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Il crollo del Terzo Reich attesta l’impossibilità di superare il nichilismo?

di Francesco Lamendola - 28/12/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni

Si dice, e si ripete, che la civiltà contemporanea è impregnata di nichilismo, che è intossicata dal nichilismo, che il nichilismo è il suo orizzonte e il suo destino; sembra quasi che il nichilismo sia una categoria astorica, piovuta sulla Terra dal cielo, come un meteorite, come un corpo estraneo, e che nulla e nessuno potranno mai scrollare di dosso all’Europa contemporanea il suo fardello, la sua condanna, la sua maledizione. Eppure, il nichilismo è, in primo luogo, un atteggiamento, una disposizione, un orientamento spirituale, così del singolo individuo, come del corpo sociale e delle stesse civiltà; e, come tale, esso ha una origine, una causa, o una serie di cause, individuate le quali, si può anche pensare a quali forze sollecitare, su quali energie latenti fare leva per contrastarlo e per scongiurare il destino finale del nichilismo stesso: l’autodistruzione.

Ebbene: anche se tracce e avvisaglie di una tendenza nichilista sono ravvisabili, nella cultura e nella civiltà europea, fin dagli inizi della modernità (ma non nel “buio” e “oscuro” Medioevo!), c’è un momento abbastanza preciso in cui quelle tendenze prendono il sopravvento e sembrano improntare tutto il clima, spirituale e intellettuale, del nostro tempo: il sorgere e il crollare dei totalitarismi del XX secolo, con le loro promesse fallaci e la loro raffinata umiliazione dell’essere umano. Il nazismo, i campi di sterminio, il genocidio degli Ebrei, in modo particolare, sono divenuti il punto ideale di non ritorno della civiltà occidentale: ci si è chiesti, spesso retoricamente, quali terribili virus dovesse contenere una civiltà, che era arrivata a produrre Auschwitz: e si è concluso che un eterno, incancellabile senso di colpa avrebbe dovuto accompagnare le generazioni future, da qui all’eternità. Ci si è chiesti perfino se Dio, dopo Auschwitz, esiste ancora; se abbia ancora un senso parlare di Lui, pronunciare il Suo nome. Se ne è tratta la conclusione che scrivere poesie, dopo Auschwitz, è impossibile; che la civiltà moderna è imperdonabile e la sua vergogna rimarrà in eterno; che il suo destino deve essere l’autodistruzione; e che nemmeno allora il debito verrà sanato, e perfino allora essa scenderà nella tomba gravata dalla tremenda responsabilità di ciò che ha fatto.

In questo modo, si sono create le condizioni per l’avverarsi della profezia circa la sua autodistruzione. Come Edipo, che non avrebbe ucciso suo padre, né sposato sua madre, se una terribile predizione non fosse gravata su di lui sin da bambino, mentre fu appunto il tentativo di sottrarsi a quel destino – fuggendo lontano – che lo spinse in braccio ad esso; allo stesso modo, dopo aver ripetuto, fino all’ossessione, che la civiltà moderna è colpevole, malvagia, esecranda, la si è spinta sempre più vicina all’orlo dell’abisso, e ci si accinge, allorché vi sarà precipitata, a rimproverarle la sua cecità, la sua follia, la sua mancanza di senso del limite, affinché nulla, nemmeno l’ironia, venga a mancare al suo sconsolato epitaffio.

Un simile destino è ancora più difficile da eludere, se si considera che quel che viene rimproverato alla civiltà occidentale non è, semplicemente, di aver reso possibile il nazismo, con tutti i suoi crimini, ma proprio ciò a cui il nazismo – come, del resto, il comunismo, il fascismo, il liberalismo, l’anarchismo, il capitalismo, lo scientismo, il positivismo - ha cercato di dare una risposta: il vuoto spirituale, il senso di solitudine e di sradicamento, l’alienazione e la spersonalizzazione dell’uomo moderno. In altre parole, si è voluto colpevolizzare non solo il risultato (aberrante) di quel tentativo, ma proprio il tentativo in se stesso: quasi che la civiltà occidentale avrebbe fatto meglio a starsene buona e tranquilla, mentre i germi della dissoluzione la straziavano a sangue ed essa, annaspando nel vuoto, tentava disperatamente di trovare una via d’uscita ai suoi mali e alle sue paure, e si sforzava di restaurare una immagine mitica del mondo e una visione spirituale della vita.

Così, dunque, ricapitolava la questione Stefano Zecchi, nel suo bel volume «Sillabario del nuovo millennio» (Milano, Mondadori, 1993, pp.52-56):

 

«È possibile che la splendida cultura del tempo di Goethe abbia avuto come esito il nazismo? Cosa è accaduto alla grande tradizione borghese europea per lasciarsi annientare dal comando di Hitler? E questo processo di dissoluzione quando incomincia a corrodere la cultura cristiana e umanistica che ha costruito la nostra civiltà europea? La Germania, madre dolorosa della modernità, non dà pace ai suoi figli, li costringe continuamente ad interrogarsi sulla grandezza e il declino dell’Occidente.

C’è sempre un momento nella storia degli uomini in cui la difesa della propria tradizione  culturale vuol significare che tutto ciò che è accaduto non è stato vano, che il tormento, la gioia, l’odio, l’amore folle e smisurato per affermare la realtà di una passione continuano a vivere e ad avere un senso. Ma quando, guardando indietro, si pensa di appartenere ad una tradizione non più recuperabile, che il destino non dà nessuna spiegazione e nemmeno l’ombra di una motivazione s ciò che è stato, allora la ricostruzione di un’identità perduta e dimenticata diventa impossibile e rimane soltanto l’angoscia dello sradicamento, la desolazione e la solitudine vissute come incubo quotidiano.

Nietzsche alla fine dell’altro secolo si chiedeva se l’Europa voleva se stessa oppure aveva rinunciato alla propria identità. Per la generazione di giovani poeti, pittori e musicisti, come Stefan George, Egon Schiele o Alban Berg, che vivevano in epoca precedente alla prima guerra mondiale, l’intero mondo cristiano-borghese era già spaccato molto tempo prima di Hitler. Ed è significativo che a trasformare questa diffusa coscienza della decadenza e del trapasso - il nichilismo europeo – nel tema di fondo della filosofia del nostro secolo, sia stato un tedesco, Nietzsche appunto, e che soltanto in Germania questa filosofia abbia raggiunto la sua compiuta radicalità. Ma Nietzsche, finché è stato in grado, ha sempre combattuto l’idea germanica di Bismarck, e se avesse potuto si sarebbe opposto al paganesimo senza mito del nazismo, e il suo Zarathustra avrebbe deriso chi voleva costruire la forza dell’Occidente sulla purezza di un’unica razza. Quando il partito di Hitler prese il potere, la sua propaganda si preoccupò subito di mostrare l’inversione di un processo:  contro la coscienza della disgregazione e del tramonto furono usate parole come “risveglio”, “rottura”, “insurrezione”, per sottolineare che se l’epoca borghese stava per finire, qualcosa di nuovo stava nascendo. Il nazionalsocialismo si presentava come superamento del nichilismo, ereditando e riscattando la tradizione europea moderna che ha nella cultura tedesca un punto di riferimento fondamentale. Ma ciò che è accaduto ha indotto il filosofo tedesco Theodor Adorno a dire ce dopo Auschwitz non sarebbe più stato possibile una poesia, perché qualunque opera avrebbe portato con sé i segni della colpa, della colpa di appartenere alla tradizione culturale che ha condotto all’Olocausto. Ai suoi figli, la miseria e la grandezza della Germania, la sua ambizione e il suo fanatismo,  la sua vita e la sua intelligenza, consegnano così la complessità di un mondo che  sembra arrestarsi, che dichiara la resa dopo la tragedia. Le devastazioni  della guerra sono allora l’atto finale di una logica  e rigorosa conseguenza della logica della storia tedesca? Il crollo del Reich mostra l’impossibilità del superamento del nichilismo?

Rispondere affermativamente significa ammettere di appartenere ad una tradizione non più recuperabile, di cui ora non rimane più nulla, neppure la disperazione: ciò che può aiutare è soltanto un atteggiamento scettico, una posizione intransigente di fronte a quello che accade e che può ancora accadere. Verso questa soluzione si è orientata la grande maggioranza degli intellettuali tedeschi che hanno visto il 1933 come un’improvvisa infrazione della razionalità della Storia, come la fine disastrosa di quell’ideologia borghese della sicurezza tanto amata da tutti.

È troppo facile allora scoprire improvvisamente l’orrore e decretare la fine di una tradizione nei campi di battaglia e di concentramento, sostenendo, poi, che la libertà dell’esistenza può essere garantita soltanto da un disilluso abraccio al nulla. È chiaro che così non solo non si può capire quello che è accaduto politicamente, ma soprattutto non si comprende neppure perché alcuni grandi, Gottfried Benn, Ernst Jünger, lo stesso Heidegger o - fuori della Germania - Pound, Céline, si fossero illusi, anche solo per poco, che il nazismo potesse ereditare e difendere la tradizione dell’Occidente, rinnovando la visione simbolica del mondo appiattita dal sentimento diffuso della decadenza e del tramonto. Era rischioso, però la scommessa era su qualcosa di essenziale: si doveva guardare alla vita del cosmo come a ciò che dà senso alla vita umana, si doveva dare forma a un sentimento che lucidamente e disperatamente avvertiva che ogni “prima” e “dopo” della Storia scompaiono sulla scala del’eternità. Alla fine, certo, fu una grande illusione, che celava, però, l’esigenza reale di definire un rapporto organico tra l’uomo e la tecnica, in grado di far ritrovare identità e nuova forza creativa nella nostra tradizione.

Nessuna politica democratica, nata dalle macerie della guerra, è riuscita non tanto a risolvere, ma soltanto a pensare questo problema. Ciò che invece è accaduto ha costruito la solida certezza che chiunque avesse cercato di riannodare i fili spezzati tra le mani di Jünger, di Benn, di Spengler, avrebbe portato con sé i segni della colpa di appartenere ad un’idea di cultura e di politica che aveva condotto all’Olocausto. È stata così cullata, più o meno consapevolmente, un’altra illusione, e cioè che l’unica cultura degna di rispetto fosse quella impegnata nella denuncia e nella critica ad oltranza, quella che pretende di negare il significato mitico di ogni cosa del mondo e di annullare il valore simbolico dell’esistenza e del nostro incontro con gli altri.»

 

Insomma: Pound e Céline non erano dei pazzi, Jünger e Heidegger non erano degli stupidi, Spengler e Gentile non erano degli sconclusionati; né lo erano Hamsun, Drieu La Rochelle, Brasillach; e neppure Alessandro Pavolini, o Berto Ricci, o Ugo Spirito: e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Quel che unisce la maggior parte di questi uomini è stato il tentativo di rinnovare la tradizione dell’Occidente, rievocare la visione simbolica del mondo, restaurare l’universo del mito. La tradizione, il simbolo, il mito, non sono affatto cose cattive; al contrario: sono ciò che ha permesso alla civiltà europea di nascere, di svilupparsi, di evolvere e di offrire nutrimento spirituale e materiale a innumerevoli generazioni di Europei. La pretesa di stabilire una equivalenza fra codesti sforzi di restaurazione e quel che, in pratica, hanno fatto i nazisti, una volta giunti al potere, è un’operazione intellettualmente disonesta, culturalmente meschina e moralmente riprovevole: però essa ha avuto successo e i suoi corollari sono stati adottati dalla cultura dominante in tutte le nazioni occidentali, con la parziale eccezione di quelle anglosassoni (sostenuti dall’alibi di aver combattuto contro il nazismo; e poco importa se lo hanno fatto in maniera barbarica, e, per giunta, alleandosi con una ideologia altrettanto criminale del nemico, quella marxista-leninista).

L’ultima cosa di cui aveva bisogno l’Europeo continentale era di vedersi gettare sulle spalle l’ulteriore fardello di una condanna morale senza appello e di un senso di colpa praticamente inestinguibile. I suoi passi erano già divenuti sempre più incerti e il suo sguardo sempre più appannato, per un insieme di ragioni stoiche, sociologiche, psicologiche, economiche, culturali: l’avvento dello scientismo, del capitalismo moderno (specialmente finanziario), della società di massa, della catena di montaggio, dell’urbanizzazione selvaggia, la distruzione della civiltà contadina, la profanazione del sacro: tutto questo aveva già spinto gli Europei verso l’odio di sé stessi, di cui la Prima guerra mondiale era stata la prima esplosione, tragicamente eloquente nella sua sconfortante grandiosità. Le deliranti “avanguardie” artistiche, il relativismo etico, l’indifferentismo religioso, le farneticazioni del cinema e del teatro dell’assurdo o della crudeltà, la pazzia delle filosofie idealiste, il “cupio dissolvi” dell’esistenzialismo, la denigrazione sistematica dei valori positivi, il disprezzo del passato e della tradizione, la derisione della serietà della vita, lo schiamazzo, la beffa, la provocazione sistematica (si pensi al teatro sedicente “impegnato” di un Dario Fo), tutto questo aveva già portato la civiltà europea, gravata dal rimorso per le due guerre mondiali, sull’orlo dell’odio di sé. Ciò di cui essa aveva bisogno erano parole di pace e di speranza, di fede nel domani, di doverosa, ma serena riflessione sui propri errori e di coraggiosa, tenace ricerca delle proprie radici, dei propri sentieri interrotti, di riconquista della propria coscienza. Le vengono date in pasto, invece, solo parole di condanna, di mortificazione, di auto-castrazione e di esecrazione. Dobbiamo ringraziare la genìa degli intellettuali per quest’opera nefasta, che prosegue tuttora, dietro il velo ipocrita dei buoni sentimenti. E proprio costoro pretendono di fare la morale…