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Se tutto il reale è pensiero, chi è che pensa?

di Francesco Lamendola - 30/11/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Abbiamo già avuto modo di discutere il fatto che l’attualismo di Gentile, come tutti gli attualismi – ad esempio, come quello di Nietzsche – è, per ciò stesso, anche un rifiuto del criterio di verità, per non dire dello stesso concetto di Verità e, dunque, inevitabilmente – e al di là delle stesse intenzioni del pensatore siciliano -  una estrema forma di nichilismo (cfr. il nostro precedente saggio «La filosofia dell’”atto puro” di Gentile come limite nichilistico dell’idealismo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 16/05/2008); per cui non vi torneremo sopra. Per noi, è abbastanza evidente che una filosofia dell’«atto puro» non può portare che a una qualche forma di vitalismo e di panteismo e che, in definitiva, non si preoccupa di ciò che è vero e di ciò che è falso, ma semplicemente di ciò che si deve o che non si deve fare. In questa sede, desideriamo spostare piuttosto la nostra attenzione sulle implicazioni della domanda: «chi è che pensa?», implicazioni ineludibili in un sistema concettuale fondato sull’idea – aberrante, a nostro parere – che non sia l’essere a creare il pensiero, ma il pensiero a creare l’essere. Ed è lo stesso discorso che si può fare per la filosofia di Fichte, di Schelling, di Hegel e anche di Croce, oltre che di Gentile.

Per Giovanni Gentile, tutti gli aspetti della realtà si pongono come pensabili nella misura in cui possono riferirsi ad un Soggetto puro, capace di pensarli: tutta la realtà, dunque, è, per il filosofo dell’attualismo, pensiero. E tuttavia, non si può eludere la decisiva domanda: se tutto il reale è pensiero, allora chi è che esercita tale funzione, chi è o che cosa è che pensa? Un pensiero senza soggetto è una astrazione priva di significato: il pensiero è l’atto del pensare, e l’atto del pensare, “puro” o non puro che sia, implica un pensatore. Per Aristotele, ad esempio, esiste un Atto puro, un pensiero del pensiero: è Dio, che non può essere altro che se stesso e non può pensare altro che se stesso (per Aristotele, l’idea di un dio che sia perfetto, e che, nello stesso tempo, sia anche creatore dell’universo, è semplicemente una impossibilità di ordine logico).

Dunque, si tratta di capire se, per Gentile, il Soggetto puro è Dio. Una risposta affermativa è resa impossibile dal fatto che, per Gentile, l’atto del pensare è “puro” nel senso che esso non è assolutamente suscettibile di trascendersi: esso è atto in atto, perché coincide con la nostra stessa soggettività, è noi stessi: un dato che non si può oggettivare. Non solo. Nel suo pensare, il pensiero non si imbatte in alcun oggetto che sia fuori di sé: il non-io non corrisponde a un “tu”, a un qualcosa di esterno, a una realtà altra, ulteriore, ma è, semplicemente, un momento del processo dialettico: un dato che l’Io pone e che supera continuamente, pensando. E che cosa pensa, il pensiero? Pensa sempre qualcosa, perché, per Gentile, non esiste un pensiero senza oggetto (stranamente, egli presuppone però un pensiero senza soggetto, o meglio, che sia soggetto di sé stesso); tuttavia, qualunque cosa pensi, fosse pure l’universo infinito, o Dio medesimo, pensa sempre all’interno di se stesso. Perciò l’atto del pensiero è un atto creatore: pensare equivale a creare. E siccome il pensiero è atto puro, cioè atto in azione, il pensiero è sempre pensiero in atto e quindi creazione in atto, creazione che si attua nel pensiero. Tutto è incluso in questo pensare, niente ne risulta escluso: e la realtà è il pensiero sono una cosa sola, attualismo radicale, senza principio né fine, senza dentro e fuori, senza prima e poi. Il pensiero è Dio: ma un dio che si risolve al cento per cento nell’attualità del proprio pensiero. Pertanto l’attualismo gentiliano deifica l’immanenza e finisce per risolversi in un panteismo rigoroso, in una divinizzazione di ciò che è. Come per Spinoza, la realtà è pensiero, e dunque il mondo viene spiritualizzato: nondimeno, il mondo è il tutto, l’assoluto, Dio: per cui è vero anche che lo spirito viene “materializzato”. È uno strano spiritualismo, il suo, nel quale tutti gli aspetti della realtà – come osserva Nicola Abbagnano – si risolvono nell’atto pensante.

Resta, comunque, insoddisfatta la domanda che ci eravamo posta all’inizio; se tutto il reale è pensiero, chi è il soggetto che pensa ciò che è pensabile?

Questo passaggio centrale dell’attualismo gentiliano è stato così sintetizzato da Domenico Massaro nel suo testo «La comunicazione filosofica» (Torino, Paravia, vol. 3, tomo A, pp. 348-9):

 

«Gentile è un pensatore radicale, nel senso che va alla radice dei problemi. E in questa attività di scavo – che possiamo paragonare in qualche modo a quella di Bergson – egli trova che alla radice di ogni contenuto, dall’arte alla natura, dal finito all’infinito, c’è sempre un punto di riferimento ineludibile: L’ATTO DEL PENSARE. Di qui la denominazione di ATTUALISMO che si suole dare al suo sistema di pensiero. Tutti gli aspetti della realtà, infatti, si pongono e sono pensabili, solo nella misura in cui possono essere riferiti a un Soggetto puro che li pensa. TUTTA LA REALTÀ È, DUNQUE, PENSIERO. Ma qui bisogna fare attenzione a non confondere tale affermazione di Gentile con analoghe espressioni dell’idealismo classico, ad esempio di Hegel. Quando Gentile parla di pensiero, non si riferisce al pensato (cioè ai contenuti del pensiero), ma ALL’ATTIVITÀ STESSA DEL PENSARE. Come scrive Emanuele Severino, l’idealismo attuali stico di Gentile compie il passo definitivo consistente nell’affermazione secondo cui “la realtà esiste nel momento e nella misura in cui essa è presente alla coscienza, ossia nella misura in cui essa è attualmente pensata e, dunque, contemporanea all’atto del pensiero” (E. Severino, “Filosofia”, Sansoni, Firenze 1991, vol. II, p. 21). […] Dobbiamo ora porci una prima domanda che riguarda la questione del SOGGETTO di tale atto del pensare. Se infatti tutta la realtà – beninteso in senso filosofico e, dunque, concettuale, non in senso banalmente empirico, perché Gentile non nega l’esistenza della propria casa o degli alberi o della città… - si riduce all’attività del pensiero, CHI È CHE PENSA? Sono io che penso, soggetto logico e attuale di ogni contenuto. Il pensiero è, dunque, sempre il “mio” pensiero. “Salvo però chiarire – come scrive F. Farotti – che il significato di “mio” non rimanda a un “me” tra gli altri, tanti “me”, posti nello spazio e nel tempo, cosa tra le cose (poiché questo non è che un io EMPIRICO, molteplice, e dunque limitato), ma un Me assoluto” (F. Farotti, “Il problema della religione nell’attualismo di G. Gentile”, Loffredo, Napoli, 1999, p. 19). In altri termini, per Gentile il Soggetto dell’atto del pensare è – come aveva detto Fichte l’IO PURO o trascendentale, cioè lo Spirito universale che non si identifica con nessuno dei soggetti empirici e si riconosce come Soggettività e come Attività pura, condizione di ogni altro io e di ogni altra attività.

Tutto ciò che è prodotto – arte, scienza o religione – è figlio dell’ATTO che è puro fare. Infatti, non c’è nulla che possa preesistere all’attività del pensiero pensante, la cui essenza consiste proprio nel fare, che è sintesi creatrice. Tutta la realtà pensabile è, dunque, dentro l’atto del fare, cioè nello Spirito che è atto puro. Tale atto puro, essendo innanzitutto un PORRE SE STESSO, viene da Gentile definito AUTOCTISI: un termine preso in prestito dalla lingua greca, che vuol dire proprio AUTOPOSIZIONE o AUTOCREAZIONE

 

Per Gentile, dunque, nulla può preesistere all’atto pensante. In un certo senso, la filosofia di Gentile è una derivazione e un adattamento dell’ontologia classica. Si prenda il caso di Rosmini: tutto deriva dall’essere, tutto è una modalità dell’essere; l’essere è il sentimento fondamentale, una forma a priori della sensibilità, che fa da presupposto ad ogni atto del conoscere. Ma egli distingue fra l’essere degli enti e quello di Dio; fra il pensiero finito e quello infinito. Gentile non opera con sufficiente chiarezza .- a nostro avviso - una simile distinzione, perché nega, appunto, che vi sia qualche cosa di anteriore al pensiero: se egli distinguesse realmente, nettamente, fra il pensiero dell’ente finito e quello dell’Essere infinito, introdurrebbe un limite all’Atto pensante puro. L’atto puro, pertanto, è “condannato” a vedere solo se stesso, a percepire e pensare solo se stesso, a porre solo se stesso (autoctisi): è creatore di se stesso, sempre e solo di se stesso. Un circolo chiuso dal quale non vi è alcuna possibilità di uscire: come un “buco nero” che attira ogni cosa entro di sé e non lascia sfuggire nulla, neppure il più debole raggio di luce. L’atto puro è ostaggio e prigioniero di se stesso, condannato a una eterna sterilità e autoreferenzialità.

Il punto veramente debole dell’attualismo di Gentile emerge nel rapporto dell’io pensante con gli altri io, con il “tu”. Pensando solo e sempre se stesso, l’Atto puro non può pensare, a rigore, degli altri “io”: se lo facesse, uscirebbe da se stesso; ma abbiamo visto che questo è impossibile, perché il pensiero pensante non può mai trascendere se stesso, non può mai oggettivarsi. Se si trascende, se si oggettivizza, allora non è più il pensiero di se stesso, ma il pensiero di qualcosa, di qualcosa che non gli appartiene, di un oggetto.

Gentile distingue, in linea teorica, fra il Soggetto infinito e i soggetti finiti. Il primo pensa l’intera realtà, compresi i singoli “io”: e, nell’atto di pensarli, li “pone”, cioè li crea. Così il Soggetto infinito, che non può mai diventare oggetto a se stesso, li oggettiva, li “risolve”. Tuttavia, dal punto di vista dei soggetti empirici, riesce molto difficile capire come essi arrivino a “conoscere” e “superare” gli altri io, come arrivino a “porli”, e a “unificarli” mediante l’averli conosciuti. Infatti, se possiamo immaginare un dio che conosce le cose in quanto le pone, e che le pone in quanto le pensa, ci riesce pressoché impossibile immaginare o concepire un io empirico che “conosce”, “pone” e “unifica” gli altri io, dopo aver sostenuto che il pensiero non può pensare altro che se stesso. A rigore, gli io finiti dovrebbero pensare esattamente allo stesso modo in cui pensa il Soggetto infinito o trascendentale: ossia creando. Ma come possono gli io empirici conoscere l’alterità, come possono porla, come possono unificarla, se conoscere è un atto del pensiero, e se il pensiero non può pensare altro che se stesso?

Gentile crede di superare la difficoltà affermando che, quando un io empirico si trova davanti a un altro io, identifica e trascende la sua alterità, e “sente” l’altro io come se stesso, si immerge nel suo orizzonte esistenziale, avverte i bisogni altrui come fossero i bisogni propri. Sono solo parole. La verità è che l’io non potrebbe neppure riconosce un altro io, perché, se lo riconoscesse, dovrebbe riconoscere che vi è qualcosa d’altro, nel proprio pensiero, oltre al pensiero stesso: un oggetto esterno. Allora cerca di eludere la difficoltà, attribuendo all’io empirico una modalità di pensiero che è la stessa del Soggetto trascendentale: la creazione. In altre parole, cerca di fare di ogni singolo “io” un piccolo dio, moltiplicando all’infinito la facoltà creatrice, per risolvere l’infinito problema del riconoscimento dell’alterità, senza di che l’intera realtà sarebbe condannata ad un solipsismo radicale, dal quale non potrebbe mai evadere. Ma se ogni io diventa un dio, allora cade la distinzione fra il Soggetto trascendentale, che pone e crea gli io particolari, e questi ultimi, che sono oggetti del Soggetto trascendentale, ma non che non possono, quanto a se stessi, avere altri oggetti al di fuori di sé.

Da questo circolo vizioso non si esce. Uscirne con l’affermazione che i singoli soggetti possono e devono prendere atto degli altri soggetti sentendoli come propri, ponendoli, unificandoli, è un uscirne solo verbale: una formula teoretica, cui non corrispondono contenuti reali. Nella realtà concreta, se non si potesse pensare altro che se stessi, non si arriverebbe mai al “tu” e ogni cosa sarebbe illusoria, sarebbe nulla, tranne la realtà attuale del proprio io. Già il proprio io di cinque minuti fa sarebbe “altro”, inafferrabile, e quindi illusorio; e anche il proprio io futuro, e sia pure il proprio io fra cinque minuti. L’io non potrebbe né ricordare, né prevedere: non potrebbe fare nulla di nulla, tranne che contemplare se stesso, qui e ora, e identificare tale contemplazione con la realtà, indipendentemente dal grado di qualità ch’essa può avere. Non vi sarebbe differenza fra la realtà oggettiva e la realtà sognata, perché la realtà oggettiva non esiste, o è inattingibile all’io, il quale può sempre e solo attingere se stesso. La vita sarebbe sempre e solo sogno, come suggerisce Pedro Calderon de la Barca; e ciascuno di noi sarebbe sempre e solo “uno, nessuno e centomila”, come afferma Pirandello.

L’attualismo di Gentile è un super-pirandellismo, con tutti i suoi inevitabili accessori: il vitalismo assoluto (nulla esiste tranne il flusso dell’esistere), la dissoluzione dell’io, il crollo della distinzione fra vita e rappresentazione. È una filosofia folle, alla lettera. Prenderla sul serio, significa delirare. E lo diciamo con il massimo rispetto per Gentile, che aveva, almeno, il pregio della coerenza, e che non era pensatore da fermarsi a metà strada. Ma aveva imboccato un vicolo cieco, fin dall’inizio: partendo da Berkeley, e mescolandolo con Kant, aveva creato un cocktail indigeribile. Se  non esiste nient’altro che l’atto puro, che cosa siamo e che cosa stiamo facendo noi, qui, in questo momento? Stiamo forse cercando di conoscere qualcosa? Eppure, dovrebbe essere chiaro che noi non conosciamo nulla fuori di noi, perché l’io come atto puro dà solo e sempre io, e mai “tu”: una locuzione, questa, che piace poco a Gentile. Il quale, infatti, preferisce parlare di “io” al plurale…