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Aristotele non fu il teorico, ma l’affossatore dell’autentico spirito tragico

di Francesco Lamendola - 14/12/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni




 

Nella visione passata a noi attraverso il lavorio dei secoli, Aristotele appare come il massimo teorico dello spirito tragico: si tratta di una “verità” talmente acquisita che non ci si prende nemmeno più il disturbo di discuterne l’evidenza, dandola semplicemente per scontata. Ma è proprio così?

Ricordiamo che Aristotele, nella “Poetica”, focalizzando l’attenzione su due aspetti dello spirito tragico, la “mimesis” o imitazione da parte dello spettatore, e la “katharsis”, o purificazione attraverso lo scioglimento del dramma nel quale ci si è immedesimati, dà questa definizione della tragedia: «Tragedia è opera imitativa di un’azione seria, completa, con una certa estensione; eseguita con un linguaggio adorno distintamente nelle sue parti per ciascuna delle forme che impiega; condotta da personaggi in azione, e non esposta in maniera narrativa; adatta a suscitare pietà e paura, producendo tali sentimenti la purificazione che i patimenti rappresentati comportano» (1149 b 24-28).

In realtà, non tutta la cultura successiva è sempre stata d’accordo nel vedere in Aristotele il massimo maestro e precettista dello spirito tragico; non tutti pensano che egli abbia dato l’impronta più matura e più adeguata all’evoluzione del genere tragico. Vi è un filone minoritario che vede, al contrario, nel pensiero di Aristotele, non la teorizzazione suprema e definitiva, ma l’affossatore dell’autentico spirito tragico: vede un pensiero, cioè, che, per un eccesso di razionalismo e di mania classificatoria, ha misconosciuto e stravolto la vera caratteristica del tragico, in particolare togliendole la sua problematicità radicale e assoluta, che non si acquieta nella catarsi, perché esso non corrisponde a una ricerca di risposte – questo, semmai, sarà il compito della filosofia e della religione – ma alla riproposizione di una domanda incessante, che non chiede risposta, perché dubita che essa esista, almeno al livello della umana comprensione.

In altre parole: lo spirito tragico è la scoperta di una disarmonia nell’ordine del mondo, scoperta che si verifica allorché si presentano particolari circostanze storiche; in particolare, quando la filosofia e la religione non hanno ancora esercitato, o stanno cessando di esercitare, una funzione egemonica sulla coscienza degli uomini, e la società si trova in una condizione particolarissima, quasi di “vacanza” temporanea delle risposte tradizionali: quelle, appunto, fornite dal pensiero razionale e dalla fede religiosa.

Secondo questo filone di pensiero, lo spirito tragico non è il prodotto di un consapevole tentativo di formulare domande e di cercare risposte sul perché, o sui perché, dell’esistenza umana, bensì l’espressione immediata, primigenia, di uno scompenso, di un malessere, di una disarmonia, di una scoperta, appunto, tragica dell’esistenza: la scoperta che il senso della vita non è scontato, e dunque che esso va cercato di nuovo e sempre daccapo, indipendentemente da ogni certezza, o supposta certezza, fornita dalla tradizione; va cerato indipendentemente e audacemente, con sofferenza, con angoscia, sfidando – se necessario - gli dèi e la morale costituita, e sempre esponendosi ai contraccolpi e alle reazioni che un simile atteggiamento anticonformista, “blasfemo” (vedi il dramma di Antigone che vuol seppellire il cadavere del fratello Polinice, in opposizione alle leggi umane), inevitabilmente finisce per provocare.

Perciò, allo spirito tragico appartiene anche la fondamentale dimensione della solitudine. L’uomo scopre di essere solo, di non avere niente e nessuno né alle spalle, né davanti a sé; scopre che dèi e sacerdoti, filosofi e scuole, sono solo elementi creati per offrire risposte, cioè rassicurazioni, su ciò che non può essere esplorato sino in fondo, e che, pertanto, rifiuta, per sua stessa natura, rassicurazioni e razionalizzazioni: il regno del caos, dell’informe, del disordine, che ribolle sotto le apparenze rassicuranti del mondo ordinato, composto dalla ragione e “spiegato” dalla religione.

Così ha sintetizzato la questione Alessandro Serpieri, nella «Presentazione» al «Tito Andronico» shakespeariano (da: W. Shakespeare, «Tito Andronico», Milano, Garzanti, 1989, pp. XVII-XIX):

 

«La grande tragedia, scrive Jaspers (1952), sorge nelle età di transizione, sia in Grecia che nel mondo moderno, una volta sola in ciascun caso, e quasi in un rapido processo di autocombustione, finché si perde in forme estetico-culturali (epigonismo, teoria). Ma nel momento in cui si attua sembra che solo allora l’uomo abbia aperto gli occhi sul mondo, e ponendo le sue domande sul mondo abbia perduto la profonda serenità  e armonia col mondo delle età non tragiche, e si sia aperto lui stesso a una inquietudine che non ha appagamento. La tragedia è l’invenzione greca, anzi ateniese, di un modello formale, insieme letterario e teatrale, in cui un mondo drammatico costituito dai “sottomondi” dei personaggi - sottomondi cui appartengono tutti i sentimenti, le affermazioni, i giudizi e i valori che si trovano nel testo – e che consiste nel rapporto conflittuale di questi sottomondi, viene mostrato e non dimostrato, cioè non è veicolo di tesi o messaggi, ma solo si tensione che scatena domande alle quali non si dà risposta né, come la visione implica, vi è risposta possibile. […]

Il mondo della tragedia si sottrae a ogni spiegazione che non possa venire contraddetta da un’altra, appare estraneo a ogni certezza, a ogni dogma e sistema di valori, nemico della logica che pretenda di essere l’unico canale della conoscenza. Il suo senso globale è un’interrogazione e non un’asserzione, è una somma di inconciliabili che può formularsi razionalmente solo in modo precario e non definitivo. Visione sinottica, cosmica, profondamente agnostica, immagine di immagini del mondo, forma principe dell’ambiguo, della scepsi, dell’ironia, e simbolo del mistero della vita. Questa è la visione tragica quale si manifesta nella tragedia ma in seguito anche in altre forme  letterarie, ad esempio nella narrativa di Melville e Dostoevskij. Ciò che l’autore tragico ci trasmette è il suo senso tragico del mondo. […]

I tragici greci operarono, è legittimo pensare, in una congiuntura favorevole i cui coefficienti furono la natura non dommatica né costrittiva della religione greca, la fase di libero sviluppo del pensiero tra teologia arcaica e dommatismo logico dei grandi sistemi filosofici, la formulazione di un’etica della polis di contro all’antica etica dei “gennaios”, la situazione della democrazia ateniese e la sua organizzazione della cultura tra le vittorie sui Persiani e la catastrofe peloponnesiaca. In queste condizioni essi adoperarono come materiale i miti con la loro carica di universalità  (un mito è come i vangeli, asserisce qualcosa che è certo, presuppone un assenso immediato e una fede) e con un processo di problematizzazione, di avvicinamento e allontanamento (Vernant),  li ristrutturarono in forma tragica.  Furono essi a inventare la rappresentazione pluralistica dell’anima (Nilsson, Dodds, Snell, Untersteiner, Vernant) e del “multi verso” umano, logico e alogico,  terreno e divino, estremamente pregevole e vano. Ma oltre a  inventare la rappresentazione della psiche e dei suoi rapporti che è ancora in gran parte alla base del pensiero moderno, essi diedero voce alla prima forte esigenza di libertà  della mente umana che si scopre autonoma  da rivelazioni e dogmi, si interroga su se stessa e getta, come scrisse Nietzsche, “uno sguardo nell’essenza delle cose”. Perciò è profondamente errato chiamare Eschilo un teologo ed Euripide un razionalista. I tre tragici greci che conosciamo incominciano a essere fraintesi  o contrastati già in vita dai primi grandi filosofi etici (Socrate e Platone) e non furono più capiti quando, al volgere del V secolo, tramontò in Grecia l’immaginazione tragica insieme alla congiuntura che l’aveva resa possibile. Il loro massimo affossatore fu Aristotele, la cui “Poetica” (scritta  tra il 334 e il 323 a. C.), lungi dall’essere, come ancora si ritiene, il prototipo della teoria del tragico, è il primo documento dell’eclissi della visione tragica. Se è indubbia la sua importanza come parte del sistema aristotelico e come primo tentativo di  teoria dell’arte e dei generi, per quel che riguarda la tragedia greca del V secolo la “Poetica” è un modello storico di lettura assai fuorviante: essa è di fatto un tentativo di rendere intelligibile qualcosa che non si capiva più, espurgando le opere tragiche della loro “aloghìa”, di tutto ciò che non era “logos”, razionalizzando una visione fondata sulla coscienza dei limiti della ragione, moralizzando un mondo fantastico che rifiutava le certezze morali, riducendo il mito a mero intreccio e imponendo le regole della verosimiglianza e del naturalismo. La famosa definizione aristotelica della tragedia è una definizione in cui manca il tragico (E. Gouhier). La catarsi, concetto del tutto inutile alla conoscenza e allo studio della tragedia, ha suscitato una sterminata controversia che “è una delle vergogne dell’intelletto umano, un monumento grottesco alla sterilità” (John Morley citato da Lucs). Starobinski in “Tre furori” ha sottolineato la riduzione della tragedia di Aiace alla storia disgraziata di un malato, e infine di un pazzo, nei “Problemata” aristotelici (XXXI, 1) e nella “Satira” II, 3 di Orazio. Questa incomprensione della tragicità la “Poetica” e le sue appendici, come l’”Ars poetica” di Orazio, l’hanno portata sempre con sé attraverso la storia: dovunque appaia la “Poetica” coi commenti dei suoi cultori, là scompare la tragedia. Essa porta con sé quella sopraffazione del “Logos”, incurante dell’empiria, che già vi notava Bacone, e che è stata denunciata da Heidegger e da Colli. Essa sottrae alla tragedia la colpa, il destino, l’ironia, la dimensione divina. Aristotele aveva un’idea evemeristica del mito e riteneva il pantheon greco un utile strumento di governo: la tragedia è ridotta alla formalizzazione razionalistica, verosimile, naturalistica e sensazionale di un’esperienza di umana sventura, presente come un “exemplum” a fini etici e terapeutici, e in conclusione qualcosa di più vicino al dramma neoclassico e borghese che alla tragedia greca. La quale, dice Jaspers, è uccisa dalla filosofia e dalla religione.»

 

Abbiamo detto, più sopra, che lo spirito tragico non cerca risposte, perché non crede che esse siano concesse agli uomini; questo, però, non implica che le risposte non esistano in assoluto, ma che sono precluse, di fatto, alla nostra comprensione. Non è una differenza di poco conto: le risposte alle domande dello spirito tragico, probabilmente, le sanno gli dèi; e, se non le sanno neppure gli déi, sono scritte nel libro del Fato, che è superiore agli stessi dèi: non abbiamo forse visto turbarsi Zeus, il re degli Olimpi, sul destino di morte che incombe sul suo figlio mortale, Sarpedonte, nei versi del XII canto dell’«Iliade»? Questo è l’autentico spirito tragico: turbarsi davanti alla incomprensibilità drammatica del mondo, alla durezza inaccettabile del destino umano, e alla assoluta mancanza di riposte che siano accessibili alla nostra mente e al nostro cuore.

Il mito è la forma adeguata per esprimere questo turbamento, questa angoscia, questa disperazione esistenziale, che caratterizzano il tragico come “moderno” per eccellenza. Come l’uomo moderno, l’uomo tragico antico è colui che cerca affannosamente le risposte, sapendo che non gli saranno date; che bussa incessantemente ad un portone, pur sapendo che esso rimarrà chiuso per sempre e che quei colpi risuoneranno invano, nel vuoto abissale dei millenni e dell’universo intero. Eppure, da qualche parte, la risposta deve esserci; solo che essa non è tale da potersi rivelare agli uomini: da ciò la loro angoscia, da ciò la loro disperazione costituzionale. E che essa sia costituzionale, appare dal fatto che la risposta non potrà essere trovata, né al presente, né mai; e che, ciò nonostante, generazioni e generazioni di uomini e donne torneranno a porsi le stesse domande, con la medesima angoscia e con il medesimo struggimento, proprio come è già stato fatto innumerevoli volte prima di loro. Giungiamo così alla paradossale scoperta che il mito non è l’opposto del pensiero moderno, ma che è parente di esso, perché nasce da una medesima disposizione spirituale: dal rifiuto delle spiegazioni razionali e religiose del mistero del mondo, e dalla assunzione tragica e solitaria della impossibilità di pervenire alle risposte ultime.

Eppure, se vi è una somiglianza nell’atteggiamento psicologico, vi è una distanza abissale di prospettiva e di disposizione interiore. L’uomo tragico antico sa che non potrà trovare alcuna risposta, e quindi, in un certo senso, sa che il suo destino sarà quello di cercare senza trovare; mentre l’uomo moderno, impregnato di razionalismo isterilito e di religiosità avvizzita, pensa che il suo destino sia pur sempre quello di trovare le risposte, e pertanto non accetta il silenzio degli dèi, né l’impotenza della ragione, ed entra in conflitto radicale con se stesso. L’uomo moderno, pertanto, è perfino più tragico dell’uomo tragico antico: egli ha istituzionalizzato la propria disperazione e ha stabilizzato la propria angoscia; ma, rifiutando il mito, si è condannato all’inferno del disincanto…