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Come le piante cercano il Sole, così l’anima istintivamente cerca il bello

di Francesco Lamendola - 04/01/2016

Fonte: Il Corriere delle regioni




 

L’anima umana è assetata di bellezza, come le piante cercano il Sole: ed è una sete assolutamente naturale, anteriore a qualsiasi educazione, estetica o meno che sia: lo prova il fatto che il bambino, fin da piccolo, cerca ed apprezza le cose belle a preferenza di tutte le altre. In una risma di fogli, è attratto da quelli colorati; in un mazzo di fiori, dai più graziosi e profumati; sul greto del fiume, dai sassolini con le forme e i colori più attraenti; sulle riva del mare, dalle conchiglie più eleganti. Un bel paesaggio, un bel tramonto, un cielo stellato, incantano e lasciano letteralmente senza fiato un po’ tutti, e non solo le anime più sensibili; un bel corpo, una persona dal viso espressivo e dal portamento distinto, colpiscono e attraggono irresistibilmente lo sguardo. Gli occhi non si stancano di cercare la fonte del prodigio che li ha sedotti; l’udito non si stanca di ascoltare una musica che ha ridestato nelle profondità dell’anima sensazioni dolcissime, di armonia, di equilibrio, di pace. Vi sono persone che possono restare ore ed ore ad ascoltare una serie di fughe o di fantasie di Bach, senza stancarsi mai, come se la loro anima venisse trasportata in un palazzo meraviglioso, pieno di luce e di bellezza, di stanza in stanza, di salone in salone, di giardino in giardino, da un incanto all’altro, fuori dal tempo e dallo spazio, nel regno ineffabile dell’Assoluto.

Perché accade questo? Che cosa, precisamente, spinge l’anima umana verso il Bello? E perché essa intuisce che il Bello è affine, per sua natura, al Vero, al Buono, al Giusto? Perché l’anima “sente” che bellezza, verità, bontà, giustizia, sono le facce con cui ci si presenta, nella concreta esperienza della vita, un Qualche cosa che, in se stesso, è unico e indivisibile, assolutamente prezioso e incomparabilmente luminoso?

La luce: ecco un indizio. Si dice: di una bellezza luminosa, per intendere di una bellezza assoluta. Ma che cos’è la bellezza assoluta? Non può essere quella del corpo, perché essa è soggetta alle leggi inesorabili dell’invecchiamento e della corruzione. Sia l’uomo, sia gli altri viventi, sia le cose, e perfino i monti, i pianeti, le stelle, le galassie: tutto ciò che è di natura materiale invecchia, ogni cosa si corrompe e si dissolve. Ma ciò che ha una natura spirituale si sottrae a questa legge: la bellezza racchiusa nel ricordo, per esempio, dura per sempre: essa sussiste perfino quando l’oggetto che le ha dato vita ha cessato di esistere. Anche la bellezza dell’opera d’arte dura per sempre – o, almeno, finché dura anche l’opera. Ma la bellezza di una musica è indistruttibile: ecco, dunque, che la musica ci si palesa come la più perfetta delle arti, l’unica capace di trasmettersi in maniera immateriale e di reggere alla sfida dei secoli e dei millenni. E ciò avviene perché la musica è la più spirituale di tutte le arti; la sola che non ha bisogno d’altro che dell’orecchio che la riceve, e dello strumento che la emette. Perfino lo strumento, a un certo punto, può sparire: la musica sopravvive nell’anima sotto forma di musica interiore. E perfino l’orecchio può smettere di udire: alcuni sommi musicisti – basti pensare a Beethoven - erano ridotti alla sordità, eppure continuavano a comporre e a “udire” la musica.

Abbiamo così acquisito un primo punto fermo: il desiderio della bellezza è naturale, perché la bellezza spirituale – di cui la bellezza materiale è solo un pallido riflesso, come bene aveva visto già Platone – desta un’eco nell’anima umana, che le ricorda la sua stessa natura e la sua stessa origine divina. Il simile chiama il simile: ciò che è spirituale chiama ciò che è spirituale; ed esso, a sua volta, brama ed invoca ciò che, solo, potrà spegnere la sua sete, appagare il suo bisogno. La creatura umana è una persona: unione di anima e di corpo; ma è l’anima la parte prevalente, perché l’anima sta al corpo come l’essenza sta all’accidente. Il corpo è solo il rivestimento dell’anima; le serve da veicolo per gli spostamenti materiali e per le relazioni materiali, e non altro.

Per tutto ciò che attiene ai suoi bisogni più profondi, il corpo non la può soddisfare: esso è strumento, non fine della persona umana. Il fine della persona umana è il bene: perché tutto ciò che esiste, anela al proprio bene; e il bene degli enti non coincide soltanto con il loro piccolo bene egoistico, ma si realizza mediante un disegno superiore, nel quale ciascun bene individuale si intreccia e si sostiene con il bene di ciascun altro: e quel che ne risulta, il disegno complessivo, lo scopo ultimo, è il Bene, con la “b” maiuscola, senz’altra specificazione. Non il bene mio, o tuo, o di chiunque altro: ma il Bene in sé. Il Bene che comprende, abbraccia e spiega tutti gli altri beni, ossia i beni particolari e individuali.

Ci piace riportare un brano, esemplare per chiarezza concettuale e rigore logico, di Suor Juliane Vasconcelos Almeida Campos, una monaca della congregazione cattolica brasiliana Società clericale “Virgo Flos Carmeli” (nell’articolo «La chiave della relazione con Dio», sulla rivista «Araldi del Vangelo», Roma, n. 106, febbraio 2012):

 

«… esistono nell’essere dell’uomo – per il fatto di essere una creatura intelligente - “istinti spirituali” che si manifestano proprio quando egli comincia ad aver conoscenza che esiste, per la nozione del proprio essere e dell’essere di tutto quello con cui entra in contatto. Questa nozione, sommamente sostanziosa, è come l’alimento proprio della sua intelligenza, poiché è ciò che gli permette di conoscere tutte le cose, garantendogli la salute mentale. Se le sue apprensioni non fossero vere e reali, impazzirebbe.

Questa conoscenza comincia a evidenziarsi quando il bambino apre gli occhi alla luce, distinguendo il suo essere dall’essere di sua madre, ma da lei dipendente; percependo che il sonaglio è reale e vero, poiché ascolta il suo rumore; che il latte gli soddisfa la sensazione della fame, essendo per questo buono; che la luce e i colori sono attraenti e belli, intrattenendolo e facendo sì che egli voglia conoscere e apprendere sempre di più. Egli ha l’intuizione che c’è sempre qualcosa in più da conoscere, al di là di quella realtà che vede e apprende sperimentalmente, pur senza comprendere concettualmente una qualsiasi espressione astratta e formale. In nessuna epoca si apprende tanto come quando si è bambini, e questo non dissocia il baloccarsi dal comprendere.  […]

Essendo preliminare a qualsiasi ragionamento con principi chiari e stabiliti, questa conoscenza del proprio essere e dell’essere intelligibile e vero delle cose sensibili è, tuttavia, una percezione intellettuale ancora confusa, senza esplicitazioni razionali, e si verifica nell’intelligenza spontanea, chiamata abitualmente buon senso. Essa ammette verità e principi rispetto ai quali l’uomo non si sbaglia, tali come quello di identità e il suo corollario, quello di non contraddizione - ogni essere è quello che è e non può esser altra cosa; quello di causalità - ogni effetto presuppone una causa; o quello di finalità - ogni agente opera per un fine, che è il suo bene.

Quest’intuizione, chiamata sinderesi, è un’abitudine della ragione con la quale gli uomini nascono, non la acquisiscono con la ripetizione degli atti o per un dono divinamente infuso. Essa permette di conoscere questi primi principi, come pure di percepire le proprietà trascendentali di tutti gli enti. Tuttavia, come gli altri atti intellettuali, questa abitudine esige lo sviluppo dell’intelligenza. Poterebbe esser chiamata protocoscienza, come un sigillo di logica, verità, bene e bellezza presente nell’anima umana, poiché dà impulso al bene, censurando il male, dando impulso, di conseguenza, alla verità e alla bellezza, e ammonendo i suoi contrari o opposti. […]

San Tommaso ammette l’argomento aristotelico che nulla esiste nell’intelletto senza che prima sia passato per i sensi, considerandolo solo nell’ordine della natura e non della grazia, poiché quest’ultima non è soggiogata alle leggi naturali. […]

Tra i sensi esterni, ve ne sono due che sono superiori, la vista e l‘udito. Secondo il Dottor Angelico, è vero che si dice immagini e suoni belli, ma non profumi, sapori o tessuti belli. Questi due sensi sono, pertanto, quelli che aprono alla ragione la via di accesso al bello, che in lui si diletta, poiché il bello, nella concezione tomista,è “id quod visum placet - quello che, visto, piace”.

Ciò nonostante, la bellezza non si limita alla percezione sensoriale, essendo percepita dall’uomo, anche in tutte le sue dimensioni spirituali, dato che questa percezione è intrinseca al suo stesso essere.  I sensi esterni sono strumenti per la percezione sensibile, tuttavia è l’intelletto che, per così dire, “legge” il bello delle cose, in ragione della sua verità e bene.

Appare chiaramente, allora, la trascendentalità della bellezza, che ha qualcosa in comune con la verità e la bontà, poiché manifesta la relazione della cosa bella con lo spirito, risvegliando un piacere spirituale, quantunque sia nella contemplazione della bella sensibile, poiché solo è possibile captare la bellezza, in quanto tale spiritualmente. Per questo motivo non è raro, dinanzi a qualcosa di molto bello, che una persona rimanga senza parole. Ella comprende e capta il messaggio, non avendo necessità del concetto estetico. […]

È per questo che esiste nell’essere umano una specie di attrazione, un magnetismo per la bellezza, già manifesto nella più tenera infanzia, grazie al quale il bambino cerca le cose belle nei suoi primi contatti con queste.  […] Così, vediamo che questa specie di istinto del bello è il punto di partenza per incontrare, in modo quasi subcosciente, la verità e il bene.

Questo perché la bellezza non è se non lo splendore di tutti i trascendentali, riunito. O, come afferma Vilela, è “lo splendor veri” dei platonici, lo “splendor ordinis” di sant’Agostino; anzi: è dire che essa è “splendor boni” e “splendor perfectionis” […] è lo splendore dell’essere, dell’essere che è uno, attraverso la sua perfezione, la sua verità e la sua bontà splendenti, in quanto percepito questo splendore, con l’intelligenza, e in quanto questa percezione è fonte di gioia per la volontà. È per l’uomo tutto, visto che nell’uomo le cose entrano nello spirito attraverso i sensi. Per questo la bellezza è così coinvolgente”.»

 

Il secondo punto fermo, dunque, è che, se l’attrazione verso la bellezza è connaturata alla persona umana, questa non può vivere senza di essa. Non può vivere in maniera adeguata alla sua natura: cioè in maniera veramente umana. Vivrà, ma in maniera disumana. È forse un caso che gli artisti, da sempre, rappresentino il Male sotto le forme di una bruttezza repellente? Che coloro i quali hanno avuto a che fare con dei riti di esorcismo, riferiscano di aver percepito un tanfo pestilenziale? Che l’espressione visibile del male – dell’odio, dell’invidia, della gelosia, della superbia, della lussuria – sia una maschera facciale che tende a sfigurare la naturale dignità e compostezza del volto umano? Che nei concerti di rock “duro”, o addirittura satanico, si scateni una tremenda cacofonia di suoni acuti e stridenti, generatori d’inquietudine e di angoscia? E, viceversa: è forse un caso che gli artisti - così come, nel proprio ambito, tende a fare ciascuno di noi – abbiano sempre associato la bellezza al bene, alla verità e alla giustizia? Che, per esempio, la maniera più ovvia, e la più naturale, di rappresentare un volto umano contraddistinto da un forte senso della giustizia, o della verità, o della bontà, sia quella di conferirgli una certa dimensione di bellezza spirituale – una bellezza che, appunto, travalica l’ambito della bellezza puramente fisica?

Il terzo punto fermo, che scaturisce dai primi due, è che noi dobbiamo fare in modo di riempire la nostra vita di cose belle, di pensieri belli, di opere belle, sempre in senso spirituale: e dobbiamo evitare come la peste ciò che produce in noi la sensazione del brutto, che è l’effetto dell’incontro con l’ingiustizia, la menzogna, la cattiveria. Dobbiamo diffidare di quelle persone e situazioni che ci trasmettono l’impressione del brutto; e, per la stessa ragione, dobbiamo diffidare degli artisti, degli scrittori, dei poeti, dei filosofi, degli intellettuali, dei politici, i quali, per mezzo delle loro opere e discorsi, aggrediscono la nostra anima con impressioni di bruttezza, sovente in maniera compiaciuta, perché tali impressioni sono i cavalli di Troia mediante i quali entrano nella nostra mente e nel nostro cuore l’ingiustizia, la menzogna e la cattiveria.

Diciamolo senza troppi giri di parole, e tanto peggio per chi si scandalizzasse: gran parte della filosofia, dell’arte, del teatro, della musica e del cinema contemporanei si sono posti da se stessi sotto il segno del Male. Alla larga da loro. Che ne siano consapevoli o no, sono i veicoli di una tenebrosa malattia, di una pestilenza spirituale, alla quale abbiamo il diritto e il dovere di sottrarci. Dobbiamo proteggerci e aver cura di noi stessi. Non per avvoltolarci nella bruttezza e nel male siamo stati chiamati all’esistenza; ma per cercare e attuare il nostro bene, ch’è uno solo con il Bene.