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Fu l’esplosione delle nazionalità a distruggere l’Impero romano?

di Francesco Lamendola - 23/11/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni



 

 

 

 

 

L’Impero Romano fu essenzialmente, come quello di Alessandro Magno, uno Stato sovranazionale, basato su un’idea anch’essa sovranazionale: l‘idea universalistica («Urbem fecisti, quod prius Orbis erat», dirà, al principio del V secolo d. C, il poeta Rutilio Namaziano). La sua contraddizione fondamentale, tuttavia, fu che tale idea universalistica non era basata su una cultura altrettanto universalistica, bensì sulla cultura - politica anzitutto - greco-romana, e sulle due lingue, il latino in Occidente e il greco in Oriente, davanti alle quali tutte le altre dovevano assimilarsi o scomparire.

L’interpretazione illuminista (di Edward Gibbon, per esempio) che la sua crisi e la sua caduta finale siano state causate dall’assalto dei popoli non assimilati - Germani, Parti, Arabi, Mauri - e, all’interno, dagli effetti corrosivi di un altro universalismo, quello cristiano, appare oggi come una forzata, inaccettabile semplificazione di meccanismi assai più complessi, anche di tipo economico (una esportazione di metalli preziosi molto superiore a quanto l’impero poteva permettersi, con un deficit cronico della bilancia commerciale), e tuttavia non priva di un elemento di verità, purché venga riformulata in termini più accettabili.

Secondo Arnold Toynbee, ad esempio, la crisi e la caduta dell’Impero Romano furono non tanto «il trionfo della barbarie e della religione» (Gibbon), bensì il risultato dell’azione concomitante di due operazioni abortite: la mancata assimilazione del “proletariato esterno” (germanico in primo luogo) e del “proletariato interno”, in senso sociale più che religioso: e dunque non tanto i cristiani, quanto le classi marginali sia dell’Occidente rurale (come i Bagaudi o gli Armoricani della Gallia settentrionale) che dell’Oriente urbanizzato (come Alessandria d’Egitto e il suo retroterra, famoso per il brigantaggio endemico: il delta del Nilo).

In un certo senso, uno stato multinazionale può sopravvivere solo fino a quando, a tenerlo insieme, c’è una grande idea che sia, appunto, sovranazionale: l’Impero asburgico, per esempio, poté sopravvivere fino a quando il principio dinastico e quello religioso furono abbastanza forti da controbilanciare la spinta centrifuga dei nascenti nazionalismi. Ma il principio religioso venne messo in crisi, assai poco saggiamente, dallo Stato stesso, con la politica dell’assolutismo illuminato di Maria Teresa e soprattutto di Giuseppe II, fortemente giurisdizionalista e anticlericale. Il principio dinastico, da parte sua, esercitava una presa sufficiente solo sulla nazionalità tedesca e, dal 1867, su quella magiara (al prezzo della istituzione d’una corona separata, e sia pure sulla testa del medesimo sovrano austriaco): a quel punto, il governo scelse la politica sucida di incoraggiare e fomentare i nazionalismi l’uno contro l’altro (ad esempio, quello sloveno e quello croato contro l’elemento italiano del Küstenland e della Dalmazia, oppure il nazionalismo ruteno contro l’elemento polacco della Galizia), il che innescò una bomba a orologeria che avrebbe finito per deflagrare, complice lo sfinimento dovuto alla guerra, nel 1918.

Nel caso di un impero universale, come quello romano, non basta neppure una idea genericamente sovranazionale: ci vuole un’idea universalistica, la quale possa abbracciare, almeno teoricamente, il mondo intero. Neppure l’Impero britannico, il più grande della storia (nel 1939), poteva ambire a tanto, perché esso era essenzialmente, se non esclusivamente, l’impero degli uomini bianchi di stirpe anglosassone e di religione protestante: benché abbracciasse mezza Africa e un’isola-continente come l’Australia, non avrebbe mai potuto assimilare i popoli di altra cultura e religione, come nel caso dell’India, o del Kenya, o della Nigeria (infatti non riuscì mai ad assimilare neppure i francofoni del Québec, né, meno ancora, le popolazioni dell’Africa del Sud, a cominciare dai Boeri stessi). Ma un’idea universalistica deve poggiare su di una cultura universalistica, che le faccia da tramite: una cultura parziale, per quanto rispettabile, o anche prestigiosa, non avrà mai la forza di tenere insieme un impero universale.

Tornando al grande problema storico circa la decadenza e la caduta dell’Impero romano, quest’ultimo, a partire dalla fine del I secolo dopo Cristo, si trovò a poter disporre di una idea universalistica, quella di cittadinanza; e anche di una religione universalistica, come poi vide, ma solo al principio del IV secolo, l’imperatore Costantino: la religione cristiana; però non ebbe una cultura universalistica, come l’aveva avuta, fino a un certo punto, l’Impero ellenistico di Alessandro Magno. Il fatto che in Occidente il latino fosse e rimanesse la lingua dominante, e che in Oriente lo fosse in greco (senza però riuscire ad assimilare l’aramaico, il copto, tanto meno l’ebraico), creava, di per sé, una divaricazione culturale difficile da superare. Il cristianesimo si rivelò capace di operare il superamento di tale divaricazione e di effettuare la sintesi delle due culture, però, a sua volta, esso era in contrasto con la tradizione greco-romana, perché l’idea semitica del Dio unico e spirituale, e l’idea specificamente cristiana del Dio che si fa uomo, non rientrava assolutamente nella tradizione e nel modo di pensare né dell’Occidente, né dell’Oriente. I padri della Chiesa riuscirono, nel corso di alcuni secoli, ad innestare gran parte della tradizione classica, e specialmente il platonismo (con Agostino) e l’aristotelismo (con Tommaso d’Aquino) nell’idea universalistica cristiana, ma la cosa richiese un tempo talmente luogo che l’Impero romano non ebbe la possibilità di beneficiarne: era caduto molto prima, sotto i colpi della crisi economica e finanziaria, del crollo demografico, delle migrazioni e invasioni dei popoli germanici, e infine della “esplosione” delle nazionalità, che avrebbe portato alla nascita delle lingue romanze.

Riassumiamo qui la tesi del grande storico italiano Santo Mazzarino, scegliendo alcuni passi particolarmente significativi per delinearne i tratti essenziali (da S. Mazzarino, «La fine del mondo antico», Milano, Rizzoli, 1988, pp. 164-69):

 

«”Libertà e nazioni” è, in un certo senso, un tema nuovo, per ciò che riguarda la storia dell’Impero romano. Esso può tuttavia connettersi con la problematica agitata dal Rostovzev, e comunque con l‘insoddisfazione delle masse contadine costrette a vivere nella composita unità del grande impero. Al solito, l’età di Commodo (180-192) e dei Severi (192-235) rivela, anche in questo campo, le novità più significative per la crisi del mondo antico.

Era possibile avvicinare queste masse alla cultura ellenistico-romana delle classi superiori? Le guerre di Marco Aurelio avevano acuito la stanchezza dei provinciali oppressi dai tributi:  un poeta sibillista cristiano vide allora, nella fine dell’impero, la liberazione di ogni ἔθνος dal “giogo” romano. Ἔθνος indica appunto “nazione”, un concetto che nel mondo antico fu sempre connesso, più o meno, c on quello di lingua, ma non raggiunse mai l’idea chiara di stato-nazione e si manifestò piuttosto come concetto-limite, in contrasto con la città-stato o con lo stato supernazionale. […]

Abbiamo chiesto sopra: si potevano allontanare quelle masse dalle loro caratteristiche, per lingua e per costumi “nazionali”? Possiamo precisare: era possibile avvicinarle ancor più allo stato, assimilando le loro tradizioni e i loro culti alle tradizioni e ai culti classici greco-romani? Fu questa la grande ambizione di Caracalla. Nel 212, dando la cittadinanza a tutti gli abitanti liberi delle province (a esclusione dei “dediticii”) egli dichiarava di voler unificare sul piano religioso i culti dei provinciali e dello stato. […] In realtà, i nuovi cittadini di Caracalla esprimono l’animo antico delle province, dove la romanizzazione stenta a penetrare nelle classi umili: Caracalla spera di superare le barriere “nazionali”, attirando a sé gli uomini prediletti dalle masse agricole. Egli sapeva che quelle barriere “nazionali” lavoravano dentro l‘impero, contro l’impero.

Nell’età di Caracalla (o, comunque, dei Severi) un grande pensatore mise in rapporto, per la prima volta nella storia antica, l’idea filosofica di libertà e quella di “nazione”: Bardesane, un cristiano di Edessa. Questa città era capitale dello stato di Osroene; il suo re, Abgar IX, si era convertito al Cristianesimo, perseguitando gli adoratori della dea Atargatis; nel 216 Caracalla depose Abgar IX, e incorporò l’Osroene nell’impero romano. Bardesane era uomo assai influente alla corte di Abgar IX; fu il maestro della grande letteratura “nazionale” siriaca, destinata a grande importanza nella parte orientale dell’impero romano. Nell’operare una connessione fra l’idea di libertà e quella di nazioni (“paesi”), egli non considerava la libertà nel suo aspetto propriamente politico, che aveva costituito oggetto di studio per gli uomini delle democrazie greche. Si pose, piuttosto, il problema della libertà come fatto spirituale, insomma come libero arbitrio umano indipendente dall’influsso dei pianeti e dello Zodiaco; e ritenne che tale libertà si riela nelle caratteristiche nazionali dei vari popoli. A noi è pervenuto il suo “Dialogo delle leggi dei paesi”; esso s’identifica (o perlomeno si connette) con un suo libro “Sul fato” dedicato ad un Antonino che è, con ogni probabilità, Caracalla stesso. In questo “Dialogo” lo sguardo di Bardesane spazia ampiamente sul mondo: dappertutto, le varie nazioni hanno diversi costumi e diverse leggi, ed in ciò si rivela la libertà umana, indipendente dall’oroscopo. […]

Difficilmente si troverà un altro scritto in cui l’individualità delle nazioni sia rilevata con altrettanto interesse; e va sottolineato, ancora una volta, che Bardesane scrive nell’età dei Severi, questa dinastia che dal 1993 al 235 ha tentato, in maniera conseguente e con diversi mezzi, il potenziamento dell’unità imperiale al di là delle caratteristiche nazionali. Nella prospettiva di Bardesane, i Romani confermano la dottrina del libero arbitrio con la loro capacità di cambiare le leggi dei paesi attraverso la conquista armata. […] Ma Bardesane conosce ancora una libertà più alta: quella che unisce i Cristiani fra loro; questa libertà cristiana supera le caratteristiche nazionali: “in qualunque paese e luogo essi si trovino, le leggi dei paesi non li separano dalla legge del loro Cristo”.

Così Bardesane, implicitamente e quasi senza accorgersene, sovrapponeva l’idea supernazionale cristiana a quell’altra idea supernazionale che aveva ispirato la fondazione dell’impero romano. Non abbiamo elementi per ritenere che egli fosse ostile all’impero romano; semmai, saremmo autorizzati a pensare l’opposto. Tuttavia, la sua nuova prospettiva, in cui le caratteristiche nazionali dei popoli hanno un inatteso rilievo, istituisce implicitamente un confronto tra la pura idea dell’unità cristiana e il dominio supernazionale dei Romani, fondato su quella tendenza alla conquista che egli considerava una caratteristica di essi.

Ostile all’impero dei Romani era un altro cristiano contemporaneo di Bardesane, il vescovo dissidente di Roma, Ippolito; […] egli pensava che alla fine dell’impero - equivalente, per lui, alla fine del mondo – dieci democrazie avrebbero strappato ai Romani il potere, dividendolo “secondo nazioni”, κατα εϑνη. E diceva anche, nel suo scritto sull’”Anticristo”, che l’impero romano “domina su tutti, contro la loro volontà”; nel “Commentario a Daniele”, che l’unità supernazionale romana era una contraffazione satanica dell’unità cristiana.

Il concetto di “nazioni”, da lui contrapposte al “satanico” impero di Roma, non era certamente estraneo alla temperie del suo tempo. Qualcosa corrodeva, nel profondo, la grande costruzione supernazionale romana. La formazione delle letterature “nazionali” siriaca e copta, quasi generate dall’esigenza religiosa delle masse, ne fu la manifestazione più insigne.»

 

Al di là delle interpretazioni religiose, gnostiche e millenaristiche, e le identificazioni dell’Impero romano con il potere diabolico (interpretazione che può anche avere una sua plausibilità, se si pensa, ad esempio, alle aberrazioni sataniche cui era giunta la plebe romana con i cruenti spettacoli del circo), resta il fatto che il sorgere delle letterature nazionali è sempre la spia di una tendenza centrifuga che mina alla base qualsiasi universalismo e non può che indebolire fatalmente la coesione interna di un impero, per quanto esso ambisca ad essere “universale”.

Possiamo ora domandarci se gli stati moderni, tenuti insieme da una tradizione essenzialmente nazionale, non abbiamo già, in se stessi, gli elementi culturali e linguistici che sono destinati a decretarne la fine. È vero, infatti, che il mondo attuale sta andando verso una notevole – e niente affatto desiderabile – uniformità linguistica; ma è chiaro che l’inglese non riuscirà mai a imporsi sul cinese, o sulle lingue dell’India, o sull’arabo (se non altro per motivi religiosi: il cristianesimo ha di fatto rinunciato al latino, ma l’islamismo non rinuncerà mai all’arabo, e il giudaismo non rinuncerà mai all’ebraismo), né queste sull’inglese; così come è chiaro che lo stile di vita “occidentale” è ormai solo un guscio vuoto, poiché non esprime più una cultura viva e vitale, e tanto meno una cultura universalistica, come ancora lo era la cultura europea verso il XVI e il XVII secolo. Esportando nel mondo la rivoluzione industriale e i suoi effetti, il libero mercato e il consumismo, la civiltà occidentale ha creato anche le premesse per la sua abdicazione al ruolo di portatrice di una idea universalistica, nonché di una cultura universalistica. In luogo di una cultura universalistica, ne abbiamo quattro o cinque che si escludono a vicenda e che potrebbero condurre a una terza guerra mondiale, dalle conseguenze imprevedibili; invece di una vera economia mondiale, abbiamo la dittatura finanziaria di alcune grandi banche e di poche super-multinazionali; invece di una cultura universale, abbiamo una sotto-cultura universale: quella del consumo, della crescita illimitata – il che è una contraddizione in termini – e dello spreco, la quale ha in se stessa i germi della recessione e della crisi morale, oltre che materiale.

Quale è l’idea universale che potrebbe, oggi, fare dell’orbe terracqueo una sola città, ma una città viva e armoniosa, e non un gigantesco campo di concentramento, retto dall’alienazione, o dal terrore, o dalla sistematica disumanizzazione dei suoi abitanti? Non certo l’idea del progresso e della crescita; non certo la cultura liberal-radicale dei diritti per tutti e per ciascuno, con il minimo dei corrispettivi doveri; non certo l’american way of life, con il suo egotismo istituzionalizzato; non certo una particolare religione storica (tutte legate al proprio contesto socio-culturale e tutte tendenzialmente o esplicitamente esclusiviste), tranne forse il cristianesimo. Il cristianesimo, sì, avrebbe in se stesso gli elementi per realizzare un vero universalismo, rispettoso delle differenze culturali e capace di valorizzare le identità etniche, culturali, linguistiche, riducendole però ad unità sul piano spirituale, nell’idea e nella prassi della comune fratellanza in Dio. Ma, per riuscire a farlo, esso dovrebbe, per prima cosa, rimanere fedele a se stesso; o, per meglio dire, ritornare ad essere se stesso, dal momento che già non lo è più. Il protestantesimo, secondo noi, rappresenta la prima abdicazione del cristianesimo alla propria missione universalistica: sacrificando il libero arbitrio, esso sacrifica l’elemento essenziale di qualunque universalismo, ossia l’invito ad una collaborazione dell’uomo fattiva e operosa, personale e responsabile, al progetto divino. Il modernismo è stato, ed è tuttora, il secondo atto di questa abdicazione e di questa auto-castrazione: il cattolicesimo modernista è ormai un cristianesimo dimezzato, che, per venire a patti con il mondo moderno, con il materialismo, il meccanicismo, l’edonismo e il relativismo della cultura moderna, ha sacrificato il più e il meglio della propria specifica identità – ha sacrificato la sua ricchezza e venduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. E in cambio di che cosa, poi? Di un effimero successo e di una presa fuggevole, illusoria, sulle masse secolarizzate, le quali non gradiscono altro discorso che non sia antropocentrico, che lusinghi la loro vanità, accarezzi la loro pigrizia intellettuale e fornisca una sorta di legittimazione al loro edonismo e al loro relativismo.  Questa è l’idea religiosa che le masse sono disposte ad accogliere: un’idea che assolutizzi l’uomo, che lo divinizzi, e che, dell’autentico sentimento religioso, non conservi altro che le mere apparenze. È la vittoria del numero, della quantità, sui valori spirituali; mentre il cristianesimo dei primi secoli è stato esattamente il contrario: la vittoria dello spirito sulle ideologie mondane, la vittoria dell’universalismo sui particolarismi. Se ancora stiamo godendo, bene o male, di qualche anno di relativa stabilità e coesione sociale (ma il tempo a disposizione si accorcia a vista d’occhio), è perché viviamo di rendita su quanto ha costruito a suo tempo l’universalismo cristiano, nonostante tutti gli sforzi dell’illuminismo, del marxismo, del freudismo e di tanti altri -ismi moderni per distruggerlo e strapparne via anche il ricordo.

Da qualunque prospettiva si consideri la questione, una cosa appare certa: che nessuna società, e tanto meno una società globalizzata, potrà mai reggersi a lungo senza possedere il collante di una grande idea universalistica, che sia veicolata ed incarnata da una altrettanto grande cultura universalistica. Di questo abbiamo bisogno, oggi, se vogliamo pensare anche solo timidamente al futuro; se non vogliamo accettare il destino di tutte le civiltà nichiliste: l’autodistruzione, a brevissima scadenza. Così, se fu l’esplosione delle nazionalità a distruggere l’Impero romano, dobbiamo chiederci se valga la pena, oggi, di perseguire una globalizzazione che sarebbe l’equivalente di un moderno impero universale, ma senza alcuna idea, né alcuna cultura universali...