Immanuel Wallerstein: l'11 settembre va inserito all'interno di una transizione cominciata molto prima. Ma le società occidentali non sono più le stesse. E da allora è diventato chiaro che il lessico della politica è tutto da reinventare
Immanuel Wallerstein non ha certo bisogno di molte presentazioni. Docente a Yale, è uno studioso che fa dell'interdisciplinarietà il suo marchio, ha nella sua quarantennale attività messo a punto la teoria del sistema-mondo in numerosi libri, dal trittico sulla formazione dell'economia mondiale pubblicato in Italia dal Mulino ai saggi sul capitalismo storico (Alla scoperta del sistema-mondo è edito da manifestolibri, 2003). Non tutti sanno che Wallerstein, animatore del Fernand Braudel Centre assieme a Giovanni Arrighi, ha iniziato la sua attività di studioso come storico dell'Africa. Esperienza che lo ha aiutato, successivamente, a guardare all'economia dal punto di vista delle interdipendenze tra le singole realtà nazionali. Parlare con lui dell'11 settembre costringe appunto ad assumere una prospettiva mondiale. E sull'attacco alle Torri Gemelle ha sempre avuto una posizione fuori dal mainstream . In alcuni saggi ha infatti affermato che il crollo del World Trade Centre non ha cambiato il corso della storia. Ed è da questa affermazione che ha avvio l'intervista.
In passato lei ha invitato spesso a una certa prudenza nel considerare l'attacco alle Torri Gemelle come un evento che ha cambiato il corso della storia. Crede dunque che l'11 settembre non sia stao un evento rilevante per gli assetti del sistema-mondo?
Anno dopo anno, è una domanda, questa, che ritorna sempre con insistenza a ridosso dell'11 settembre. L'attacco alle Torri Gemelle non ha cambiato nulla nel sistema-mondo. Ma subito dopo aggiungo: ha cambiato molto nei rapporti tra gli stati e nella vita all'interno delle società. Può apparire una contraddizione sostenere che il crollo del World Trade Centre non si caratterizza come «evento» con la forza di cambiare un sistema-mondo e poi affermare che invece la vita all'interno di quel sistema è cambiata tantissimo. Eppure contraddizione non c'è. Un sistema-mondo è il risultato di un processo di lunga durata che vede all'opera protagonisti molteplici, dalle realtà economiche a quelle statali, dai conflitti di classe allo sviluppo scientifico. Potremmo dire che si sviluppa secondo logiche evoluzioniste, ma non è sempre così: ci possono essere accelerazioni nella sua formazione, deviazioni, rallentamenti. L'attuale sistema-mondo sta in una fase che in altre sedi ho definito di transizione. Il centro dell'economia si sta spostando verso il Pacifico, dando vita a conflitti - politici, interstatuali, economici, culturali - che vedono coinvolti gli Stati Uniti, ma anche l'Europa e l'Asia. Stanno inoltre emergendo nuovi stati, come la Cina, che competono per acquisire posizioni di leadership mondiale. In America latina abbiamo assistito a cambiamenti politici quasi impensabili solo venti anni fa. Allo stesso tempo il controllo delle fonti energetiche vede il confronto tra multinazionali e stati spesso in conflitto tra loro. Tutti questi sono processi in atto da ben prima dell'attacco alle Twin Towers. Potremmo dire che l'11 settembre può essere considerato all'interno di questi processi, ma che non li ha significativamente modificati. Ciò che invece l'11 settembre ha davvero cambiato è la vita all'interno delle nostre società: Basta pensare alle leggi varate per la lotta al terrorismo. E poi la guerra. Gli interventi in Afghanistan prima, in Iraq poi sono stati giustificati a partire del crollo delle Torre Gemelle. Forse ci sarebbero stati anche senza l'11 settembre, ma la loro legittimità è stata costruita a partire da quell'attacco.
Ma questa relazione di causa e effetto tra l'11 settembre e le guerre in Afghanistan e in Iraq si interrompe quando il governo Usa si pone l'obiettivo della costituzione di un nuovo ordine mondiale.....<7b>
Con la guerra permanente, George W. Bush vuole costruire un nuovo ordine mondiale. Ma gli Stati uniti non la stanno vincendo. La cacciata dei talebani da Kabul non ha infatti significato la loro sconfitta, così come la caduta di Saddam Hussein non ha visto la fine delle ostilità militari in Iraq. Anzi possiamo dire che le attività di guerra si sono intensificate il giorno dopo che i comandi militari statunitensi hanno detto che l'obiettivo era stato raggiunto. Non so se la guerra è diventato l'unico strumento che regola i rapporti tra gli stati. Storicamente la guerra si è sempre alternata alla diplomazia. Quello che è certo è che queste guerre hanno reso visibile al mondo la potenza militare degli Usa, ma anche la loro crisi.
Alcuni studiosi hanno malignamente sostenuto che gli Stati uniti hanno fatto la guerra per rilanciare la loro economia. Lei che ne pensa?
Sarei portato a dire che hanno ragione. Ma anche in questo caso c'è da aggiungere che non è detto che riescano a superare la crisi economica. Le imprese e le merci statunitensi stanno perdendo la loro competività e non basta certo mandare le truppe all'estero per risolvere questo problema. Certo, possono esserci dei effetti benefici nel breve, ma non nel lungo periodo. Inoltre, le scelte di politica economica di questi ultimi anni sono state all'insegna della continuità: ridimensionamento del welfare state e a favore delle multinazionali. Ma il declino economico degli Stati uniti non è stato arrestato. Non dico che assisteremo a un collasso, ma è indubbio che il made in Usa non è più competitivo.
E come è cambiata la società americana? Dopo l'11 settembre sono state introdotte leggi contro il terrorismo che hanno accresciuto il potere della Fbi, della Cia e della Nsa. Questo ha indubbiamente cambiato il rapporto tra i cittadini e lo stato. Inoltre, si pone il problema della crisi del multiculturalismo. Lei che pensa?
Che l'Fbi, la Cia e la Nsa abbiano visto accresciuto il loro potere è indubbio. Che le leggi contro il terrorismo abbiano modificato il rapporto tra i cittadini e lo stato è altresì vero. E questo non vale solo per gli Stati uniti. I cambiamenti introdotti nelle legislazioni sulla sicurezza nazionale, sull'immigrazione, sulla regolazione della mobilità interna e esterna riguardano anche altri paesi. Ma ciò che è rilevante per gli Usa è un altro aspetto. L'immagine di una nazione stretta attorno al suo presidente e unita dietro la bandiera è stata sapientemente costruita all'indomani dell'11 settembre. Ma non coincide molto con la realtà. La società americana si è divisa su come interpretare e rispondere all'attacco da subito. Sicuramente questa divisione è stata nascosta, ma è continuata a permanere nell'opinione pubblica. Il recente discorso di Bush che ammette l'esistenza di prigioni segrete all'estero, che accetta di applicare la convenzione di Ginevra per i prigionieri di Guantanamo sono il sintomo di una difficoltà dell'amministrazione rispetto alle critiche del suo operato da parte dell'opinione pubblica. Il problema per gli americani ora è quale rapporto stabilire con il resto del mondo. George W. Bush ha sostenuto, nel recente passato, che gli Stati uniti avevano una missione: portare, anche con le armi, la democrazia nel mondo. Ora dice che tutto ciò è stato fatto per garantire la sicurezza nazionale. Un cambiamento non da poco. Credo poco all'immagine di un paese stretto attorno al suo presidente. Quello che constato è la sua crescente difficoltà di fronte all'opinione pubblica.
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