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La doppia bilancia del politically correct: il caso dell’«Eutifrone»

di Francesco Lamendola - 04/01/2016

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Se si cerca un testo esemplare sul quale misurare il livello di conformismo della cultura filosofica politically correct, ce n’è uno che si presta in maniera veramente egregia: è l’«Eutifrone» di Platone, un dialogo dominato dalla figura di Socrate, il quale, come al solito, si serve d’un suo sventurato conoscente, Eutifrone, per farlo girare in tondo come i bambini quando bendano gli occhi a un compagno di giochi e poi, facendolo girare su se stesso, si divertono allo spettacolo del suo disorientamento, vedendolo barcollare come un ubriaco. Il tema centrale del dialogo è il sacro: in che cosa esso consista, e, di conseguenza, come vada esercitata la pietas. Eutifrone si sta recando dal giudice per denunciare suo padre, che ha provocato la morte d’uno schiavo; Socrate si mostra molto sorpreso di ciò, mette in dubbio il fatto che l’altro abbia agito in maniera giusta, perché la denuncia del proprio padre gli pare una cosa assai più grave dell’omicidio d’un servo. Altra cosa sarebbe – e lo dice – se l’uomo avesse ucciso un parente. Si noti che il poveraccio è morto sia per le battiture cui è stato sottoposto dal padrone, sia perché, così malconcio e sanguinate com’era, è stato poi imprigionato e lasciato senza alcuna assistenza, sino a morire letteralmente di stenti. Ma tutto questo, a Socrate, importa poco: dal momento che si trattava d’uno schiavo, empio ed ingiusto non gli pare il fatto che costui è stato lasciato morire, né il modo in cui è stato abbandonato, ormai morente, peggio di un cane, ma la decisione di Eutifrone di denunciare suo padre.

Il dialogo si sposta insensibilmente, fin dalle prime battute, dalla questione della giustizia, su che cosa sia giusto, alla questione del santo, su che cosa sia santo, perché Socrate, che è stato convocato dall’Arconte per discolparsi dall’accusa, fattagli da Meleto, di empietà e corruzione dei giovani, chiede a Eutifrone di dargli una definizione di “santo”, sostenendo, con perfetta malizia, che ciò lo potrà aiutare a difendersi meglio. Eutifrone abbocca  e dà una prima definizione, nella quale lui stesso istituisce un parallelo fra la santità e il proprio comportamento, cioè l’aver denunciato il padre, per un dovere morale di natura superiore: rendere giustizia davanti a un caso di omicidio. A partire da quel momento, Socrate fa il suo solito giochino e costringe il malcapitato interlocutore a riformulare la propria definizione per ben quattro volte, facendogli notare, ogni volta, il lato debole della sua definizione, e obbligandolo a una snervante rincorsa concettuale, durante la quale le sue certezze, inevitabilmente, cominciano a vacillare.

A questo punto è Socrate che prende la palla e incomincia a dare una propria definizione; Eutifrone ha l’ingenuità di farla propria, e allora Socrate ricomincia il gioco precedente, mostrandosi sempre insoddisfatto di tutte le risposte; sicché, alla fine, quando i due devono separarsi, forse perché è giunto il turno di Eutifrone di presentarsi davanti all’Arconte, una definizione conclusiva non è ancora stata data (in tutti i dialoghi socratici arriva il momento in cui gli interlocutori di Socrate mostrano di aver fretta, e ciò viene presentato come una loro debolezza, quasi come un espediente per poter battere in ritirata, non avendo più argomenti da opporre all’interlocutore; ma bisognerebbe chiedersi se sia da ammirare il fatto che Socrate abbia a disposizione tutto il tempo di questo mondo, laddove le persone comuni, ad Atene come ovunque, si occupano di quisquilie come il lavoro o la famiglia). La definizione provvisoria è che la santità consiste nell’onorare gli dèi.

Come abbiamo detto all’inizio, l’astuzia dialettica di Socrate consiste nello spostamento, quasi impercettibile, della riflessione dal “giusto” al “santo”: se Eutifrone non fosse stato così ingenuo (o vanitoso) da definire “pia” la propria azione di denunciare il padre per amore della giustizia, la confusione non sarebbe stata possibile e l’equivoco non sarebbe stato avvalorato. Di che cosa vuole parlare, in questo dialogo, Socrate, cioè Platone? Se vuole parlare del santo, perché si serve dell’espediente di mettere in scena Eutifrone, con la sua denuncia nei confronti del padre? Denunciare un omicidio, e sia pure trascinando in tribunale il proprio padre, è cosa che riguarda il senso della giustizia, e non della santità. Quanto al caso specifico di Eutifrone, il fatto che la persona denunciata sia il padre del denunciante, è, a ben guardare, secondario: si tratta di una circostanza sfortunata e sicuramente drammatica, ma non tale da inficiare il principio dell’universalità della giustizia. Se uccidere è male, se torturare è male, se lasciar morire qualcuno senza prestargli soccorso, è male, allora tale azione va denunciata sempre, anche se a commetterla è stato uno stretto parente o un amico.

Sembrerebbero, queste, riflessioni ovvie e perfino banali, se non fosse che il silenzio, riguardo alla malizia formale, e alla ingiustizia sostanziale, della posizione assunta da Socrate in questo dialogo, presso gli studiosi moderni, è sempre stato addirittura assordante. Quegli stessi storici della filosofia progressisti e di sinistra, che hanno sempre introdotto Marx e Lenin, di contrabbando, in qualunque discorso filosofico antico e moderno, anacronisticamente, dai Presocratici a Kant, e da Hegel a Nietzsche, qui, davanti a questo dialogo platonico, improvvisamente cambiano atteggiamento e non spendono una parola per stigmatizzare l’assassinio brutale di uno schiavo, né il fatto che Socrate, il grande filosofo, mostra di considerare la vita di costui del tutto priva di valore. Stranamente, non tuonano contro l’arroganza, la crudeltà e l’indifferenza morale dei proprietari di schiavi, né scagliano le loro abituali invettive contro gl’intellettuali cortigiani, con la loro congenita tendenza a coprire le infamie dei potenti e a legittimare le catene degli sfruttati, ma si sperticano e si sbracciano a tessere le lodi di Socrate, cioè di Platone, nel non essersi fermato alle apparenze della cosa, nel non aver assecondato il moralismo ipocrita e il giustizialismo sbrigativo di Eutifrone, presentato quasi come un parricida, ma nell’avere smascherato (evviva la freudiana cultura del sospetto!) le false motivazioni di costui, la falsa coscienza di questo borghese piccolo piccolo, che non arriva a capire il vero senso della santità e della giustizia, visto che ha l’intollerabile audacia di comportarsi, davanti al delitto compiuto da suo padre, come davanti a qualsiasi altro delitto. E tutto questo la dice lunga sul senso critico e sulla onestà intellettuale della cultura accademica politicamente corretta, vale a dire debitamente progressista e di sinistra.

Ci piace riportare una pagina tratta dal libro di Lisa Morpurgo (1923-1998), originale e interessante figura di studiosa politicamente scorretta – tesi di laurea su Maurice Barrès; rifondazione razionale dell’astrologia -, «Il convitato di pietra» (Milano, Sperling & Kupfer, 1979, pp. 322-324):

 

«Abbiamo lasciato Abramo che avanza con Isacco verso la montagna del sacrificio. Passiamo ora ad Atene dove, alle grigie luci del’alba, Socrate incontra Eutifrone presso il tribunale dell’Arconte Re. I due personaggi cominciano a chiacchierare. Socrate dovrà apparire davanti all’Arconte in veste di accusato. Eutifrone, invece, accuserà suo padre. Subito, Socrate avanza l’ipotesi che il vecchio abbia ucciso un membro della famiglia. Anzi, questa gli sembra l’unica ipotesi possibile, poiché Eutifrone non trascinerebbe certo in tribunale il genitore se costui avesse ucciso uno straniero. E qui Eutifrone scatta: “Socrate”, egli dice, “è ridicolo che tu voglia stabilire una differenza basata sul fatto che il morto sia un parente o un forestiero. Non vi è piuttosto un unico principio da rispettare, e cioè: colui che ha ucciso aveva o non aveva il diritto di uccidere? E se ne aveva il diritto, lasciar correre. Se non l’aveva, accusarlo”.

Eutifrone rivelerà poco dopo che l’uomo ucciso da suo padre era addirittura un servo e questo particolare è essenziale perché Socrate possa oliare alla perfezione la macchina della sua finta logica per dimostrar come Eutifrone stia commettendo un errore gravissimo: l’autorità e la persona stessa del padre sono al di sopra di ogni sospetto e di ogni possibilità di attacco.

Il linguaggio di Eutifrone ci ricorda quello di Satana che tenta d’impedire il delitto di Abramo: la stessa chiarezza, la stessa evidenza, la stessa umanità (e usiamo questo termine nel suo significato comunemente elogiativo, sebbene improprio). È, insomma, la voce della giustizia, del buon senso e della logica, inaccettabile per Socrate come lo era stata per Abramo.

Fermiamo tuttavia la nostra attenzione sulle sostanziali differenze il trascorrere del tempo ha apportato ai quattro personaggi esaminati. Abramo e Isacco sono ancora figure mitiche, ossia destinate a riassumere simbolicamente tutto il processo del condizionamento onirico-genetico che le precede  e che culmina appunto con la sostituzione di una vittima-agnello alla vittima-Isacco. Come già dissi, questo ci indica che la figura del Padre è ormai tanto affermata e sicura di sé da non ritenere più necessaria l’eliminazione fisica del figlio pubere.

Socrate ed Eutifrone, invece, sono personaggi storici, vivono in un’epoca a noi nota  e chiaramente databile, hanno un volto, un nome, un carattere ben preciso. L’analogia tra il loro colloquio e quello svoltosi tra Satana e Abramo ci dimostra due cose: prima di tutto, che il condizionamento patriarcale non fu, per così dire, spontaneo e immediato, ma richiese senza dubbio una sorta di tirocinio svoltosi in epoche imprecisabili e dunque agì oniricamente su una mentalità che patriarcale non era. In secondo luogo, dopo aver stabilito il principio dell’autorità del padre, il condizionamento continuò ad agire con un sistema di abilissimi raccordi tra i simboli fondamentali e lo sviluppo della realtà storica (analogo a quello che inserisce le esperienze quotidiane dell’individuo nel tessuto del sogno) in modo da concedere ai vari protagonisti della stria stessa la ferma illusione di pensare in modo autonomo.

Mentre Abramo, infatti, parla con Dio, o con Satana, ed è insomma conscio di obbedire a, o di combattere con, forze a lui superiori e in un certo senso estranee, Socrate è convintissimo di esprimere concetti naturali nel suo cervello di filosofo, opponendoli a concetti maturati nel  cervello sofistico di Eutifrone.  La lenta macina notturna che impone all’uomo l’obbedienza ha raggiunto lo scopo di fargli credere che egli è libero di agire come meglio gli pare. Il meccanismo è così perfetto che un paladino dell’obbedienza, qual è in realtà Socrate, cieco e sordo davanti al linguaggio non condizionato dei sofisti, può presentarsi alla storia come paladino della libertà e vittima dell’autorità politica. E tale è ritenuto anche oggigiorno. Nessuno si accorge che Eutifrone parla secondo i canini di giustizia ispiratori dei più moderni codici penali.

Un episodio che pesco a caso in un capitolo di storia molto più recente dimostra come i condizionamenti onirici abbiano continuato ad agire indisturbati. L’Alcalde di Fuente Ovejuna, immortalato dai drammaturghi spagnoli, è un padre lubrico e incestuoso, innamorato della figlia minore e che riuscirà a scacciare di casa le altre due figlie nonché l’unico figlio maschio (tentando prima di sopprimerlo “legalmente”) pur di raggiungere il suo vero scopo: quello di rinchiudere a vita tra le mura domestiche la disgraziata giovanetta e tenerla alla sua mercé. Ma poiché le trame di questo individuo abietto sono coperte da due o tre gesti di coraggio che egli compie contro l’autorità costituita per difendere il proprio “onore”, anche l’Alcalde passa alla stria come un paladino della libertà.»

 

Lasciamo a Lisa Morpurgo la responsabilità di aver interpretato tutto questo episodio come un caso della eterna lotta fra la cultura patriarcale e maschilista e la cultura matriarcale e femminista; e, inoltre, di aver visto una superiorità intellettuale e anche morale nei sofisti, nelle cui file arruola anche il buon Eutifrone, contro il perbenismo di Socrate. Le rendiamo atto, però, di aver riconosciuto quel che non va nella tesi di Socrate (e di Platone): la pretesa di applicare un doppio binario per dirimere le questioni relative alla giustizia, uno per i liberi, l’altro per gli schiavi; e di aver ammantato questa doppia morale con le fumisterie del sacro, creando, ad arte, una diabolica confusione concettuale, col risultato di far perdere di vista al suo interlocutore il nodo centrale della discussione.

La similitudine fra Abramo e Socrate, come evidenzia Lisa Morpurgo, può essere avanzata, ma fino a un certo punto; il differente contesto storico – mitico nel primo caso, storico nel secondo - muta radicalmente la prospettiva: Abramo infrange la legge degli uomini per seguire la voce di Dio; Socrate ignora la legge degli uomini in nome d’un sofisma. Che questo sofisma sia tanto piaciuto, o sia stato così volentieri perdonato, dai moderni, resterebbe un mistero, se non fosse per la congenita tendenza al conformismo dell’intellighenzia, che, dall’Illuminismo in poi, sta sempre dalla parte del più forte (e quindi non sempre del potere). Del resto, non è stato, Socrate, uno dei primi illuministi?