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Anche gli dèi, nel loro grande, si stufano dell’uomo immemore di sé. Per non dire delle termiti…

di Alessandro Giuli - 14/12/2015

Fonte: Il Foglio

In una freddissima e soleggiata mattina di gennaio, quasi sei anni fa, una persona di aureo conio nascosta ai più dalla corona delle montagne laziali mi disse che, sì, il Sole non smette di splendere perfino sulle esistenze più meschine, ma anche gli dèi si stufano, prima o poi, disgustati dagli uomini ingrati e dimentichi di sé. Non bisogna mai perdere il ricordo di sé. Quando Troia cade, dopo dieci anni di furioso assedio da parte degli Achei, il pio Enea e i suoi seguaci sentono che le divinità principali del loro Pantheon hanno abbandonato la causa e la casa di Priamo: un Fato avverso le muove al ritiro nei loro splendenti seggi, e questa legge inesorabile ha a che vedere con alcune mancanze di cui il principale lignaggio s’è macchiato. Perciò non sarà un discendente di Priamo, ma verrà Enea, virgulto del ramo cadetto, figlio di Venere e Anchise, ad attrarre il rinnovato consenso dei numi nel suo viaggio periglioso verso i lidi laurentini.

 

C’è una frase molto bella e troppo trascurata che lo storico Tito Livio fa pronunciare a Marco Furio Camillo nel celebre discorso con il quale il duce romano scoraggiò i quiriti dal trasferire l’Urbe, con i suoi pegni e i suoi sacri arredi, da Roma a Veio: “… deorum cultum deserti ab dis hominibusque tamen non intermisimus. Reddidere igitur patriam et victoriam et antiquum belli decus amissum”. Renato del Ponte, che di Livio ha appena curato un’edizione di passi scelti e commentati – Tito Livio Patavino, “Hic manebimus optime! Come Roma sopravvisse rimanendo fedele al suo genio”, Arya edizioni, Genova, 96 pagine, 18 euro – traduce così: “Per quanto abbandonati dagli dèi e dagli uomini, non abbiamo tuttavia interrotto il culto divino. Pertanto (gli dèi) ci hanno ridato la patria, la vittoria e l’antico onore delle armi perduto”. Siamo grosso modo nell’anno 390 prima dell’èra volgare, Furio Camillo ha appena riscattato non con l’oro ma con il ferro e l’accordo divino l’onta dell’invasione gallica, il sacco della città, la strage degli anziani e barbati patrizi rimasti impassibili nelle loro case, seduti come statue divine sui troni curuli in attesa che i barbari dilagassero. Come Enea, anche Camillo sa che i numi patrii hanno punito l’empietà mostrata dai quiriti in diversi episodi, e non sto qui a riepilogarli tutti, come fa Del Ponte, basti sapere che all’arroganza dei Galli i Romani opposero dapprincipio una guerra ingiusta, poiché furono i tre Fabii ambasciatori dell’Urbe a guidare i primi scontri fra gli Etruschi di Chiusi e i barbari capitanati da Brenno, anziché scongiurare il conflitto, o consacrarlo, secondo i riti del bellum pium. Camillo s’intende sia di guerra sia di pax deorum, vale a dire quel patto fondativo che unisce i mortali ai superi in nome di pietas e fides, giustizia divina e fedeltà: la traduzione corrente, e corretta, è “pace con gli dèi”; ma nella Roma esistente al di là dell’Urbe storica, Roma Aeterna, la pax deorum è pace fra dèi di rango differente, essendo comune l’origine stellare degli uomini e degli dèi.

 

Altre volte i numi vengono per così dire sedotti e arruolati alla causa dei conquistatori, ed è sempre Furio Camillo a dimostrarcelo quando, circa sei anni prima dell’invasione gallica, espugna la città etrusca di Veio attraverso un rito (l’evocatio) con il quale trasferisce a Roma la potestà e l’amicizia di Giunone Regina, divinità tutelare di Veio. Perché gli dèi non soltanto si stufano, ma si lasciano anche richiamare da quei mortali che sanno parlare la loro lingua, e i Romani anche in questo sono invincibili. Da qui nasce, dicono, la necessità d’imprimere un “nome occulto” alla divinità tutelare di un popolo o di una città. I Cartaginesi, cui non faceva difetto una certa attitudine magica, usavano per esempio incatenare le statue dei loro dèi, quasi che per legge di analogia si potesse così impedirne la trasmigrazione (il che in ogni caso non bastò a proteggere i discendenti di Didone dalle armi invitte del Marte romano).

 

Quando diciamo che gli dèi si stufano e si ritirano, oppure si volgono verso persone migliori cui destinare i loro favori, stiamo forse contraddicendo la lezione dei nostri padri epicurei, come Giulio Cesare o Callimaco Esperiente? No, gli dèi se ne stanno sempre lì, immoti e beati, sono gli umani – ripetiamolo! – a perdere il contatto che per via emanativa garantiscono i numi, genii o daimoni, e cioè le forze intermedie tra l’empireo celeste – o cielo occulto – e il mondo sublunare. Ma questa è teologia…

 

E oggi? Riporterò una volta di più la frase esemplare attribuita al neoplatonico Plotino: “Non vi è un Dio che combatta per quelli che non sono in armi”. Penso però che non sia sufficiente essere “in armi”, bisogna esserlo nel modo giusto e, in questi tempi disordinati, non vedo pietas et fides in circolazione. Non mancò, né manca pur adesso chi, come Camillo, ha continuato e prosegue nel culto divino alla maniera cantata dall’aristocratico nostro poeta prediletto, l’apollineo Pindaro: “Ma chi mantenne fides / con gioia ai giuramenti / presso gli dèi onorati / trascorre un’esistenza senza lacrime… / gli altri sopportano un dolore / orribile a vedersi”. Perché sappiamo bene come l’attuale parvenza di res publica sia retta da altri, e spesso per conto di altri ancora… Per costoro, come imparai in una freddissima e soleggiata mattina di gennaio, vale la voce dello schiavo Onesimo nell’Epitrépontes (“Coloro che si rivolgono all’arbitro”) del commediografo greco Menandro, e che voglio parafrasare così: “Considera quante oscure metropoli sono nel mondo e quanti invasori in quelle città. Vedi quante miriadi di termiti! E tu immagini che gli dèi si occupino degli affari di tutta quella gente? Ma tu vuoi sovraccaricarli di preoccupazioni: quale vita indegna degli dèi! Perfino quel loro dèmone rovente, lui così di bocca buona, si è stancato di cibarsene”.