pp. 120-2):

 

«Idolo […] è la maggioranza, quasi fosse garanzia di verità. Se la verità fosse stata appannaggio della maggioranza, forse “mestier non era partorir Maria”. In realtà il monito biblico nei confronti della maggioranza è piuttosto severo: cfr: Esodo, XXIII, 2: “Non sequeris turbam ad faciendum malum nec in judicio plurimo rum acquiescens ut a vero devies”. S. Tommaso d’Aquino ammoniva che il numero sta dalla parte della materia:  il culto del numero non porterebbe al culto della materia? Sul piano sociale non porterebbe ad un ingranaggio meccanicistico che sta all’opposto della visione organica della società professata  dal magistero ecclesiastico? Noi in Italia abbiamo visto prevalere il divorzio e l’aborto per un voto!  Dopo di che tutti gli omaggi alle leggi dello Stato! Ecco il culto del numero! Ecco la violenza e la guerra. Il federalismo europeo e il federalismo mondiale non cambierebbero ipoteca se si ispirassero allo stesso culto del numero. È evidente  che i cattolici non possono consentire a questa visione pseudo sociale.

Diceva Pio XII ai congressisti del Movimento universale per una Confederazione mondiale (6 aprile 1951): “Dopo tutte le prove passate e presenti si oserebbero giudicare sufficienti le risorse e i metodi odierni di governo e di politica? In realtà è impossibile risolvere il problema dell’organizzazione politica mondiale senza accettare di allontanarsi talvolta dalle vie battute, senza fare appello all’esperienza della storia, ad una filosofia sociale e anche ad un certo intuito dell’immaginazione creatrice”.

L’altro idolo è la sovranità del popolo – termine, questo, di sovranità – surrettiziamente entrato perfino nelle traduzioni di atti pontifici! Finché si tratta di designare i ministri pubblici per via democratica senza interferenze esterne è ammissibile, ma che la volontà popolare sia (espressa così o in altri modi) legge assoluta o che i ministri pubblici siano in tutto dipendenti dal plauso popolare nei loro atti di governo è cosa abnorme come una bestemmia. Il popolo dipende da Dio. Ed esso non è una massa di quantità, né di maggioranza, né una classe… è invece la cospirazione di persone che si riconoscono organicamente solidali e gerarchicamente connesse, coscienti e dei loro diritti e doveri, e perciò volenti una unità organica e organizzatrice, lo Stato (Pio XII, radiomessaggio del 24 dicembre 1944).

Proprio perché l’unità del popolo è organica (e non meccanica come quella del numero, somma di quantità quantitativamente uguali) si suppone che nel popolo ci siano disuguaglianze come nell’organismo dove tutto collabora in gerarchia. Per dirla con Pio XII: “In un popolo degno di tal nome tutte le ineguaglianze, derivanti non dall’arbitrio, ma dalla natura stessa delle cose, ineguaglianze di cultura, di averi, di posizione sociale – senza pregiudizio, ben inteso, dalla giustizia e dalla mutua carità,  - non sono affatto un ostacolo all’esistenza e al predominio di un autentico spirito di comunità e di fratellanza” (ivi).

Al contrario la pace è compromessa dove il popolo è massa e il governo è di massa: infatti l’ingiusto avvilimento della persona non può che provocare risentimento. Riconosciamolo: l’attuale sistema democratico, parlamentare e partitocratico, non tiene conto che del numero e per nulla affatto delle concezioni organiche delle persone (famiglia, professione, associazioni, corpo intermedi).

Riconosciamolo: si è imposta ai popoli la camicia di forza della DEMOCRAZIA DEL NUMERO PER DISORGANIZZARE I POPOLI E RIDURLI A MASSE. I popoli son caduti schiavi di un burocratismo verticistico ed oligarchico e s’illudono d’esser liberi per i riti elettoralistici del numero: son entrati a far parte di una macchina che li annienta, non sono più soggetti ma oggetti di diritto e questo è sempre più sottratto alla vita delle unità organiche del popolo (che ne sono sempre più espropriate).

Quello che è accaduto negli Stati democratici moderni  (agglomerazioni amorfe di individui) accadrà – se non ci si mette sulle basi della dottrina sociale cattolica -  negli Stati soprannazionali dei continenti: livellamento, massificazione, meccanicità di rapporti, centralizzazione e “blocchi storici”.

Se la pace fosse frutto della democrazia moderna essa sarebbe a portata di mano! Invece essa sarà solo frutto dell’amore fra le persone e fra le società native delle persone, grazie ad organizzazioni che faranno della sussidiarietà la loro legge organica.»

 

Se la società moderna non fosse dominata, appunto, dalle leggi numeriche e demagogiche del numero e della quantità, la saggezza di un Pio XII riceverebbe il giusto plauso, la sua lungimiranza porterebbe le persone a riflettere, a interrogarsi sul senso dell’edificio politico che abbiamo costruito. Ma è impossibile che ciò accada: sarebbe come confessare il pieno fallimento e la drammatica inconsistenza della democrazia attuale. E, del resto, la Chiesa stessa si è allontanata da quella saggezza, è diventata incerta e possibilista, si sta arrendendo allo “spirito del mondo”: alla forza e alla prepotenza del numero, della quantità; insomma: alla dittatura mascherata dei peggiori...