Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’arma vincente delle guerre moderne è la propaganda

L’arma vincente delle guerre moderne è la propaganda

di Francesco Lamendola - 30/11/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Le guerre moderne hanno acquisito, via via, il carattere di guerre totali, ossia di guerre nelle quali una parte non si accontenta di sconfiggere l’altra, come nelle guerre del passato, ma la vuole annientare, e cancellare con essa anche l’ideologia che l’aveva sostenuta, sostituendovi la propria: e questo su scala planetaria e non più, o non solo, su scala locale, in accordo con la progressiva e ineluttabile globalizzazione di ogni aspetto della vita sociale, dall’economia alla finanza, dalla tecnologia alla cultura.

Per entrare più nello specifico: le guerre del XX secolo sono state quasi tutte guerre con una forte componente ideologica, nelle quali le tre grandi concezioni del mondo – quella democratica e capitalista; quella comunista; quella fascista – si sono date battaglia, e nelle quali la prima è riuscita vincitrice in maniera schiacciante; al punto che, negli ultimi anni, le guerre non sono state più combattute fra le potenze democratiche e degli stati che rappresentassero altri modelli politico-sociali, ma fra le potenze democratiche e dei soggetti privati, dei gruppi terroristici, delle bande di fondamentalisti religiosi, finanziati sottobanco da altri Stati e da servizi segreti insospettabili, ma privi, o quasi privi, dei connotati storici dello stato: un territorio (con la parziale eccezione dell’I.S.I.S.), delle frontiere, delle forze armate e di polizia, un governo riconosciuto, un sistema giudiziario, una moneta, una riserva aurea.

Tranne la Cina e la Corea del Nord, e, forse, la Russia, non esistono nazioni, oggi, che potrebbero reggere il peso di una guerra contro le democrazie (ed è per questo che verso di esse spingono i venti di guerra del terzo millennio; anche se, finora, è rimasto agli uomini politici quel minimo di buon senso per opporvisi, consci della gravità di simili eventuali conflitti). Ciò significa che il peso di una guerra totale, oggi, è essenzialmente psicologico: anche se gli armamenti e le risorse industriali e finanziarie sono, ovviamente, importantissimi, il fattore veramente decisivo, in caso di una guerra totale (non in quello di un conflitto breve e di carattere locale) è quello psicologico. Per condurre e sostenere una guerra totale, le popolazioni e l’opinione pubblica devono essere in grado di “sopportarlo”, indipendentemente dai fattori puramente materiali. Il Vietnam insegna: per vincere non bastano le portaerei, gli elicotteri da combattimento, i grandi bombardieri, e nemmeno le armi chimiche e batteriologiche, se l’opinione pubblica non è disposta a sopportare i sacrifici e la pressione morale di una guerra, compresa la possibilità della morte dei propri figli, magari ad una grandissima distanza dai confini della patria.

Ecco, allora, che la propaganda di guerra diventa l’arma decisiva per assicurarsi il vantaggio decisivo rispetto al nemico: quello di ordine psicologico e morale. Una propaganda che sia abbastanza abile, massiccia e capillare da soverchiare quella del nemico, equivale ad una cancellazione delle sue ragioni e ad una assolutizzazione delle proprie, con il probabile effetto di riuscire a convincere non solo la propria opinione pubblica, ma anche quella dei Paesi neutrali e, talvolta, persino quella del nemico. Non è forse quello che accadde con la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, nel 1918, e, venticinque anni dopo, con l’armistizio dell’Italia, nel 1943: ossia quando la propaganda del probabile vincitore riuscì a persuadere intere popolazioni “nemiche” a rivolgere il proprio malcontento contro i loro rispettivi governi, invece di continuare a lottare contro quello che non era più percepito come il “nemico”, ma, anzi, come il possibile liberatore da uno stato di cose ritenuto ormai intollerabile?

Ci basterà riportare una pagina di uno dei maggiori storici militari del XX secolo, Basil H. Liddell Hart (1895-1970), tratta da una delle sue opere più conosciute e apprezzate, «La prima guerra mondiale, 1914-1918» (titolo originale. «The Real War 1914-1918», Boston-Toronto, Little Brown & Co., 1930; traduzione dall’inglese di Vittorio Ghinelli, Milano, Rizzoli, 1968, 1999, pp. 412-413), Milano, Rizzoli, pp. 412-413):

 

«L’inizio del 1918 vide lo sviluppo, anche sul piano organizzativo, di un’altra arma psicologica: fu allora, infatti, che Lord Northcliffe, che aveva capeggiato la missione di guerra britannica negli Stati Uniti, fu nominato “Direttore della propaganda nei paesi nemici”, e per la prima volta la propaganda fu valutata e sfruttata in tutte le sue potenziali possibilità. Nothcliffe trovò l’arma migliore nei discorsi del presidente Wilson, che cin il loro idealismo - anche se con poco realismo  tracciavano invariabilmente una precisa distinzione tra la politica della Germania e il popolo tedesco e ponevano l’accento sulla volontà degli alleati di liberare tutti i popoli, compreso quello tedesco, dal militarismo. Quell’arma, bene affilata con l’aiuto del colonnello House fu abilmente maneggiata da Northcliffe per recidere i legami che tenevano unite le popolazioni dei paesi nemici ai loro governanti. Ma quei legami erano abbastanza solidi per resistere a una lama anche ben affilata, almeno finché a logorarli non fosse intervenuta una concreta pressione militare. Nel luglio del 1917, facendo leva sull’antimilitarismo e sui sentimenti ostili alla guerra diffusi in Germania, i discorsi del presidente Wilson provocarono una rivolta parlamentare, e sotto la guida di Erzberger il Reichstag approvò una risoluzione di pace che sconfessava solennemente le annessioni territoriali. Ma il solo effetto di questa rivolta fu di far saltare Bethmann-Hollweg, lo sfortunato personaggio che aveva svolto il ruolo di fune nel tiro alla fune fra i militari e i partiti politici. Di fronte alla ferrea volontà dello Stato maggiore generale i rappresentanti parlamentari del popolo tedesco erano altrettanto impotenti dell’Austria imperiale, che ormai ne aveva abbastanza della guerra da essa stessa provocata e non vedeva l’ora di uscirne. Questi approcci di pace non ricevettero una risposta concreta dalle democrazie. Il presidente Wilson, che parlava come loro portavoce, non si stancò di ripetere che le democrazie non avrebbero negoziato la pace con un’autocrazia militare. L’esortazione da lui lanciata ai popoli nemici affinché si liberassero da tale autocrazia era lodevolissima in linea di principio ma del tutto vana nella pratica, dato che era rivolta a uomini paralizzati da robuste manette, non a dei prestigiatori capaci  di far saltare ceppi e catene.

Nel mese di gennaio del 1918 vi fu, è vero, un importante tentativo insurrezionale: più di un milione di operai tedeschi presero parte ad un grande sciopero generale, ma la scintilla finì ben presto con lo spegnersi e addirittura con l’essere dimenticata nella nuova atmosfera di esaltazione creata dalla grande offensiva. Solo quando la macchina bellica avrebbe cominciato a sgretolarsi gli schiavi della macchina avrebbero potuto liberarsi dalla sua stretta, solo allora la propaganda avrebbe potuto aiutarli a liberarsi dalle catene. Forse solo allora un’attiva volontà di pace sarebbe subentrata al loro passivo atteggiamento di stanchezza nei confronti della guerra. La forza intrinseca del patriottismo militante consiste nel fatto che questo non è solo un bavaglio, ma anche una droga.»

 

La distinzione, da parte di una delle parti in lotta, fra i governi nemici e i loro rispettivi popoli, che non sarebbero considerati da essa come nemici, ma come popoli da “liberare”, è alla radice di una propaganda abbastanza abile da riuscire a persuadere l’opinione pubblica dei Paesi con i quali si è in guerra, che l’obiettivo del conflitto non è quello di punirli o di distruggerli, ma di punire e distruggere i loro governi. Una volta ottenuto questo vantaggio psicologico, il crollo morale del nemico è solo questione di tempo. Quanto all’effettiva intenzione di non trattare i popoli dei Paesi nemici in maniera punitiva, ma, anzi, di volerli “liberare” (dai loro stessi governi, descritti come ingiusti e oppressivi), questa è un’altra questione. La propaganda serve a vincere le guerre e a prevalere nel dopoguerra (non è il caso di parlare di “pace”), ma - come insegna Machiavelli – il fine giustifica i mezzi: pertanto, non bisognerebbe prenderla troppo sul serio. Di fatto, nessun vincitore si è mai mostrato del tutto coerente con le promesse fatte in tempo di guerra ai popoli nemici; ma chi gliene chiederà conto, una volta che a governare i popoli sconfitti siano salite delle forze politiche che devono, appunto, al benestare e all’appoggio dei vincitori, tutta la propria autorità e la propria legittimazione?

È significativo che anche Basil Liddell Haert, che pure è stato un grande storico e che aveva una notevole indipendenza di giudizio politico (al punto da dedicare l’edizione riveduta dell’opera summenzionata «a John Brown e alla Legione», ossia al sergente che contribuì a creare la Legione San Giorgio, forza armata di volontari britannici postisi agli ordini dei Tedeschi nella Seconda guerra mondiale), nemmeno lui, dicevamo, riesca a porsi in maniera neutrale e obiettiva rispetto a codesta arma psicologica, la propaganda appunto. È evidente, infatti, da come egli presenta la propaganda di guerra britannica del 1918, che non vede la benché minima differenza tra ciò che essa diceva, per provocare il crollo interno degli Imperi centrali, e la pura e santa verità delle cose: a tal punto egli si identifica con essa, perfino nell’atto di studiarla, a freddo e ad alcuni decenni di distanza dalle passioni di allora. I Tedeschi e gli austriaci erano gli “schiavi” della macchina bellica della “autocrazia militare”; che gli americani, gli inglesi e i francesi fossero gli schiavi di quella delle democrazie plutocratiche, è cosa che non sfiora nemmeno la sua mente di gentleman sinceramente democratico e, perciò, sinceramente desideroso di vedere liberi, o liberati, tutti i popoli del mondo, senza mai farsi domande politicamente corrette o imbarazzanti sulla bontà del proprio sistema politico.  Possiamo anzi considerare questo fatto, l’assoluta incapacità degli storici e dell’opinione pubblica a separare la verità dei fatti dalla propaganda di guerra, come la prova più spettacolare della tremenda efficacia della propaganda stessa, una volta che essa sia riuscita a fare breccia nell’opinione pubblica e una volta che si sia consolidata nelle coscienze, così dei vincitori come dei vinti, persino a distanza di molti decenni dal termine dei conflitti armati. E sottolineiamo “armati” perché i conflitti non terminano quando si asciuga l’inchiostro sulle carte dei trattati di pace: essi proseguono con la conquista dell’economia e del sistema di vita del vinto, da parte del vincitore, cosa che avviene senza clamore e senza bombe, silenziosamente e quotidianamente, da parte dei poteri finanziari e industriali, e solo raramente con l’intervento dei governi o degli eserciti.

I Tedeschi, dunque, nel 1914-1918, erano un popolo “in manette”. Questa è l’opinione di Liddell Hart, e questa è stata anche la tesi portata avanti dalla propaganda di guerra degli Alleati durante la Prima guerra mondiale. Coincidenza significativa; al punto che lo storico britannico trova “lodevolissima”, ma solo irrealistica, la propaganda alleata medesima: come potrebbe, un popolo in manette, ribellarsi ai propri aguzzini? Lo può, precisa giustamente Liddell Hart, solo quando la “pressione militare” giunge ad un livello umanamente insopportabile. Ed è per questo che, durante la Seconda guerra mondiale, i responsabili britannici e americani delle operazioni decisero, a partire dal 1943, di far bombardare senza pietà le città tedesche, italiane e giapponesi, con l’obiettivo di colpire non le installazioni militari (quasi sempre in caverna o, comunque, tali da non poter esser danneggiate in maniera irreparabile), ma proprio le popolazioni civili, in modo da produrre il numero più alto di vittime possibile. Bisognava spingere quei popoli alla rivolta contro i loro rispettivi governi. La tecnica funzionò con il popolo italiano, non funzionò con quello tedesco e con quello giapponese. Ciò significa che non riesce sempre; o che, per riuscire, deve essere accompagnata da una “pressione militare”, in taluni casi, particolarmente forte. Fino a che punto? Hiroshima e Nagasaki sono la risposta.

Liddell Hart non si chiede se le rivolte nell’esercito francese del 1917, o se le insubordinazioni sul fronte italiano prima e durante Caporetto, o se le diserzioni in massa nell’esercito russo, sempre nel 1917, non siano scaturite da un desiderio di pace altrettanto legittimo, quanti quello che spinse gli operai tedeschi allo sciopero generale del gennaio 1918. Liddell Hart, come tutti i fautori acritici della democrazia, usa costantemente due pesi e due misure: la sua mente è conformata in maniera tale da non sospettare nemmeno la propria incoerenza. Questo è tipico della presunzione intellettuale e della pretesa di superiorità etica inscritte nel pensiero democratico. Chi lotta per la democrazia è dalla parte del Bene, dunque ha ragione e merita di vincere; coloro i quali si oppongono alla democrazia sono schiavi del Male, e vanno puniti o redenti. Che lo vogliano o no…