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La protesta di Pound, per Vittorio Vettori, è ben più credibile di quella di Marcuse

di Francesco Lamendola - 14/12/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

Ora che la spietata dittatura delle banche e della speculazione finanziaria sta mostrando apertamente tutta la sua arroganza e la sua insaziabile voracità, ci si guarda intorno e si cerca un modello alternativo, un punto di riferimento che permetta di contestare credibilmente l’anima distruttiva del capitalismo, beninteso senza la coda di paglia di tanti intellettuali marxisti o ex-marxisti che hanno, o avevano in mente, un sistema politico-sociale ancora più orribile e totalitario, se possibile, di quello che si prefiggevano di rovesciare.

Per i giovani del ’68, il grande guru era il filosofo Herbert Marcuse; e, se il ’68 si è sviluppato come sappiamo ed è finito come sappiamo, forse sarebbe il caso di chiedersi cosa ci fosse che non andava nella ideologia della contestazione di quegli anni, a cominciare da quei leader, pratici o ideali, da Cohn-Bendit a Sartre, da Mao a Marcuse, appunto - dei quali milioni di giovani cercavano e utilizzavano l’affilata “pars destruens”, senza andare troppo per il sottile a verificare se tali personaggi possedessero non solo la caratura, ma soprattutto la credibilità e la coerenza, per essere presi a maestri, cioè come coloro che sanno indicare la strada.

Strano accecamento: in nome della rivolta antiborghese si andava a pescare nel torbido di ideologie criminali ed anti-umane, popolate di dittatori mancati o riusciti, di pensatori più o meno ortodossi rispetto al marxismo, comunque espressione di un modello politico-sociale totalitario, poliziesco, che, in nome di un preteso fine di giustizia, non si curava minimamente dei mezzi da impiegare, anche i più sporchi, e pretendeva di spacciarsi come progressista e moralmente superiore al nemico che si prefiggeva di abbattere. Una presunzione alla quale i nipotini del ’68 non hanno abdicato nemmeno dopo il clamoroso fallimento dei loro sogni; fallimento che però non ha segnato, guarda caso - almeno in moltissimi casi - le loro brillanti carriere universitarie, giornalistiche e letterarie.

Un grande letterato italiano, purtroppo ancora oggi quasi sconosciuto al grande pubblico, e che fu sempre tenuto ai margini dei bei salotti intellettuali ove spadroneggiava la sinistra marxista, nonché dai grandi mezzi d’informazione, Vittorio Vettori (nato a Strada in Casentino, provincia di Arezzo, il 24 dicembre 1920, e spentosi a Firenze il 10 febbraio 2004), umanista, poeta, saggista, autore di centinaia di opere e grande studioso di Dante, osservava, nel suo libro su Ezra Pound, che quei giovani, se avessero cercato un po’ meglio, con meno conformismo - e magari, aggiungiamo noi, con meno cattiva coscienza -, avrebbero ben potuto trovare nel poeta dei «Cantos» un autentico modello di rivolta anticapitalista, coerente e credibile, perché basava la sua contestazione non su un totalitarismo uguale e contrario a quello plutocratico, ma su di una economia del lavoro e sul primato dell’uomo rispetto a ogni imposizione esterna.

Ne riportiamo un passaggio saliente, che si presta a utili riflessioni di estrema attualità e, magari, a qualche ripensamento critico da parte di quanti, nei decenni passati, hanno esercitato in Italia una lunga e infeconda egemonia culturale, idolatrando una ideologia sbagliata che nemmeno ora, a molti anni di distanza, hanno il coraggio e l’onestà di dichiarare finalmente tale (da: V. Vettori, «Ezra Pound e il senso dell’America», Roma, Ersi Editrice, 1975, pp. 12-14):

 

«Scrivendolo [il suo saggio su Pound e lo spirito americano], non ho pensato neanche per un solo istante di andare incontro ai gusti del pubblico né di acquistare titoli di merito presso i potenti. Mi sono invece proposto (ambizione indubbiamente maggiore, ma anche, mi si consenta, più rara e gentile) di ribadire alcune mie convinzioni, nel riproporre energicamente il “caso Pound” (e il problema del’americanismo, da cui quel caso non può essere ragionevolmente separato) soprattutto ai giovani che vengon su ora e che sono le vittime più allarmanti e drammatiche degli squilibri e delle contraddizioni  in cui si dibatte la società contemporanea.

Sta di fatto che Pound offre un modello di contestazione infinitamente più efficace di quello offerto da Marcuse: un modello fondato sulla libertà operativa e sulla concreta universalità della cultura e non sulla  sua subordinazione formule velleitarie e faziose, sull’equità di una legge ispirata  dal senso della comune dignità di ciascuno  e di tutti e non sugli arbitrii dettati  dal rancore o dalla paura, su un’economia riformata a misura d’uomo e non sulla pianificazione faraonica dell’avvilimento e dell’ignoranza.

E c’è da aggiungere che il carattere esemplare di Pound sta anche e soprattutto nella sua umanità disarmata e scoperta (pur se, apparentemente così aggressiva), tale da non concedere margini a mitizzazioni di sorta, per operare piuttosto come un lievito che come un cibo, e situarsi così nella storia della cultura come un “progetto” dinamico e non come un’immobile statua.

Ogni possibile feticismo nei confronti di Pound è scongiurato da Pound stesso se non si vuol essere sordi e ciechi, attraverso quella sua nativa attitudine provocatoria che ce lo mostra sempre vivo ed intero, con le sue ingenuità e intemperanze, con le sue virtù e i suoi difetti. […]

Esistono tre modi di essere poeti e scrittori.  Un modo è quello di estraniarsi dai problemi dell’epoca in cui si vive per coltivare il proprio campicello di parole alla ricerca di una  vuota perfezione formale o di effetti  comunque privati, sul piano di quella immarcescibile “arcadia” che, anche se si traveste coi panni dell’avanguardia,  è sempre un fenomeno reazionario. Un altro modo è quello di fare da “mosche cocchiere”, accettando un qualsiasi impegno civile strettamente condizionato e quindi irrimediabilmente passivo. Un terzo modo è quello di partire dalla poesia e, più ampiamente,  dalla cultura, per incidere sulla realtà storica  in termini appunto di poesia e di cultura.  Questo terzo modo è il modo di Pound.

Grande poeta per diritto di nascita, egli ha capito il compito indicativo e creativo della poesia: e, in una stagione di uragani, ha voluto convivere  coi suoi simili sul filo di una responsabilità totale, affidando alla forza di un’alta voce ammonitrice il messaggio dell’avvenire, e mescolando le proprie musiche incessanti con tutte le questioni  vitali del nostro tempo.

Per questo, se ci si vuole avvicinare davvero a Pound, bisogna intendere in primo luogo la dimensione planetaria della civiltà che si va preparando, se è scritto che la civiltà abbia, malgrado tutto, un futuro.»

 

Questa è la giusta – vorremmo dire, la sola - maniera di accostarsi a Pound, come uomo, come poeta e come intellettuale: vedere in lui lo scrittore impegnato, ma non impegnato nella sola dimensione dell’immediato e del contingente; perché questo non sarebbe veramente  ”impegno”, ma “conformismo”; sarebbe, come osserva troppo giustamente Vittorio Vettorti, come fare “la mosca cocchiera” degli eventi, ad esempio della rivoluzione.

Ci sono poeti che amano fare le mosche cocchiere – i Majakovskij, gli Éluard, i Brecht – e che sono stati applauditi, ammirati, celebrati dal secolo cortigiano e banale; ve ne sono stati altri che si sono estraniati del tutto dalle cose di quaggiù e si sono rivolti alla pura dimensione spirituale – e forse sono stati i migliori, o, quanto meno, i più dignitosi e coerenti, quelli che non hanno mai confuso e mescolato le carte dell’arte con quelle dell’ideologia, e che non si sono mai lasciati sedurre dalle attrattive della gloria mondana, restando ostinatamente fedeli a se stessi e alla loro missione: la missione della poesia eterna.

Ezra Pound non appartiene certamente alla prima schiera, ma neppure alla seconda: egli, come osserva Vettori, fa parte di quei poeti che partono dalla poesia per arrivare fino al cuore dell’uomo, della sua inquietudine, dei suoi bisogni, delle sue speranze, del suo anelito di verità; di quei poeti per i quali la poesia è vita, è civiltà, è umanità, è tutto; e da quel tutto non vogliono, né possono, lasciar fuori niente e nessuno; che non temono di sporcarsi le mani e di mostrare come la civiltà e l’umanità non possano fare a meno della verità e della bellezza, e di come la poesia e la vita non siano neppure pensabili al di fuori di tutto quanto – come diceva Terenzio – ci coinvolge, proprio perché è umano.

Vi sono, in Pound, una vastità di concezione, una vastità di orizzonti, una vastità di comprensione del fenomeno umano, che lasciano sbalorditi. Quasi nessuno, fra i moderni, è a lui paragonabile: per trovare un poeta che abbia la sua stessa ampiezza di respiro, la sua stessa passione totalizzante per l’uomo, il suo stesso spirito profetico, mistico, escatologico, bisogna rimontare i secoli all’indietro e tornare fino a Dante. Solo pensando ai «Cantos» come all’equivalente moderno della «Divina Commedia»; solo vedendo in Pound il moderno Dante Alighieri, l’intellettuale-cittadino che pensa alla sua città e alla sua patria, ma pensa, insieme ad esse, al mondo intero, e non solo al mondo terreno e alla vita terrena, ma anche al mondo ultraterreno e alla vita eterna: solo allora si arriverà a mettere a fuoco la poesia di Ezra Pound, nella giusta prospettiva, e a comprendere sino in fondo il suo significato non solo strettamente poetico, ma umano e universale.

Pound, come Dante, ha visto e misurato la malattia dell’uomo che si è allontanato da Dio: l’usura; e come l’autore della «Commedia», che, nella lupa del primo canto del poema, ha rappresentato questo vizio capitale dell’umanità, che divora gli uomini e le nazioni e le civiltà e mai non si sazia, perché, dopo il pasto, ha più fame di prima; come Dante, dunque, egli innalza il suo monito e la sua esortazione, cerca di scuotere le anime addormentate, di rincuorare i dubbiosi, di infondere loro le ragioni della fede e della speranza; ricordando loro che non fu l’usura, non fu la maledetta avidità di guadagni sempre più grandi, a erigere le meraviglie dell’arte, a creare i monumenti imperituri della bellezza, ad animare il soffio eterno dell’ispirazione e della fede nei valori durevoli, in quel tesoro che i ladri non possono trafugare, né la ruggine intaccare, perché non é fatto di metalli preziosi o di umane ricchezze, ma di puro spirito e di anelito verso l’infinito.

Pound è stato una voce che grida nel deserto, un gigante smarrito in una foresta di nani, un autentico poeta in una folla di chiacchieroni e mestieranti, o, peggio, di furbetti travestiti da poeti, di mosche cocchiere, d’intellettuali eunuchi che hanno levato la loro voce stentorea quando il nemico era già abbattuto e non c’era più niente da rischiare; quando la storia sembrava dar loro ragione, perché la storia non ha mai fretta e consente sempre agli imbecilli di cullarsi a lungo nei loro sogni voluttuosi, prima di risvegliarli bruscamente e di svergognarli senza pietà. Pound è stato una specie di profeta biblico in pieno XX secolo: come Giovanni il Battista, che, sulle rive del Giordano, apostrofava le folle vestito con una rozza pelle di cammello, non ha preteso la gloria per sé, ma si è limitato a predicare il risveglio delle coscienze e la conquista della consapevolezza che, sola, rende la vita degna di essere vissuta.

Il trattamento che ha subito da parte dei vincitori temporanei, l’essere rinchiuso in una gabbia a cielo aperto, come un animale, sotto il sole e la pioggia; l’essere trascinato in catene come un malfattore, accusato di alto tradimento, processato, dichiarato pazzo per non doverlo condannare e così offrendo un perfetto alibi ai campioni della democrazia, che hanno scansato la necessità di dover incarcerare il loro più grande poeta: tutto questo è in linea con le sue scelte coraggiose di uomo e di poeta che non appartiene solo al suo tempo, solo alle passioni, alle illusioni e alle speranze del suo tempo, ma che ha saputo abbracciare , attraverso il suo temo, l’umanità di ieri, di oggi e di domani, l’umanità di sempre, in quello che essa sa costruire di più alto: i valor ella civiltà, della bellezza, della ricerca disinteressata del vero. In questo senso, l’americano Pound è stato l’ultimo grande poeta europeo; con lui sembra chiudersi, ahimè, la grande e gloriosa stagione della civiltà europea, che è stata maestra al mondo per parecchi secoli – fino a quando il cancro maligno dell’avarizia non ne ha disseccato, dall’interno, la linfa vitale.

È così. I Brecht e i Marcuse parlano al loro secolo: sembrano grandi sul momento; poi, mano a mano che l’acqua scorre sotto i ponti, la loro statura rimpicciolisce, rimpicciolisce, e alla fine li si vede per quel che realmente sono stati: dei piccoli uomini, dei piccoli poeti, dei piccoli filosofi. Per uomini della stoffa di Ezra Pound accade il contrario: son trattati da pazzi o da delinquenti perché vedono molto più lontano dei loro censori e dei loro accusatori; ma la loro voce acquista sempre più forza e risuona con sempre maggiore attualità e urgenza proprio con il trascorrere del tempo. E questo, non il plauso pecorile dei contemporanei, è il segno inconfondibile dell’autentica grandezza.