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Un'arma pericolosa: la compassione

di Adriano Segatori - 23/11/2015

Fonte: Italicum

 

 

La compassione è un’emozione particolarmente ingannatrice, che coinvolge nel tranello tanto l’emittente che la produce quanto il ricevente che ne è coinvolto.

Da secoli se ne sono occupati i filosofi, con giudizi e interpretazioni ambivalenti se non addirittura opposte.

Etimologicamente è facile comprenderne il significato: patire insieme con, comprendere emotivamente la sofferenza dell’altro e porsi nella condizione volontaria di potere e di volere alleviarla.

Questa modalità di coinvolgimento implica una condizione di estrema pericolosità. Da un lato, colui che manifesta tale disponibilità di animo e di intenti dimostra inconsciamente – e a volte con volontà abilmente dissimulata – una superiorità morale e di intenti (“Io posso darti quell’aiuto senza il quale tu sei incapace di”) che l’altro non ha, e che perciò viene posizionato in uno stato di inferiorità. Dall’altro, il compatito, nell’attivazione della benevolenza e della disponibilità del suo interlocutore, una volta suscitato in lui quel preciso stato d’animo di sensibilità, si può dire che lo ha in pugno, detiene – nella compassione – una vera e propria arma di ricatto (“Chi ha il coraggio di abbandonare un sofferente una volta preso in carico moralmente?”).

Quella che poi, in ambito psicologico, è diventata empatia – cioè la capacità di comprendere lo stato d’animo altrui – nell’antichità greca era considerata la condizione emotiva tra attore e pubblico e tra attore e il suo personaggio, insomma una recitazione, una rappresentazione scenica. Inoltre, per Platone nel Gorgia, tanto per intenderci, la compassione è uno stato d’animo che, derivante da uno strumento ambivalente e sottile come la parola – lógos phármakon, la parola come medicina e come veleno – serve a manipolare l’individuo e la massa, è quell’arte psicagogica che la retorica politica usa allo scopo di produrre una “verità estetica”, che nulla ha a che vedere né con la realtà né con il vero provato.

Se questi erano gli intendimenti dei saggi antichi sulla compassione, possiamo onestamente negare che questa procedura non sia ampiamente usata nei tempi attuali dalla politica ordinaria?

La nostra è l’epoca della compassione perché è l’epopea del vittimismo. La <<vittimizzazione del sociale>> – secondo l’efficace descrizione di Westervelt – ha portato ad una vera e propria aberrazione delle basi giuridiche: <<Un sistema giuridico efficace deve possedere qualche nozione di libero arbitrio e di responsabilità individuale. Senza questi concetti è difficile individuare una motivazione consapevole e quindi attribuire una colpa e una responsabilità>>[1]. E questo deragliante approccio ai problemi individuali e collettivi è davanti agli occhi di tutti.

Basti pensare al falso problema di quello che viene mistificatoriamente definito “fenomeno migratorio”. Quattro foto, due barconi, un paio di corpi galleggianti, qualche mamma in lacrime con un bambino e subito gli avvoltoi dell’informazione a buttarsi sul lauto pasto propagandistico, con il beneplacito del politicume cinico in cerca di nuovi voti e dei comitati del buonismo pronto ad annusare occasioni affaristiche. E nessuno a parlare di legalità nelle identificazioni, di norma nelle richieste di asilo, di parametri di diritto per la cittadinanza, di legittimità nelle pretese. Nessuno che si chieda – semplicemente – se sfondare un confine di Stato sia un reato o meno. Nulla di tutto ciò. La compassione prevale e il diritto sparisce, almeno per certe categorie di persone.

Il fatto più grave di questa condizione deviante è che mentre nell’antichità la manipolazione era delegata solo al verbo, alla parola, quindi alla capacità dialettica del singolo, e la sua influenza era definita dal contatto visivo e uditivo con un numero ristretto di uditori, ora la l’arte retorica di pochi è diventata una produzione per il condizionamento di massa.

Con la falsificazione diffusa in maniera capillare in ogni coscienza – o quanto meno in quelle scarsamente attrezzate alla difesa e meno refrattarie alla commozione –, la compassione non è più uno spontaneo sentimento personale, ma è diventato un dovere istituzionale diffuso. Bisogna avere compassione: <<Le persone perbene hanno l’obbligo morale di non offendere le vittime con il rifiuto di accogliere le loro rivendicazioni>>[2].

Dal criminale al clandestino, dal pedofilo al banale violatore del codice della strada, tutti devono usufruire di assistenza, tutti devono rientrare nei concetti di integrazione, di comprensione, di accoglienza, di partecipazione e di giustificazione. Nessuno deve essere escluso! – proclama a viva voce il buono e il correttamente pensante, e questo perché: <<L’esclusione sociale viene raramente presentata come un processo, ma piuttosto come una sorta di malattia da cui si è affetti>>[3].

Non sono i devianti e i trasgressori che con i loro comportamenti si sono volontariamente esclusi dal contesto sociale, ma la società diventa colpevole della loro emarginazione. Perché la compassione non prevede la colpa, ma solo l’errore, la disgrazia e la sfortuna. Tutto quindi diventa comprensibile e giustificabile.

Per altro, il regno dell’emotività a buon prezzo non conosce confini: dal politicante piagnucoloso sulle proprie decisioni (leggi Fornero) al clerico in bianco di Piazza San Pietro, dal parente di qualche mafioso al 41-bis al genitore del bullo minorenne, tutti a fomentare riconoscimenti, scusanti e indulgenze.

Di fronte all’industria dell’emotività e ai comitati di compassione pubblica non rimane che attivare una sana operazione di cinismo. Diceva Kant, dopo un’iniziale attrazione per il sentimentalismo inglese facilmente superata: <<Una certa dolcezza d'animo che passa facilmente in un caldo senso di pietà, è cosa bella ed amabile, perché rivela una certa partecipazione alle vicende altrui [però] questo sentimento bonario è debole e cieco>>[4]. Contro ogni forma di viscida benevolenza e di untuosa amorevolezza, di fronte ad un caso umano o ad un qualsivoglia fenomeno più ampio, basterebbe porsi le cinque domande basilari di ogni inchiesta giornalistica e di ogni indagine sui fatti: Chi? Dove? Quando? Come? Perché? Si dovrebbe tornare nuovamente a quell’antico e aristocratico pathos della distanza che ha caratterizzato la grandezza classica: sia abolito il lamento e messo all’indice il pietismo. Ad ognuno venga offerta una parità di sguardo e sia abolita quella ipocrita superiorità implicita nell’“Io posso”. Il primo passo verso la dignità è assumersi – e far assumere – doveri e responsabilità. Il resto è cascame.

 

 



[1] F. FUREDI, Il nuovo conformismo, trad. it., Feltrinelli, Milano 2005, p. 230.

[2] Ivi, p. 216.

[3] Ivi, p. 201.

[4] P. MARTINETTI, Kant, Feltrinelli, Milano 1968, p.159