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Ma è proprio vero, come dicono i filosofi del linguaggio, che senso e verità sono cose distinte?

di Francesco Lamendola - 21/12/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

 


 

Secondo i filosofi del linguaggio, il senso e la verità di una proposizione sono due cose distinte: una proposizione può avere un senso, ma non essere vera. Possiamo affermare che in questa stanza, sotto le sedie, ci sono dei sacchetti di smeraldi: la proposizione ha un senso; ma può essere benissimo falsa, perché quei sacchetti potrebbero non esservi affatto. In pratica, per sapere se è vera o falsa, non abbiamo altra strada che quella della verifica empirica: cioè rovesciare le sedie o andare a sbirciare al di sotto di esse. Potremmo anche affermare che i pinguini vivono al Polo Nord: la proposizione è dotata di senso, perché in essa non vi è niente di insensato, niente di illogico o di contraddittorio; è solo l’esperienza che ci fa escludere che sia vera, e ciò senza nemmeno bisogno di recarci al Polo Nord per verificarla, dal momento che tutti sanno che i pinguini vivono al Polo Sud e mancano del tutto nell’emisfero Nord.

Pertanto, i filosofi del linguaggio dicono che una proposizione è vera se esistono i fatti che in essa vengono rappresentati, falsa, invece, se  non esistono. Poi aggiungono che tutte le proposizioni sono suscettibili di venir ridotte a delle proposizioni elementari, cioè che enunciano un singolo fatto (oppure una serie di fatti logicamente collegati fra loro). Se al Polo Nord vi sono i pinguini, la proposizione è vera; se non ci sono, allora è falsa. Il metodo è empirico, non logico: la logica entra in ballo per il collegamento dei fatti tra di loro, in sequenze o catene che li innalzano allo statuto ontologico di fatti complessi. Wittgenstein era convinto che, per conferire un senso a una proposizione, bisogna che i fatti che essa vuole descrivere siano sensati, non che siano sensate le parole, i segni con i quali quei fatti vengono espressi. D’altra parte, nel linguaggio – in qualunque linguaggio – non si può separare la connessione tra le parole come segni, cioè come significante, e le parole come fatti, cioè come significato. Una proposizione ha senso, cioè significato, se ce l‘hanno i fatti: intendendo, come fatti, sia il significato che il significante racchiusi in una determinata proposizione.

Una critica di fondo a codesta impostazione del problema gnoseologico può essere diretta a far notare che, per i moderni filosofi del linguaggio, il mondo non è un insieme di cose, ma di fatti, e di fatti che devono essere traducibili in concetti e in parole. Ludwig Wittgenstein, ad esempio, nelle proposizioni terza, quarta e quinta del suo «Tractatus logico-philosophicus», sostiene che: a) l’immagine logica dei fatti è il pensiero; 2) il pensiero è la proposizione munita di senso; c), la proposizione è una funzione (nel senso matematico di relazione fra due insiemi numerici) di verità delle proposizioni elementari. Di conseguenza, ciò che non si può tradurre in pensiero e in parole, non deve nemmeno essere detto (settima e ultima asserzione principale del «Tractatus»), anche se lo stesso Wittgenstein sostiene che il mistico è l’ineffabile, ciò che non si lascia afferrare e significare dal linguaggio, ma mostra sé stesso direttamente, senza la mediazione del linguaggio. Addirittura, non manca chi ritiene che il «Tractatus» sia un’opera essenzialmente mistica, o che vada letta in senso mistico (cosa in se stessa contraddittoria, visto che per Wittgenstein il mistico è ciò che non si può esprimere mediante il linguaggio: ma una tale contraddizione, evidentemente, non spaventa affatto simili ermeneuti).

Ora, il sottile ma significativo slittamento di prospettiva (e di significato) di una tale impostazione consiste nel volgere lo sguardo dal “mondo”, in se stesso (nel senso del “noumeno kantiano”) al mondo come insieme dei fatti, ossia delle proposizioni semplici, munite di senso e perciò traducibili in concetti e parole. Ne consegue che una cosa, per avere il diritto di esistere, deve avere un senso e la si deve poter tradurre in pensieri comunicabili mediante il linguaggio.

A ben guardare, è questo l’esito estremo – e paradossale - del neopositivismo, secondo il quale solo ciò che è spiegabile razionalmente vale il disturbo di essere preso in considerazione; ma anche del neoidealismo, secondo il quale non è l’essere a creare il pensiero, ma il pensiero a creare l’essere. Hegel e Comte, con tutti i loro rispettivi epigoni, finiscono per darsi la mano, rivelando, alla fine dei conti, che le loro filosofie sono molto più vicine l’una all’altra, di quel che non paia ad uno sguardo distratto: perché dietro ogni idealista (nel senso filosofico del termine) c’è uno scientista insoddisfatto, e dietro ogni scientista, un idealista in potenza. Non è forse, il delirio d’onnipotenza dell’idea, una manifestazione particolare del delirio d’onnipotenza della scienza?

Quel che è andato smarrito lungo la strada è la nozione originaria di “fatto”. Un fatto, nel linguaggio comune, ma anche nel linguaggio filosofico tradizionale, è una realtà che sussiste in se stessa, indipendentemente da colui che l’osserva (o che potrebbe anche non osservarlo, senza che, per questo, il fatto scompaia, o cessi d’esistere). In altre parole, la filosofia è possibile solo a condizione di ammettere l’essere quale fondamento del tutto: senza di esso, i fatti si riducono da cose e cose pensabili e traducibili in linguaggio – il che, evidentemente, non è la stessa cosa. Però, siccome quasi tutti i filosofi hanno tacitamente o esplicitamente deciso di sospendere l’essere, o, quanto meno, di “metterlo tra parentesi”, come una semplice ipotesi che non può sorreggere alcuna certezza, perché bisognosa essa stessa d’essere dimostrata), il “delitto” è stato quasi prefetto e nessuno, o quasi nessuno, fra il pubblico, sembra essersene accorto. Per cui esiste ancora una disciplina che si chiama “filosofia”, la quale viene insegnata nelle scuole e nelle aule universitarie, e sulla quale si scrivono libri e si tengono simposi, conferenze, seminari, come se fosse perfettamente viva e vegeta e come se godesse di una credibilità non molto diversa da quella che possedeva ai tempi di Platone, o di Tommaso d’Aquino, o di Kant. Invece essa è morta, e i moderni filosofi del linguaggio – così come quasi tutti gi altri filosofi “moderni” – altro non fanno che rimestare fra le ceneri ormai fredde d’un fuoco spento da moltissimo tempo.

Ma torniamo alle proposizioni dei filosofi del linguaggio e alla questione sul senso e sulla verità, da cui eravamo partiti.

Scrive, a questo proposito, Julius R. Weinberg in «Introduzione al positivismo logico» (titolo originale: «An Examination of Logical Positivism», London, Kegan & Co.; traduzione dall’inglese di Ludovico Geymonat, Torino, Einaudi, 1950, pp. 62-63):

 

«La proposizione, tanto parlata che scritta, è una serie di suoni o di segni; è perciò un gruppo di fatti e non un fatto singolo, poiché evidentemente, se la connessione  fra due suoni è un fatto singolo,  la connessione tra gruppi di suoni è un gruppo di fatti. D’altra parte la proposizione, quando la si usa con significato, forma un tutto unico. Orbene, se i fatti sono indipendenti uno dall’altro, come è possibile derivare un fatto  individuale da una collezione di fatti? Eppure Wittgenstein insiste che bisogna proprio fare questo, perché dice che “soltanto i fatti possono esprimere  un senso, mentre una classe di nomi non lo può”, e ancora che “la proposizione è un fatto”. Deve dunque essere possibile avere un fatto composto di altri fatti, qualcosa che sembra incompatibile con l’indipendenza dei fatti. L’unica spiegazione ammissibile di ciò, è che due fatti distinti possano essere composti degli stessi  oggetti come per esempio nel caso dell’illusione del cubo reversibile. La proposizione, come vera e propria entità, quale sta sulla carta, può essere considerata come una serie di fatti (cioè  come una serie di segni o suoni), mentre invece, quale simbolo, è un unico fatto. Prendete, per es., la proposizione “Socrate ama Alcibiade”; essa, presa nella sua oggettività effettuale, è una serie di fatti “S-o-c-r-a-t-e a-m-a…”; come simbolo, invece, non è una serie di fatti ma un solo fatto “S-a-A”, cioè un complesso di tre elementi. Ma in un caso e nell’altro è composta dagli stessi oggetti.

La connessione essenziale fra linguaggio e realtà empirica è, così, stabilita, dimostrando  il carattere raffigurativo delle proposizioni che hanno un riferimento empirico. Il senso di una proposizione è il metodo di verificarla;  è cioè l’indicazione di ciò che essa rappresenta, se vera. Il senso e la verità sono distinti, essendo possibile intendere una proposizione, senza sapere se essa è vera. Il senso delle proposizioni empiriche è la possibilità che esistano i fatti  da esse raffigurati. Fin qui tutto è abbastanza chiaro.

Ma si presentano ora diversi problemi. In che modo sappiano che tutte le proposizioni sono riducibili a proposizioni elementari? È possibile mostrare che le proposizioni elementari concernono esclusivamente la raffigurazione empirica? Il passo seguente, nella filosofia di Wittgenstein, consiste appunto nella dimostrazione che tutte le proposizioni sono riducibili a proposizioni elementari e che queste riguardano soltanto fatti empirici. Come è ovvio, ciò limita il linguaggio alla rappresentazione dei fatti empirici.»

 

Dicevamo che la filosofia è morta e che quasi tutti i filosofi fanno finta che essa sia ancora viva, la interrogano, dissertano sul reale, scrivono opere nelle quali illustrano ciascuno la propria visione del mondo: di fatto, si comportano come degli eredi di una grossa fortuna i quali, dopo averla interamente dilapidata, non si facciano alcuno scrupolo di continuare a firmare cambiali scoperte, sapendo molto bene che, con ciò, rifilano carta straccia ai loro creditori. Se il linguaggio si limita alla rappresentazione dei soli fatti empirici, di grazia, qualcuno è in grado di dirci come codesti filosofi abbiano ancora il coraggio (o piuttosto la faccia tosta) di scrivere ancora dei libri e di intrattenerci con le loro teorie? Potrebbero farlo a una sola condizione: di ammettere che nulla esiste, né potrebbe esistere, al di fuori dei fatti empirici: il che sarebbe un materialismo integrale, rigoroso; diciamo meglio: un panteismo intransigente e assoluto.

Tuttavia, se costoro non sono disposti a trarre le logiche conseguenze delle loro teorie; se non sono disposti ad ammettere che tutto il reale è razionale, e che tutto il razionale è reale (come volevano Hegel e Croce), intendendo per “reale” solo ed esclusivamente i fatti empirici (come sostengono essi), come è possibile che costoro ci vengano ancora a parlare di filosofia? A rigore, avrebbero solo il diritto di parlare del linguaggio: non dovrebbero definirsi dei filosofi del linguaggio, ma dei linguisti assoluti: così come, per coerenza, gli idealisti – diceva Jacques Maritain – non dovrebbero più parlare di filosofia, ma, appunto, di “ideosofia”, non ammettendo altra forma d’esistenza e altra modalità dell’essere, né altra manifestazione del pensiero, che non sia l’Idea pura, l’Io penso (cfr. il nostro articolo: «L’ateismo è l’esito ultimo e consequenziale di tutta la filosofia moderna», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 02/02/2014, e sul «Corriere delle Regioni» il 02/02/2014).

La tragedia del pensiero moderno è tutta qui, in questo corto circuito che nessuno (o pochissimi) ha il coraggio di denunciare apertamente, chiamando le cose con il loro nome. Una volta che si sia ridotto il “mondo” al mondo dei significati, si separa il pensiero dall’essere ed il pensiero, sopraffatto da un delirio di onnipotenza, pretende per sé il primato ontologico: pretende di fondare il reale. Naturalmente, in questa prospettiva, l’uomo si esalta, perché ritiene di essere il depositario del pensiero: e guarda ogni cosa dall’alto al basso, come se fosse Dio, anzi, ritiene Dio stesso una sua creazione (così come Hegel proclamava la superiorità della sua “filosofia” – che è, invece, una “ideosofia”, sulla religione). Ma, così facendo, si perde anche il senso dell’esistenza umana, nonché il senso della filosofia, che si riduce a non-filosofia. Un grande filosofo oggi quasi sconosciuto o dimenticato, Cornelio Fabro (il massimo studioso italiano di Kierkegaard) lo aveva perfettamente visto, compreso e denunciato: e una pagina di Fabro vale assai più di tutta l’opera dei vari Derrida, Foucault, Althusser, Cacciari ed Eco messi insieme.

La moderna filosofia del linguaggio è, puramente e semplicemente, non-filosofia. Allo stesso modo, l’opera di Pirandello è non-letteratura e non-teatro; così come la teologia di Bonhoeffer è non-teologia. Certo, si può aggirare l’ostacolo, giocando sulle parole; si può parlare di “meta-teatro”, di “teologia negativa”, e via farneticando; si può parlare di “pensiero critico” o di “rivoluzione copernicana della filosofia” (e, naturalmente, di “svolta antropologica” in teologia); si può parlare anche di “arte informale” o di “poesia ermetica” e spacciare qualunque sgorbio e qualsiasi discorso in versi, per quanto incomprensibile, per “vera” arte e “vera” poesia, finalmente riscoperte dopo secoli di mistificazione e di pedissequa sudditanza al principio di autorità. Eppure, gira e rigira, il punto è sempre quello: se non si fonda ogni cosa sull’essere, si costruiscono solo castelli di sabbia...