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La bestemmia come non l’avete mai vista

di Stefano Sissa - 07/12/2015

Fonte: Arianna editrice


 

Sto leggendo Jung in questi giorni. In particolare in merito al rapporto simbolico tra l’animale e le figure archetipiche dello Spirito, inteso come dimensione ambigua che allo stesso tempo è inferiore alla coscienza umana, in quanto più primitiva, ma anche per certi aspetti superiore, in quanto non ancora rinchiusa nella ristretta e spesso sterile unilateralità dell’Io.
 Chi come me è cresciuto in un piccolo paese circondato dalla campagna sa quanto sia invalso tra la gente comune (soprattutto quelli di età matura) l'uso di bestemmie che associano il nome di Dio o altre figure religiose di primo piano con figure animali, in particolare suini e bovini, protagonisti dell’economia rurale. E’ un florilegio di espressioni legate al rapporto con l’animale: -vàca (vacca); -nimèl (maiale); -impéstè (chiaro riferimento a malattie epidemiche come la peste bovina o suina, viste anticamente come delle maledizioni o punizioni divine); -sgugiulè (ossia ‘privato dei porcellini’, presumibilmente destinati al macello; in tempi arcaici la scrofa e i porcellini tolti e sacrificati assumevano un significato rituale preciso; vi fa cenno Kérényi nei Prolegomeni allo studio della mitologia); -svintrè (sventrato, con ovvio riferimento al macello, ma anche ad una pratica rituale sacrificale),  -boia (riferito a chi uccide e sacrifica – vedi le considerazioni di de Maistre sul boia come agente sacrificale dell’ordine sociale; qui con interessante ribaltamento  simbolico tra chi uccide e chi viene ucciso; cosa che non stupirà affatto chi è pratico di psicoanalisi).
Si può vedere in questi epiteti dispregiativi la crassa negazione di ogni religiosità. A volte queste formule si riducono, in effetti, solo ad un gretto intercalare di persone rozze e sciocche. Ma non è solo questo; è anche il residuo inconscio di qualcosa di più antico e profondo, per nulla così sciocco. Già c’è chi ha detto che la bestemmia è una “preghiera al contrario”. Ladovve per ‘contrario’ qui non va inteso propriamente la profanazione, ma una sorta di invocazione/ingiunzione al contempo timorosa e minacciosa nei confronti della divinità:atteggiamento tipico delle culture arcaiche, in cui la figura divina non ha ancora assunto i connotati esclusivi della luminosità, ma presenta ancora i caratteri originari ambivalenti espressi dal concetto di sacro; ciò che ben conosce chi ha fatto studi di antropologia religiosa, o anche solo letto Totem e tabù di Freud.
Nelle culture arcaiche l’identificazione del dio con l’animale è un topos classico. La carne dell’animale ucciso e smembrato è la carne stessa del dio, offerta in sacrificio. La sua uccisione è allo stesso tempo una violazione dell’ordine naturale e un atto necessario, che richiede precise prescrizioni. Mio padre, classe 1943, di fronte alla scena del film Novecento di Bertolucci, in cui in seguito all’uccisione pubblica del maiale un adulto assesta uno schiaffo monitorio ad un bambino, mi ha raccontato di aver fatto ancora in tempo, da piccolo, a vedere coi suoi occhi scene analoghe.
Chi ha fatto esperienze di tipo mistico (e qui mi rendo conto di sforare rispetto al discorso puramente scientifico, ma non potevo tacere di questa cosa decisiva che mi è accaduta) avrà colto intuitivamente come in effetti l’intera vita animale è come ‘carne dolente del Dio’, e come in effetti nell’immane e millenario sacrificio animale in cui la vita divora se stessa e in particolare diviene olocausto a beneficio degli umani, è percepibile una corrente impressionante di amore e spesa di sé che procede dal principio divino verso le sue oggettivazioni più compiute (e con ciò, allo stesso tempo, più simili al principio divino e più drammaticamente lontane dal ricongiungimento con esso). Ciò non significa che questi olocausti debbano essere interminabili; al contrario, tale esperienza mistica suggerisce proprio come la coscienza universale ha da progredire, certo lentamente e non con facili soluzioni alla moda, verso un superamento di questo infinito banchetto di sangue, che un giorno sarà archiviato come una tappa superata e conservata (Hegel) della manifestazione dello Spirito a se stesso. Tutto questo lo si comincerà a cogliere quando apparirà a tutti come insostenibile ad ogni livello il modo atroce,  meccanizzato e desacralizzante in cui l’animale oggi viene ‘messo a disposizione’ dall’industria come se fosse una pura ‘cosa’.
Essendo ormai da anni approdato in sfere sociali fin troppo ‘civilizzate’, in cui la bestemmia (che unisce i nomi del dio con l’animale) è così diradata e insipida, sento quasi la nostalgia di quelle contrade in cui irrompeva invece con vigore, a segnare spesso, come un’invocazione paradossa, tutti i momenti significativi della vita quotidiana: dall’ira allo sconforto, dall’entusiasmo alla sorpresa.
La vera negazione del divino è l’assoluta sordità verso la dimensione sacrale. Non mi stupisce che tra le nuove generazioni anche la classica bestemmia folcloristica sia in declino: si tratta pur sempre di un richiamo ancestrale al nesso tra Dio, anima e animalità. Un nesso di cui noi siamo parte, anche quando pretendiamo, con adolescenziale protervia, di poterne fare a meno, di sovrastarlo, quando invece tutto ciò è solo impulso compensativo della nostra inferiorità, che si vorrebbe già vinta; e sarà vinta invece proprio quando accetterà fino in fondo di essere parte e non il tutto.