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Siamo alla Terza Repubblica?

di Carmelo R. Viola - 12/09/2006




Della Prima Repubblica si è detto tutto il male possibile e un poco di ragione c’era, non tanto per il consociativismo, accordo bipartisan tra i poli classici della maggioranza di allora (DC e PCI) quanto per la persecuzione clericale (siamo ai tempi di Don Basilio e della potente Azione Cattolica, presieduta dal prof. Luigi Gedda) e per quella, certo ancora più grave, antioperaia, legata al fatidico nome di Mario Scelba e ai suoi prodi (ma non troppo) “scellini”, autori di vere e proprie stragi. Tuttavia, su una cosa ci si trovava d’accordo: che lo Stato potesse essere anche un “padre sociale” e pensare ai cittadini come a dei “figli”. Donde le nazionalizzazioni (radici delle socializzazioni) - come quella dell’Enel - che costituirono eventi epocali.
Ma proprio sulla negazione di questa dimensione si è dato vita alla Seconda Repubblica (come se la carta costituzionale fosse polivalente) aprendo l’infelicissima èra delle privatizzazioni, cioè della desocializzazione dello Stato attraverso il progressivo trasferimento della produzione di beni, servizi e infrastrutture ai privati. Lo Stato “sociale” diventa un mostro burocratico freddo, inumano, più che mai criminògeno. La caduta dell’Urss incoraggia la borghesia e la Chiesa cattolica. L’ufficio del lavoro e della massima occupazione verrà abolito. Il lavoro che, per essere fondamento della Repubblica, può essere organizzato solo dal pubblico potere, cessa di essere protagonista per diventare merce, anzi strumento. Si comincia a parlare dell’Inps - mi pare, una delle opere socialmente utili del regime fascista - come di una cassa incapace di seguire i lavoratori invece di progettare come potenziarla ed ampliarla. Con l’introduzione del mercato del lavoro e della sua precarizzazione oltreché dell’abolizione del posto fisso (che stava per “occupazione permanente”) e, infine, con la liberalizzazione dei prodotti del lavoro privato (vedi decreto Bersani dell’attuale governo sedicente di centro-sinistra), siamo in piena Terza Repubblica, non più fondata sul lavoro e quindi sulla figura del lavoratore (art. 1) ma sull’impresa affaristica (art. 41) ovvero apertamente sugli uomini di affari e sui banchieri.
Alla Costituzione, opera delle forze della vera sinistra, succede la Costituzione, opera delle forze più retrive, provandosi come di Costituzioni ne sono state approvate ben due. Ha vinto la peggiore. Il lavoratore, è vero, è sempre stato uno strumento passivo per lo sfruttamento, solo che mentre prima poteva sperare in miglioramenti, ora lo è in maniera definitiva e conclamata. Uomini di affari e banchieri ne comprano le prestazioni nella misura in cui ne hanno bisogno e al minor costo possibile e lo Stato non è in condizione di promettere la piena e costante occupazione e meno che mai un’adeguata pensione. La piena occupazione fu un sogno “romantico” del sindacalista Luciano Lama. I sindacati fanno sempre più pena: la loro azione è segnata da un limite rigoroso oltre il quale farebbero della politica. I lavoratori - sentite! sentite! - sono invitati a provvedere ad una pensione integrativa contraendo una specifica assicurazione anche nella condizione di disoccupati o di precari. Se non ce la fanno, peggio per loro. Faranno l’accattonaggio. Del traguardo della piena occupazione non se ne parla più: è appunto un problema “romantico”. Di altri tempi. Abbiamo già dieci milioni di sottopoveri. I poveri quanti sono? Ma ci sono auto sufficienti per coprire l’immagine del bisogno e il pianto che lo accompagna.
La versione scientificamente esatta e incontrovertibile dell’art.1 della Costituzione, è la seguente: “L’Italia è una Repubblica a legittimazione elettorale fondata sullo sfruttamento del lavoro e sulla refurtiva”, insomma su quella che la biologia sociale dice “predonomia”. Invito i vari sedicenti economisti, che pullulano come vermi negli anfratti del nostro habitat, a sconfessare quella definizione e a fornirmi quella dell’economia vera.
L’intellighenzia (assai poco intelligente) del potere dominante esulta quando gli uomini d’affari della Fiat aumentano i loro conti anche se ritroviamo auto perfino sui pianerottoli dei condomini: dimenticavo, ancora non hanno trovato il modo di farli posteggiare anche colà. E’ di questi giorni l’ennesima esultazione ufficiale per un evento affaristico: la fusione di Banca Intesa con la S. Paolo Fini, forse locuzione per dire che la più grossa “ha mangiato” la più piccola secondo le leggi della predonomia. E’ possibile un esubero di merce-lavoro, cioè una riduzione dell’effetto secondario dello sfruttamento del lavoro, su cui la letteratura padronale-servile continua a scrivere pagine di alleluja per santificare e celebrare gli uomini d’affari, eterni salvatori della patria, sempre esposti al rischio di ricevere l’onorificenza di “cavalieri della Repubblica”! In ogni caso la disoccupazione è uno dei dettagli marginali rispetto a quello centrale del Pil (prodotto interno lordo).
Ma torniamo all’attuale fusione delle due suddette banche. La banca è uno degli istituti che non ha niente a che vedere con l’economia. Essa nacque con la originaria predonomia quando i primi uomini d’affari non sapevano come conservare i frutti del loro sfruttamento (magari della raccolta dell’oro). Il depositario pensò bene di prestare i soldi ad usura e così si fusero usura e ladrocinio. Ma ad un livello superiore di civiltà, la banca sarebbe dovuta scomparire. Al contrario, è cresciuta fino a diventare un potere nel potere, se è vero che vi ricorrono gli stessi Stati e se è vero che le maggiori centrali “monetocratiche” del mondo sono in grado di condizionare perfino la politica internazionale.
Da giovane imparai che la ricchezza è il prodotto del lavoro e solo di questo. Questo significa semplicemente che ogni danaro - con la sola eccezione del superfluo recuperato dallo Stato con il fisco - è “ricchezza di lavoro non pagato”. Gli interessi bancari, i dividendi azionari, i premi milionari dei giochi televisivi, i compensi favolosi dati a calciatori e a persone dello spettacolo, sono matematicamente tutta refurtiva ovvero ricchezza proveniente da lavoro non pagato. Quando un’impresa fa buoni affari, eccola entrare in borsa: ma cosa mette in gioco se non della refurtiva nel tentativo di acquistarne dell’altra?
Se c’è un economista che possa confutare l’affermazione che la ricchezza è il prodotto del lavoro, si faccia avanti e mi corregga. Ma se non c’è, le cose stanno esattamente come ho scritto e pertanto parlare di “Stato di diritto” è soltanto una barzelletta per i posteri. Personalmente, non ho mai constatato che la moneta lieviti da sé per quanto la faccia ben riposare! In uno Stato socialmente paterno ed etico basterebbe un semplice dicastero della moneta, strumento passivo da usare solo per distribuire in maniera equa e secondo bisogno i beni e i servizi del lavoro di tutti gli abili a tutti i membri di una collettività senza disoccupati, senza poveri e senza “berlusconi”. Se questa è un’utopia, vuol dire che la specie umana è malata e avviata al suicido collettivo.