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Gorizia, o il dramma di un’Europa imbelle e dimentica di se stessa

di Francesco Lamendola - 10/01/2016

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

Gorizia non è, semplicemente, il capoluogo del Friuli orientale, l’ex Friuli austriaco (e che fu tale, cioè austriaco, per secoli e secoli: non per qualche anno soltanto; ricevendo, dall’Austria, gran parte dell’anima stessa della sua cultura e della sua civiltà). Nel Medioevo, i conti di Gorizia, grazie anche ad una accorta politica matrimoniale, arrivarono a svolgere un ruolo predominante nello scenario del Nord-est dell’Italia, arrivando, ad un certo punto, a dominare non solo, di fatto, sul vasto Patriarcato di Aquileia, ma anche sui comuni di Treviso e Padova. Quando, nel 1500, la dinastia si estinse, l’ultimo conte, Leonardo, lasciò i suoi possedimenti in eredità a Massimiliano d’Asburgo, il che accese una dura controversia con la Repubblica di Venezia, che vantava diritti di vassallaggio sulla contea goriziana. La guerra fra le due potenze, intrecciandosi con la guerra di Cambrai, vide la definitiva affermazione austriaca sulla città, che rimase a far parte della monarchia asburgica fino alla Prima guerra mondiale.

Non bisogna pensare alla Gorizia austriaca come ad una città di frontiera, anzi, tagliata in due dalla frontiera, come lo è la Gorizia odierna, in conseguenza della Seconda guerra mondiale e delle sanguinose vicende dell’espansionismo titino, che s’intrecciarono con la guerra civile italiana del 1943-45, in un clima estremamente fosco e sanguinoso (basti pensare alla tragedia delle foibe): Gorizia fu, nei confronti della Mitteleuropa, l’equivalente terrestre di quel che fu Trieste come porto di mare: una finestra aperta fra due mondi, anzi, fra tre mondi: il mondo latino, quello germanico e quello slavo. E così fu la Gorizia degli ultimi sei secoli, da quando Dante Alighieri, forse, la visitò, quand’essa era al culmine della sua potenza, tra la fine del Duecento e i primi del Trecento, fino alla Belle époque: una città piccola, ma bellissima e ordinatissima, raccolta ai piedi del castello e del suggestivo borgo medievale; pulita, smagliante, con viali larghi e dritti e le ville ornate di verdi giardini; un gioiello sospeso sulla valle dell’Isonzo e circondato dalle splendide colline viticole del Collio, vera e propria cerniera fra mondo italiano e mondo germanico, crogiolo di popoli uniti da un monarca, da una fede (la cattolica), da una buona amministrazione; tollerante, aperta, ma anche conservatrice, nel senso migliore della parola, vale a dire gelosamente attaccata alle proprie tradizioni. Nella città predominava l’elemento friulano; negli uffici pubblici, quello tedesco; nei borghi e nelle campagne circostanti, quello sloveno: e mai, nel corso dei secoli, vi furono gravi dissensi fra di essi, almeno fino a quando la malattia del nazionalismo moderno non cominciò a diffondersi in tutta l’Europa e i suoi venti di distruzione non si misero a soffiare con forza terribile, affrettando lo scoppio della Prima guerra mondiale e, con essa, la dissoluzione di un impero civile e vastissimo, che andava da Gorizia a Czernowitz e da Cortina d’Ampezzo a Sarajevo, abbracciando ben dodici popoli diversi.

Gorizia, quindi, è stata molto di più che il centro principale dell’altro Friuli, quello austriaco, distinto da quello patriarchino e, poi, veneziano; è stata il crogiolo di una vera civiltà multietnica, riuscitissima, perché piccola e perché le sue componenti ebbero una decina di secoli per organizzarsi, amalgamarsi e fondesi (il nome di Gorizia compare per la prima volta in una pergamena di Ottone III del 1001) e soprattutto perché esistevano le condizioni, particolarissime e pressoché uniche, affinché tale ardito esperimento si realizzasse con successo. E il fatto che una cortina politica innaturale (non solo linguistica e culturale, ma, fino al 1989, anche politica e militare) separi tuttora la città dai suoi sobborghi orientali, che formano – assurdamente - una città slovena a sé stante, Nova Gorica, con le frazioni di Salcano, San Pietro e Vertoiba, con una popolazione di poco inferiore a quella della città italiana, nonché il 90% e oltre del territorio della provincia, sta a dimostrare quanto lontani siano i tempi della coabitazione pacifica delle diverse stirpi.

Si ha un bel parlare, oggi, di una Gorizia “città europea”, come se l’epoca dei nazionalismi fosse morta e sepolta e le tragedie recenti fossero già dimenticate: la verità è che le ferite sanguinose del recente passato non si sono mai rimarginate del tutto; che le centinaia di italiani scomparsi, deportati, infoibati, negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, quando i partigiani sloveni occuparono la città e tentarono di annetterla alla Jugoslavia (con la piena solidarietà dei comunisti di casa nostra, sotto l’ineffabile guida del “Migliore”, alias Palmiro Togliatti), pesano, nella memoria dei sopravvissuti, come macigni; e che la Repubblica slovena, da parte sua, non ha mai smesso di versare sale sulle ferite della storia, continuando a rinfacciare perennemente agli Italiani il periodo fascista per “giustificare” tutte le atrocità commesse dalle soldatesche di Tito fra il 1943 e il 1945.

Così scrive Sergio Tavano nel volume «Il Castello di Gorizia e il suo borgo» (Gorizia, Libreria Adamo, 1978, 51-55 e 57-60):

 

«… Gorizia non poteva né voleva rinnegare la sua caratteristica di fondo. Antonio Musnig, protomedico, nella seconda metà del Settecento, ricorda che gli abitanti della contea si servivano di tre lingue, la slavonica, la germanica e la furlana; e precisa che “il tedesco si insegna nelle scuole pubbliche; in italiano si discutono le cause forensi; il popolo fa uso del furlano e dello slavonico. In città i bambini parlano in tre distinti idiomi: furlano, sclavo e germanico. I nobili però sanno l’italiano, il latino e il francese”.

A proposito del goriziano Giuseppe Tominz (1790-1866), il Morassi osserva che “seppe captare elementi, parole, armonie di civiltà diverse, che a Gorizia s’incontravano senza urti… Seppe realizzare, forse per primo nella pittura, quello spirito triestino, mitteleuropeo, in cui si avvereranno, poche generazioni più tardi, le prose d’un Italo Svevo, d’uno Scipio Slataper”.

Trapassata senza troppi contraccolpi la tempesta napoleonica e rivoluzionaria, subita del resto con vigile resistenza, il clima goriziano si assopì fino al 1848, quando si scoprirono con occhi nuovi la composizione etnica e le tradizioni culturali della città. Con tutto ciò l’anima dei goriziani non è tradita.

C’è nei goriziani dell’Ottocento e si protrae ben oltre una sorridente sfiducia nella possibilità di trasformazioni che valgano e quindi una diffidenza verso ogni illusione generosa, come anche una cordiale comprensione per le debolezze e per i limiti umani. Tutto ciò si spaccia con una radicata passione per l’ordine, per quel metternichiano sistema dell’ordine che era congeniale a Gorizia, forse una delle più equilibrate e fedeli città meridionali dell’impero.

A Gorizia possono rimbalzare frizzi politici e punte satiriche, ma il tono dominante è  un’allegra adesione alle cose proprio come  sono e come si presentano: quasi sempre sono le maschere e i carnevali che offrono occasioni per dimostrazioni “nazionali” e non solo per sottrarsi all’occhiuto e bonario gendarme.

Una spontanea spensieratezza, che non giunge tuttavia mai a frastornare,  è appena velata ma non rinnegata da una stanca fede nell’ordine delle cose, che mai non muta e bisogna conservare senza l’urto della febbre che porta l’ansia dell’azione. Qui Gorizia sfiora il dramma; nella svagata e realistica rinuncia ad ogni dinamismo, vi domina, fino allo scoppio della guerra mondiale, della “grande” guerra, un’atmosfera nobilmente statica e piena di dignitoso rispetto per il cittadino, di burocratica efficienza e di signorile correttezza, m anche un senso morale non solo formalistico e di impegno culturale ben più che salottiero.

Ardenti minoranze appiccarono o tentarono d’appiccare l’incendio che i risorgimenti favorivano. Allora quegli elementi che avevano costituito la poliedrica cultura e la civiltà goriziana proprio grazie alla loro giustapposizione reciproca, alla loro ormai naturale armonizzazione, divennero fattori esplosivi, occasioni per contrapposizioni antitetiche, perché non si continuò a vedervi gli elementi che sostanziavano singolarissimamente la realtà culturale d’una città o d’una regione, bensì propaggini, troppo spesso idealizzate, d altre entità culturali, più estese, aventi il centro altrove e giustificate sulla base d’una spesso mitica concezione delle unità nazionali.

Gorizia perciò divenne allora non l’incontro, quasi il centro d’una regione in cui si mediavano elementi dissimili, ma la periferia di tre grandi entità nazionali, l’ultima città d’un mondo e nello stesso tempo la prima d’un altro.

La città, politicamente imperiale da sempre, si può ben dirlo, apparve alla parte italiana come un avamposto dell’impero nella pianura friulana e veneta, ma tutte le numerose tracce di cultura italiana o veneta, avulse dal loro contesto storico, furono impiegate ad affermare un diritto italiano sulla città. Al mondo germanico Gorizia apparve come un’oasi nelle terre imperiali, con una predominanza degli effetti d’un’ammirazione goriziana per la cultura suggerita dalle regioni italiane, ma ugualmente la sua struttura civile e mentale risultava improntata strettamente da modelli imperiali o precisamente asburgici. E così gli sloveni sentirono Gorizia profondamente necessaria, come uno dei massimi centri sorto nel’ambito o ai margini della loro cultura, capace tuttavia di dare alla loro vita e alla loro cultura organicità e punti di riferimento autorevoli; ma non poteva essere negato che la componente italiana o italianeggiante aveva avuto nella storia culturale della città una forza suggestiva maggiore di tutte le altre.

Proprio ne 1848 Graziadio Isaia Ascoli pubblicò un proclama in cui invitava i goriziani e gli altri a riconoscere la natura profondamente italiana della città. Gli rispondevano voci meno autorevoli, come quella del Persa che tentava di far riconoscere, contro una tendenza centrifuga in atto, i valori perenni d’una città “limitrofa”: “A voi tutti che ognun a suo modo vuole Gorizia italiana, slava o tedesca a voi risponderò che una città posta al confine di queste tre nazionalità non uò e non deve spiegare partito per una nazione”. […]

Come avviene altrove, all’interno dell’impero, dove si avverte la crisi inarrestabile, ancorché schermata, della civiltà asburgica, anche a Gorizia vecchie torri e lieti giardini costituiscono una presenza dolce e ossessiva d’un passato non dimenticato né superato; la coscienza culturale della propria civiltà attizza contrasti nazionali sempre più accesi.

Molti goriziani, educati nell’ambito dell’antico umanesimo latino-germanico, vagheggiavano un sogno conciliatore d’un’unità supernazionale, “mitteleuropea”.

Ma a questo cosmopolitismo culturale è legata la percezione dell’ascesa di nuovi programmi nazionali. Un nazionalismo dirompente viene talora combattuto con quel miraggio cosmopolita, forse antistorico e non adeguatamente sostenuto da forze politiche chiare.

Il vecchio universalismo di estrazione medievale e la solida compattezza sovra personale e sovrannazionale del’impero, aggrediti dalla nuova civiltà, dal liberalismo e dalle aspirazioni nazionali, si sgretolavano e facevano intanto emergere mille particolarismi individuali e provinciali ma stimolavano anche esigenze di affermazione individuali e di piena espressione morale che non contrastavano necessariamente con quell’armonia civile spirituale che l’impero garantiva. Nella sfera della fantasia e delle arti, più che dell’azione politica, si impegnarono severissimamente e si espressero con austera voluttà almeno due generazioni goriziane tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Gorizia è un’oasi mitica, che partecipa gioiosamente alla feacia “libertà” propagatasi nell’area asburgica. Nello stesso tempo però è avvertito, da molti che vanno oltre quelle apparenze, il limite di quel festevole clima. Una maschera è la vita austriaca, e quella viennese anzitutto, nella seconda metà dell’Ottocento, la quale passa da una mascherata all’altra, in una ricerca di ebbrezza evasiva. Altri, con uno sguardo teso oltre i confini, giungono a concludere che, rovescio ella medaglia, la stessa vita è un gran teatro.

Con angoscianti percezioni, l’ultima generazione dell’Ottocento goriziano, reagendo alla convinzione diffusa che “è felice chi dimentica ciò che non si può mutare” (“Fledermaus”) contribuisce ad affrettare il declino dell’impero stesso, fondato sull’equilibrio, in quanto propugna l’iniziativa, l’azione, il movimento, la volontà d’affermazione individuale.

Lo stesso impegno civile e morale, non soltanto formalisticamente morale, che a Gorizia aveva contraddistinto e sostenuto l’atteggiamento dei cittadini verso lo stato e verso ‘autorità costituita in forme di responsabile collaborazione, li portava ora ad azioni e a reazioni disparate e profondamente inquiete.

Non solo si ebbero così schieramenti distinti a seconda dell’appartenenza a uno o all’altro dei gruppi etnici e non solo ciascuno gruppo etnico fu acceso d’un suo slancio risorgimentale o liberale o sociale, ma all’interno d’ogni cultura e d’ogni distinzione nazionale l’impegno civile, così radicato e così generoso a suo modo, diede luogo a divergenti disposizioni e scelte: da un lato una volontà d’agire del tutto nuova, che si qualifica anche come rifiuto della “mediocritas”, della rassegnazione ordinata, che pare tirannica imposizione; dall’altro lato una reazione, perfettamente in linea con i principi della politica asburgica e anche con la “forma mentis” goriziana, un atto di rinuncia, di civile obbedienza, di antitanica accettazione dell’ordine collaudato, come garanzia del mantenimento d’una felice e prudente norma di vita, del massimo di bene con un minimo di rischio sovvertitore (C. Magris).»

 

Gorizia rimane, così, un microcosmo, la cui storia non smette di affascinare, per la ricchezza di insegnamenti che ha lasciato in eredità a chi li voglia ascoltare. La città sull’Isonzo è stata un microcosmo così importante, così significativo, che in esso si riflette, come in un cristallo, tutto il “mondo di ieri” di cui parlava Stefan Zweig: in un certo senso, la storia e il destino d’Europa si rispecchiano in questa piccola città di 35.000 abitanti (che diventano 67.000 calcolando anche la metà slovena), che, dopo essere stata cerniera fra tre mondi ed esperimento, lungamente riuscito, di composizione delle differenze linguistiche, culturali, spirituali, è diventata, oggi, lo specchio di un’Europa e di un mondo disintegrati, fratturati, disanimati, dominati da oscure forze inafferrabili, come i poteri finanziari, e costellati dalle croci che le effimere ideologie del XIX e del XX secolo – liberalismo, radicalismo, anarchismo, socialismo, comunismo, fascismo, nazismo – hanno sparso e lasciato dietro di sé, eloquente testimonianza della umana follia e della umana incapacità di mediare e di trovare punti d’incontro, oppure – come sta avvenendo oggi – del rifiuto di qualunque tradizione, di qualunque appartenenza e identità culturale, in nome di un appiattimento e di una omologazione che sono funzionali unicamente al diabolico consumismo, autentica (e sacrilega) religione laica del terzo millennio.

E a tutto ciò si aggiunga il fatto che Gorizia, insieme a tutto il confine orientale del Friuli (e dell’Italia), sul quale tanto sangue è stato versato durante le due guerre mondiali, è divenuta oggi una delle principali direttrici dell’invasione che, come ai tempi di Alarico, di Attila e di Alboino, si sta rovesciando da terre remote sul nostro Paese, sconvolgendone irreparabilmente la fisionomia storica e riducendola a vera e propria terra di conquista. Non ci si lasci ingannare dalle apparenze: l’unica differenza fra le invasioni dei Visigoti, degli Unni e dei Longobardi e quella odierna, quotidiana, capillare, apparentemente inarrestabile, della quale ci rendono conto, giorno per giorno (ma in maniera tendenziosa e fuorviane) la stampa e la televisione, è che quest’ultima si svolge, finora, con modalità sostanzialmente pacifiche, e, addirittura, con il massimo della remissività, della collaborazione e dell’assistenza da parte di coloro che la stanno subendo, per un imperscrutabile disegno dei palazzi dell’Unione europea, ma anche del Governo italiano e dei vertici della Chiesa cattolica.

Pertanto, la domanda: Quo vadis, Gorizia?, suona un po’ come la domanda: Dove stai andando, Europa odierna? È come se in questa piccola, bellissima città sulle rive di un fiume che scende dalle vette delle Alpi Giulie e scorre spumeggiando fra colline verdeggianti, verso la pace del Mare Adriatico, si riflettesse il destino del nostro continente e si interrogassero tutte le persone consapevoli, educate dalla storia, consce della propria identità, aperte al dialogo e alla fratellanza, ma senza preconcetti buonisti e senza colpevoli dimenticanze, che amano la civiltà europea perché essa, pur con tutti i suoi errori, ha dispensato oltre mille anni di umanità, saggezza, arte, cultura, a dei popoli che il crollo del mondo antico aveva lasciato orfani e disorientati, sull’orlo del precipizio di una barbarie di ritorno.

Dobbiamo concludere che questi mille anni di storia non hanno insegnato nulla ai figli dell’Europa, e che essi, pertanto, sono maturi per cadere in quella barbarie, da cui già una volta furono salvati?