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La cultura politica della "Nouvelle droite" nelle analisi di Angella e Germinario

di Marco Tarchi - 10/01/2016

Fonte: Diorama Letterario

 

L’espressione "nuova destra" è da qualche anno una delle più inflazionate del gergo politico-giornalistico, al punto che è difficile afferrarne immediatamente il senso. È stata applicata ai soggetti più disparati: da Forza Italia agli skinheads, da Veneziani a Reagan, dalla Thatcher a Sgarbi, da Alleanza nazionale a Le Pen, dagli anarcocapitalisti alla Lega Nord, dal repubblicano Visentini, che negli anni ottanta magnificava il governo dei tecnici, sino a intellettuali d’origine neofascista che della tecnocrazia hanno fatto uno dei loro bersagli preferiti, passando per un numero impressionante di varianti.

Quando un’etichetta è così elastica nei significati, sarebbe segno di buon senso mandarla in soffitta a riposare, oppure riservarla, di comune accordo, a un unico referente. È questa la scelta fatta dagli autori di due studi recenti, che riportano di attualità la corrente di pensiero che per almeno quindici anni ha avuto l’esclusiva massmediale della denominazione: La Nuova destra. Oltre il neofascismo fino alle "nuove sintesi", di Michele Angella e La destra degli dei, di Francesco Germinario.1

 

Dalla Francia all’Italia

Di "Nuova destra", presentata con l’iniziale maiuscola per separarla dalle tante destre sedicenti nuove prodotte dall’Europa del Novecento, s’iniziò a parlare su larga scala nell’estate del 1979, quando scoppiò in Francia un’allarmata campagna di stampa mossa dalla constatazione che dalle colonne di un rotocalco di grande successo, il Figaro magazine (supplemento dell’omonimo quotidiano) un gruppetto di intellettuali trentacinquenni, contraddistinti da comuni origini nella destra estrema del decennio precedente, stava lanciando un’offensiva culturale contro uno dei concetti-chiave della società moderna: l’eguaglianza. Che si occupassero di cinema, di sociologia, di biologia, di etologia, di letteratura o di storia, quei redattori d’assalto – in primo luogo Michel Marmin, Jean-Claude Valla, Patrice de Plunkett e soprattutto Alain de Benoist – non perdevano di mira l’obiettivo polemico e si battevano per convincere il pubblico dei lettori, vicino al milione di unità, che l’era della "mitologia egualitaria" inaugurata dal pensiero giudeo-cristiano e giunta, dopo lunga trafila, al comunismo stava per finire e che un’altra, fondata sulle differenze e sulle gerarchie, stava per aprirsi.

Non ci volle molto, agli investigatori del Nouvel Observateur e ai loro emuli, per scoprire che dietro il sodalizio giornalistico creatosi attorno al settimanale parigino c’erano legami di vecchia data, cementatisi un decennio prima in una "officina di pensiero" denominata, con un acronimo non casuale, Grece (Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne), impegnata a diffondere idee attraverso convegni, riviste (Nouvelle École, Éléments), scuole di formazione, conferenze. Da lì allo scandalo non c’era che un passo, che numerose testate compirono volentieri, "smascherando" il pericoloso iceberg nero nascosto dietro i profili cerebrali e apparentemente rassicuranti di Alain de Benoist e dei suoi amici. Nello spazio di pochi mesi, la stampa internazionale dedicò al fenomeno oltre mille articoli, pochi dei quali andavano oltre la superficie dell’argomento.

En passant, ci si accorse che anche in Italia, negli ambienti giovanili missini, già dal 1974 si traducevano e diffondevano scritti dei teorici della Nouvelle droite, ma in genere si dette per scontato che si trattasse di un interesse effimero e strumentale, incapace di radicarsi in un microcosmo "eversivo" come quello neofascista, strutturalmente refrattario alla riflessione intellettuale. Nella scia emotiva della denuncia maturarono però i semi di una curiosità intellettualmente più solida. In Francia iniziarono a far la loro comparsa una serie di saggi scientifici, non sempre equilibrati nel giudizio ma in qualche caso efficaci sul piano descrittivo, anche se si è dovuto attendere il 1994 perché vedesse la luce un’opera che abbinava un’efficace documentazione a un onesto esercizio di senso critico (Sur la nouvelle droite, di Pierre-André Taguieff, Descartes & Cie).

 

L’individuazione di un soggetto preciso

In Italia l’attenzione obiettiva al fenomeno, benché rara, si dimostrò precoce. Fu Giovanni Tassani, che si era già addentrato sugli accidentati sentieri della cultura di destra sondandone le varianti interne al mondo cattolico,2 il primo a riconoscere l’esistenza di un soggetto culturalmente autonomo definibile – come esso stesso allora si definiva, pur fra mille distinguo terminologici – "Nuova destra" e a proporre una prima linea d’interpretazione scientifica delle idee che lo caratterizzavano. Accadde fra il 1980 e il 1981, prima con un articolo pubblicato su Il Regno che indagava il percorso della Nouvelle droite francese, a suo avviso sospeso "Tra gnosi e nichilismo", poi con un rapporto di ricerca sull’omologa ma non identica corrente di idee italiana, che apparve, con il titolo "Identikit della nuova destra", sulla rivista di Raniero La Valle Bozze.3

Quegli interventi pionieristici appaiono, a rileggerlo oggi, singolarmente lucidi nell’analisi. Già all’epoca suscitarono una forte e positiva impressione sia in chi si riconosceva nell’oggetto di studio – tanto da servire ai "neodestri" da traccia di discussione interna sugli elementi di continuità e conflitto da valorizzare rispetto alla tradizione politica d’origine – sia negli osservatori esterni, inclusi quelli pregiudizialmente ostili, ma soltanto oggi si può cogliere appieno la fondatezza di talune delle intuizioni che vi si esprimevano, a partire dalla sottolineatura della "non omogene[ità] quanto a grado di spregiudicatezza e a obiettivi politico-culturali" del gruppo fondatore di quello che amava definirsi un "movimento di idee".

Dopo quella iniziale incursione molte altre se ne sono verificate, man mano che – rotti gran parte dei fili che l’avevano legata per più di un lustro al Movimento sociale italiano, ai cui margini aveva alimentato una robusta sacca di dissenso giovanile – la Nuova destra veniva configurando la propria fisionomia tramite convegni di studio interni, pubblicazioni e confronti pubblici. Non hanno esitato a dir la loro molti studiosi: Cofrancesco, Cacciari, Nacci, Tranfaglia, Revelli, Galli, Cardini, Mancini, Masini, Marramao, Settembrini, Galli della Loggia, tanto per citare i più noti. Il dibattito, però, non ne ha guadagnato in chiarezza, un po’ per i toni e gli intenti polemici di molti interventi, volti più a esorcizzare che a capire, un po’ per le frequenti sovrapposizioni con le ricognizioni giornalistiche (che pure hanno avuto, soprattutto grazie a Giampiero Mughini, sprazzi di notevole acume). Guardando ai materiali accumulatisi negli anni, si può constatare che di Nuova destra, in Italia, si è parlato molto e in varie sedi – sono decine, ad esempio, le tesi di laurea che le sono state dedicate – sino a quando l’espressione ha conservato una qualche capacità di individuare un soggetto preciso, ma la conoscenza sostanziale della materia non ha più fatto, dai giorni in cui Tassani aveva redatto i suoi scritti, poi raccolti in volume4, significativi passi avanti.

 

Tagliare i ponti con la destra

Ci sono voluti vent’anni perché l’approfondimento scientifico del tema segnasse un progresso, che giunge ora per merito di un’altra tesi di laurea, quella di Angella, e per certi versi anche del soggetto analizzato, che, dopo molte convulsioni, si è ormai consegnato ad uno stato di quiete che consente di fissarne le coordinate con maggiore certezza e con la necessaria serenità.

Ciò che fa del libro di Michele Angella una pietra miliare, e il probabile punto di arrivo, del piccolo ma denso filone di studi in argomento è la capacità dell’autore di padroneggiare i documenti a disposizione e di trarne sinteticamente i fili di una trama interpretativa mai soggetta a rigidità e forzature. Spigolando fra le letture e incrociandole con le testimonianze dei protagonisti, il giovane studioso pontremolese riesce a ricostruire genealogie di cui ormai persino costoro iniziano a essere immemori. Da questo punto di vista, il nodo più interessante da lui toccato e sciolto capitolo dopo capitolo è quello della continuità dell’esperienza esaminata, per un verso nei confronti della cultura politica dell’area da cui hanno preso le mosse quasi tutti i suoi animatori – il MSI degli anni settanta –, per un altro rispetto alle diverse fasi che il movimento di idee ha attraversato.

Sul primo punto, il giudizio espresso nell’opera è netto: definita la Nuova destra "quella corrente di pensiero sorta con il proposito di rifondare le basi teoriche della destra [noi diremmo piuttosto: del neofascismo] partendo dal rifiuto dell’economicismo e del mercantilismo, dell’utilitarismo e del liberalismo, dell’individualismo e del mito egualitario", l’esame dei materiali consultati porta a concludere che essa è stata "effettivamente protagonista di una vera e traumatica rottura ideologica e antropologica rispetto all’area originaria e non, come ritengono diversi critici, di un "continuismo mimetico" con la vecchia destra, di una semplice mossa strategica di facciata". L’ammissione è indubbiamente di peso. Ma è sul secondo versante che la ricerca offre i suoi frutti migliori e meno attesi. È difficile infatti oggi pensare che sulle pagine del foglio underground La voce della fogna, dissacrante fanzine pubblicata per nove anni a partire dal dicembre 1974 da un gruppo di giovani missini eretici, fossero già state delineate le coordinate essenziali del progetto metapolitico della Nuova destra, incluse talune di quelle che ne hanno determinato l’esaurimento e le recenti reincarnazioni in uno spazio ulteriore – e in larga misura estraneo – alla stessa destra.

Ma Angella, che le ha setacciate puntigliosamente, è in grado di stabilire che quel filo rosso esiste, documentandolo con lunghe citazioni. Il lettore apprende così, fra l’altro, che già nel 1978 il distacco psicologico degli animatori della Nuova destra italiana dalla rigida logica delle appartenenze era cosa fatta: "mentre si ammetteva che a sinistra si era più avanti a livello culturale, nella comprensione e trattazione dei fenomeni sociali, non si intendeva invece concedere alcuna patente di legittimazione alla destra ritenuta retriva e nostalgica". E che tre anni dopo "l’intenzione di tagliare definitivamente i ponti con il mondo della destra e di aprirsi la strada verso una collocazione diversa" era già delineata. Più di venti anni fa.

Il libro evita, giustamente, di rapportare le varie fasi di sviluppo della Nuova destra all’influenza di grandi eventi esterni. Troppa era l’autoreferenzialità dell’ambiente in cui il progetto affondava le radici, troppo l’isolamento psicologico cui erano costretti i suoi promotori perché potessero pensarsi tattiche e strategie connesse alla dinamica della "grande" politica e, men che meno, della società nel suo complesso. Chi, come Marco Revelli e qualche suo più modesto epigono, si è avventurato in ipotesi di questo tipo ha nobilitato la vicenda di cui si occupava ma si è inoltrato in un vicolo cieco.

Pensare il ’68 o il ’77 per carpirne e riadattarne a proprio vantaggio lo spirito di rivolta generazionale, appropriarsi delle teorie sui nuovi bisogni postmaterialisti, comprendere la crisi della sinistra attraverso il prisma del declino della socialità nelle fabbriche erano compiti troppo ardui perché i pionieri della denostalgizzazione del radicalismo di destra raccoltisi attorno a riviste che passavano di mano in mano in poche migliaia di copie come La voce della fogna, Diorama letterario, Elementi o alla componente giovanile della minoritaria corrente rautiana del MSI potessero anche solo prenderli in considerazione. I primi passi compiuti da quello che si trovò ad essere un movimento senza averlo programmato – e dunque senza darsene preventivamente le risorse: errore che in seguito sarebbe stato pagato caro – furono tutti orientati da una logica strettamente interna.

Molti spunti provennero dal contatto diretto stabilito nel 1973 da alcuni giovani missini di simpatie rautiane con Alain de Benoist e il Grece. Il trapianto di questi semi parigini fu favorito dalla rete di relazioni creatasi in seno al Fronte della Gioventù grazie alle frequentazioni dei campi-scuola per dirigenti e delle sedi locali visitate nel rituale pellegrinaggio di conferenze e comizi. Un po’ alla volta, la cerchia dei simpatizzanti delle idee greciste crebbe, pur fra distinguo e discussioni che investivano soprattutto la vocazione anticristiana e neopagana che si esprimeva nelle riviste parigine Nouvelle École e Éléments. I Campi Hobbit, tenuti fra il 1977 e il 1980 per impulso dei giovani rautiani, furono decisivi per raffinare e far conoscere negli ambienti missini di tutt’Italia il progetto di intervento culturale sorto attorno a un grumo di sensibilità e idee comuni, e allo stesso scopo servì Linea, il settimanale pubblicato da Rauti fra il 1979 e il 1981.

L’esposizione a stimolazioni esterne del gruppo promotore della Nuova destra ci fu, e venne ammessa attraverso la formula della "volontaria contaminazione" da parte del mondo circostante; ma non fu altro che il portato di una comune appartenenza generazionale, inevitabile per i rapporti di forza che si erano stabiliti dallo scoppio della contestazione studentesca in poi. I perdenti della battaglia per la conquista del consenso politico giovanile subivano, nel confronto-scontro con i coetanei vincitori, un influsso che si rimodellava in una strana mistura di sfida, rabbia e inconfessata fascinazione: tutto qui. Oltre non si andava: nessuna strategia di inserimento mimetico nel fronte avversario venne varata o sperimentata.

 

Da Alain de Benoist a Grece

Scavalcando questo falso problema che ha fuorviato più d’uno dei suoi predecessori, Angella affronta la questione delle origini della Nuova destra italiana in modo lineare. Dà a De Benoist e al Grece quel che loro spetta; insiste sulla profondità dei segni che sono stati impressi dalla modernità sulla corrente di idee; isola fra i suoi motivi di nascita il desiderio di "ridiscutere e rovesciare valori imposti dalla consuetudine e difesi dagli opinion makers", e giunge, seguendo il filo del rapporto con la Nouvelle droite, a fare della scelta metapolitica il suo tratto di maggiore originalità. Individua infine tre cardini comuni alla riflessione della Nuova destra francese e italiana: il rifiuto del liberalismo "per la sua supposta riduzione di ogni rapporto a merce", l’ostilità al processo di occidentalizzazione del mondo e la ripulsa dell’egualitarismo, "prodotto inevitabile della coniugazione d’individualismo liberale e società di massa".

Il libro descrive fedelmente le tesi che hanno qualificato la presenza della Nuova destra nel dibattito politico-culturale, interno e internazionale degli anni ottanta. Ripercorre l’evoluzione dei fondatori del Grece dal realismo biologico dai sottintesi razzisti che si esprimeva sulle colonne di una rivista militante come Europe Action all’etnopluralismo che ha portato Alain de Benoist a pubblicare presso Laffont un volume dal provocatorio titolo Europe-Tiers monde, même combat e rievoca le tappe che la Nuova destra ha attraversato in Italia, superando il lascito del pensiero evoliano, denunciando i limiti della visione del mondo tradizionalista, lanciando la lezione di metodo del "gramscismo di destra", proclamando la necessità dell’"uscita dal tunnel del fascismo" e abbracciando il comunitarismo, l’antirazzismo differenzialista, la critica del concetto di Occidente, l’ecologismo. Questi passaggi non vengono annegati in una superficiale narrazione descrittiva ma se ne soppesa la rispettiva rilevanza, sforzandosi di coglierne i collegamenti e azzardando l’individuazione di alcuni punti di svolta.

Pur non risultando sempre convincente, il tentativo è interessante. Non è condivisibile là dove porta Angella ad affermare che la nascita della Nuova destra come soggetto autonomo e distinto si colloca nel 1981, perché fu proprio negli anni precedenti che le sue tesi assunsero un profilo radicalmente distinguibile dal contesto missino e, come tali, vennero individuate dagli osservatori esterni. È apprezzabile però in altri casi. Ad esempio, quando, dovendo operare una scelta, individua come temi-guida in cui racchiudere le "speranze della ND per il futuro" il ritorno a una politica piena di significato, l’attualizzazione dello spirito di comunità e l’opposizione alla triade consumismo-mercificazione-tecnologizzazione. O quando reputa importante lo spostamento dalla rivendicazione antiegualitaria alla difesa delle specificità culturali e l’approdo, come conseguenza dell’accettazione della cultura della tolleranza, al "garantismo partecipativo": due prese di posizione emblematiche della definitiva separazione dall’universo psicologico della destra radicale. O, ancora, quando individua e sottolinea le forti differenze esistenti tra la Nuova destra da un lato e, dall’altro, il Fronte della gioventù degli anni ottanta e la "destra sociale", la quale, nota Angella, "propone sì una visione critica verso la globalizzazione economica, il sistema consumistico e lo sradicamento culturale, ma inserisce queste posizioni in un contesto di marcato nazionalismo e populismo, oltre che in un credo granitico nella contrapposizione destra/sinistra".

Acuto, pacato nei toni e accurato nella documentazione, che presenta solo minime e marginali sbavature, il libro di Michele Angella, che non evita di cimentarsi in sede di conclusione con un bilancio dell’esperienza di cui tratta, comprensivo dei suoi sviluppi più recenti, è uno strumento importante per tutti coloro che, magari con opposte intenzioni, reputano significativo il ruolo svolto dalla Nuova destra, francese e poi italiana, nel dibattito politico-culturale degli ultimi trent’anni. Non altrettanto si può dire, invece, del volume che Francesco Germinario ha dedicato alla filosofia politica di Alain de Benoist.

L’opera ha due pregi innegabili: risarcisce il suo oggetto di studio della disattenzione che la grande editoria italiana gli aveva sin qui riservato, costringendolo a far circolare i suoi scritti nel circuito semiclandestino delle piccole sigle5 ed è scritta con toni pacati, quasi sempre riflessivi e ispirati al rispetto per la figura umana e intellettuale di de Benoist, benché il suo autore sia dichiaratamente ostile alle idee di cui tratta. Ma presenta alcune evidenti pecche.

 

La destra degli dei

La più vistosa è la riduzione della complessità di un itinerario che ormai si è esteso lungo sette lustri ed ha conosciuto ripensamenti, contraddizioni e revisioni di rotta ad una sorta di ininterrotto e lineare filo rosso, mosso da una preoccupazione strategica quasi ossessiva di rifondare una "vera destra". Che fra gli obiettivi del pensatore francese vi sia stato, in origine, quello di modernizzare l’ambiente dal quale proveniva, non può essere messo in dubbio; ma proprio gli scarsi esiti che i tentativi da lui effettuati in tal senso hanno avuto, e la curiosità intellettuale che da sempre lo caratterizza, facendone una sorta di novello enciclopedista, provvisto di un’impressionante capacità di lettura e sintesi, hanno da lungo tempo ampliato e ridisegnato quell’orizzonte.

Già nella seconda metà degli anni settanta, quando raccolse numerosi articoli sparsi su varie riviste in un grosso volume intitolato Vu de droite che vinse il premio di saggistica dell’Académie Française, Alain de Benoist si rendeva conto di non potersi più dire "di destra" e affermava che le sue idee si trovavano in quel momento "a destra" solo transitoriamente, per effetto del convergere di una serie di elementi di circostanza, tanto che avrebbero potuto benissimo collocarsi altrove, cioè anche a sinistra, se quello scenario politico-culturale si fosse modificato. I suoi atti, da allora in poi, hanno confermato la vocazione a un pensiero sincretico e trasversale che quelle parole rivelavano. Non solo, infatti, de Benoist non è stato coinvolto in prima persona in alcuna campagna politica della destra, radicale o moderata che fosse, ma molte delle scelte fatte lo hanno separato dagli ambienti nazionalisti, conservatori, tradizionalisti o xenofobi. Le sue pubbliche prese di posizione contro Le Pen e il Front national, accusati di accollare agli immigrati la responsabilità di squilibri e tensioni che affondano le radici nel cuore delle odierne società industrializzate di massa, ma anche contro i liberali giscardiani succubi della tirannia degli interessi economici e i neogiacobini centralisti annidati nelle file del gollismo, non si contano. Ma ne La destra degli dei non se ne trova neppure una flebile eco.

Onestamente, Germinario ammette che "ricondurre il pensiero politico di De Benoist al fascismo tout court è operazione quantomeno semplicistica, certamente utile per delegittimarlo, ma sterile sul piano conoscitivo, se non del tutto disonesta sul piano intellettuale" ed esprime disaccordo verso quei critici prevenuti che fanno passare il teorico della Nouvelle droite per "una versione aggiornata e mascherata – e dunque, proprio per questo, più pericolosa – di Alfred Rosenberg e Heinrich Himmler".6 Ma poi scivola negli stessi errori che addebita ad altri, e la convinzione che "il revisionismo [si noti la scelta del termine, di per sé carico di ambiguità, ndr] di de Benoist è riuscito in un certo senso a mantenersi fedele alla precedente cultura di destra" lo spinge a scrivere che costui "ha comunque cercato di rendere presentabile quella cultura di destra che aveva pur sempre assunto a punto di riferimento i regimi e le culture politiche fasciste" e "si presenta come l’ultimo esponente d[el] filone [di destra della cultura francese degli anni venti-trenta], accentuando il terzaforzismo ereditato dalla cultura politica del collaborazionismo (Drieu La Rochelle ecc.)".

Da qui a farne quel tessitore di sulfuree trame culturali revansciste caro a certa pubblicistica sbrigativa presente sia al di qua che al di là delle Alpi, il passo è breve, e Germinario lo compie quando scrive, non senza una contorsione logica, che "De Benoist sembra non avere quasi mai influito sulle scelte politiche dei movimenti di destra europei (...) Eppure non v’è dubbio che proprio lui abbia messo in circolazione alcune tematiche – prima fra tutte, il differenzialismo – che sono entrate nel patrimonio genetico dei movimenti xenofobi, tanto da poter rivendicare una qualche paternità di pensiero rispetto al variegato panorama storico-politico della destra europea di questi ultimi decenni".

Questa paternità, tuttavia, Alain de Benoist non solo non l’ha mai rivendicata, ma si è impegnato in ogni modo per respingerla, ovviamente inascoltato da chi vuole utilizzare il suo nome nella costruzione di un tipo ideale di Nemico per darsi nuove ragioni di impegno militante chiamate a sostituirne altre ormai al tramonto. Multiculturalista e assertore del diritto dei popoli e delle culture ad affermare le proprie specificità – e per questo motivo in aspra polemica con i sostenitori dell’occidentalizzazione del mondo e dell’assimilazione, da lui giudicata spersonalizzante, degli immigrati nelle società multietniche dei paesi di accoglienza –, de Benoist non si è limitato a respingere la gerarchizzazione delle razze, ma ha deplorato le forme di apartheid che i movimenti xenofobi più o meno apertamente sostengono. E non si può dire che questo sia l’unico aspetto del contenzioso che lo divide dall’universo politico populista incarnato dai Le Pen, dagli Haider, dai Bossi e dai tanti loro odierni emuli.

Altri motivi di conflitto sono le sue critiche del liberismo, del moralismo familista, del produttivismo, dell’individualismo, della tattica del capro espiatorio che fa degli immigrati un comodo bersaglio volto a rimuovere le contraddizioni di fondo dello sviluppo neocapitalistico. Mentre le sue convinzioni federaliste e avverse al culto dello stato lo contrappongono alle destre di ascendenza nazionalista e neofascista, inclusa quell’Alleanza nazionale che pure si sforza per includerlo nel suo smilzo pantheon di pensatori di riferimento, a mero titolo strumentale (Fini è arrivato al punto di citare al recente congresso nazionale di AN una sua frase decontestualizzata, spingendo il Corriere della sera a titolare in sede di commento: "La nuova destra? È quella di De Benoist".

 

De Benoist onniprevadente e incompleto

Per dirla in breve, La destra degli dei è un libro a tesi, che sceglie di enfatizzare i motivi di continuità fra i vari filoni del pensiero di destra del XX secolo e le idee debenoistiane e di tacerne sistematicamente i veri elementi di rottura e di evoluzione. Per riuscire nell’intento, Germinario effettua una rigorosa delimitazione dell’opera da analizzare, espungendone tutti i tasselli che non si confanno all’ipotesi adottata: decine di articoli ed interi volumi. Ben poco di ciò che de Benoist ha scritto su temi economici, sociologici, giuridici, politici in senso stretto è fatto oggetto di attenzione. Abbondano viceversa i riferimenti a quei materiali di impianto più filosofico che meglio si prestano a giustificare l’immagine di un pensatore metafisicamente ancorato a destra, che della sinistra avrebbe fatto il proprio idolo polemico, trascinandola "sul banco degli imputati, chiamata a render conto di tutti gli orrori storici, a cominciare dai totalitarismi (tutti i totalitarismi)" e nel cui bagaglio culturale avrebbe ancora un peso cruciale l’insegnamento evoliano.

In questa strategia discorsiva assume un ruolo cruciale il richiamo all’anticristianesimo. Di uno dei motivi di fondo della riflessione di de Benoist, Germinario fa una presenza onnipervadente, chiamata incongruamente a giustificarne ogni presa di posizione. Il suo intento è di mettere in dubbio la genuinità delle ripetute messe in guardia dello studioso francese contro il potere ipnotico della coppia sinistra/destra, che reputa ormai non più in grado di rendere ragione dei più importanti conflitti culturali e sociali che attraversano le società sviluppate, e di inchiodarlo al secondo dei termini della diade. L’opposizione tra paganesimo politeista e monoteismo giudaico-cristiano è trasforma perciò in fondamento della distinzione assiale destra/sinistra, e la critica debenoistiana del cristianesimo è ricondotta all’influenza di Nietzsche "attraverso la mediazione del rigoroso paganesimo di Evola".

Il registro di questa sovrapposizione de Benoist/destra è talmente ossessivo da togliere vigore persino ad alcuni interessanti spunti critici avanzati da Germinario su singoli aspetti del pensiero dell’autore studiata, ad esempio là dove egli mette in rilievo il meccanicismo della trasposizione di una concezione spiritualistica e trascendente del divino, qual è quella cristiana, in "quell’utilitarismo che, sia nella versione liberale sia nella versione totalitaria, finisce per emarginare Dio stesso dal mondo", sebbene de Benoist ne faccia una semplice derivazione secolarizzata dell’insegnamento biblico ed evangelico, o là dove accusa l’autore di Comunismo e nazismo di accedere a una visione destoricizzata e depoliticizzata del totalitarismo.

È però il capitolo conclusivo, "Approdi del differenzialismo", a racchiudere i maggiori difetti dell’opera. Usando come argomento di autorità le note tesi di Pierre-André Taguieff sul "razzismo clandestino" che si celerebbe nelle pieghe del discorso debenoistiano, ma tacendo sulle successive correzioni che Taguieff ha offerto di quel giudizio,7 il libro rilegge la dottrina debenoistiana sul diritto alla differenza, Leitmotiv dei suoi interventi sulle questioni etniche, in modo polemico e parziale. Non volendo aggredirne i contenuti, perché riecheggiano in larga parte tesi care a quella sinistra più radicale di cui Germinario, come collaboratore di Liberazione, è un abituale frequentatore, la colloca, senza prove, in una strategia mirante a "rivoltare contro la sinistra i suoi stessi argomenti o di appropriarsi da destra delle culture di sinistra" (approcci, a noi pare, in reciproca contraddizione) e la sottopone all’accusa di strumentalismo. Strumentale è, a suo avviso, il confronto con l’altro, che de Benoist predica in opposizione alle chiusure xenofobe, perché "finalizzato a sottolineare la propria specificità", in quanto "l’io vede nell’altro da sé il mezzo per preservare la propria differenza"; e addirittura, di nuovo, questa attitudine lo apparenterebbe all’Evola impegnato nella campagna razziale del regime fascista, che celebrava l’"affermazione della qualità e della differenza di fronte al mito livellatore dell’umanitarismo demomassonico e enciclopedico".

 

Analogie decontestualizzate

Il gioco delle analogie decontestualizzate consente ogni tipo di affermazione, ed è ovvio che in nome della comune diffidenza per l’universalismo possano essere messi nello stesso sacco teorici e correnti di pensiero fra i più svariati: di destra – da Joseph de Maistre in poi – ma anche di sinistra. Un’analisi equilibrata dei caratteri innovativi del pensiero di Alain de Benoist non può però limitarsi ad ammettere che "con il differenzialismo il corpo smette di essere il significante dell’anima e dello spirito, come invece voleva il pensiero razzista classico", insinuando che dietro questo punto di vista si celi un razzismo rinnovato, in cui il culto di una differenza promossa ad assoluto farebbe da battistrada a prassi discriminanti verso le minoranze etniche ("una rinnovata ma non per questo meno rigida ghettizzazione").

L’avversione all’egualitarismo si accompagna, in de Benoist, all’accettazione del dialogo interculturale, e vederlo come l’estensore di "una dichiarazione dei diritti della natura" contrapposti ai diritti dell’Uomo, all’interno di una visione del mondo nella quale "natura e storia sono dimensione opposte, ed è la prima a dare scacco alla seconda" significa operare una forzatura. Non è del resto bizzarro che un filosofo impegnato a prendersela con "l’ombra malefica di Rousseau, ritenuto il padre di tutte le rivoluzioni e sovversioni moderne" abbia scritto, e per giunta nella rivista di formazione interna del Grece, Études et Recherches, un articolo intitolato Relire Rousseau, in cui si mette in guardia dalle interpretazioni deformanti che gli esegeti di destra hanno fornito del pensatore ginevrino, e s’invita a riconsiderarne l’opera senza prevenzioni?

Strano davvero, si converrà. Peccato che nel libro di Germinario di questo saggio, come di molti altri testi debenoistiani "eretici" rispetto al pensiero di destra, non si trovi l’ombra di una traccia, di un riferimento. Prenderli in considerazione avrebbe messo a dura prova l’impalcatura granitica e squadrata attorno a cui è stato costruito La destra degli dei. La cui lettura si risolve così, malgrado l’erudizione dell’autore e alcuni sprazzi di apprezzabile lucidità analitica,8 in un esercizio scarsamente utile alla conoscenza di un pensiero critico e anticonformista che, oggi, ha molto più da dire alla sinistra postmarxista in crisi che alle destre gonfie di apparenti certezze.

 

Marco Tarchi

 

1 M. Angella, La Nuova Destra. Oltre il neofascismo fino alle "nuove sintesi", Fersu, Firenze 2000, pp. 187, € 12,91; F. Germinario, La destra degli dei. Alain de Benoist e la cultura politica della Nouvelle droite, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 158, € 18,00.

2 Cf. G. Tassani, La cultura politica della destra cattolica, Coines, Roma 1976.

3 Cf. G. Tassani, "Tra gnosi e nichilismo. La nouvelle droite in Italia", in Regno-att. 16,1980,388-395; Id., "Identikit della Nuova destra", in Bozze 4(1981) 3-4, marzo-aprile 1981, 37-72. Cf. anche, dello stesso autore, "Soggetto "Nuova destra" e crisi della democrazia", in Regno-att. 8,1984,185-187.

4 G. Tassani, Vista da sinistra. Ricognizioni sulla Nuova Destra, Arnaud, Firenze 1985.

5 L’unico libro di Alain de Benoist pubblicato da una casa editrice regolarmente diffuso in libreria è L’Impero interiore, Ponte alle Grazie, Firenze 1996. Le altre sue opere tradotte in italiano sono state edite da Akropolis (Visto da destra, Le idee a posto), Arianna (Comunismo e nazismo, La "nuova evangelizzazione" dell’Europa), Arnaud (Democrazia, il problema), Asefi (Ripensare la guerra, L’Operaio fra gli dei e i titani), Edizioni del Tridente (Moeller van den Bruck o la Rivoluzione Conservatrice), Basaia (Come si può essere pagani?), Il Labirinto (Nietsche, morale e "grande politica"), La Roccia di Erec (Il nemico principale, Oltre l’Occidente, Razzismo e antirazzismo con André Béjin e Pierre-André Taguieff), LEdE (Il male americano, con Giorgio Locchi), Settecolori (L’eclisse del sacro, con Thomas Molnar), Settimo Sigillo (Adesso che Marte non abita più qui, con Guillaume Faye e Pierre Vial). Suoi articoli e saggi compaiono regolarmente sul mensile "Diorama letterario".

6 Il che non ha impedito a uno dei suoi recensori di capovolgere il suo pensiero su questo punto, accreditando proprio quella vulgata del de Benoist criptonazista che Germinario mette in discussione. Cf. R. Bertinetti, "Ombre nere sull’Europa", in Il Messaggero, 11.5.2002 ("Alain de Benoist, afferma Germinario, rappresenta una versione aggiornata di Rosemberg [sic] e di Himmler") e "De Benoist, in fuga dal discredito", in Il Piccolo, 14.5.2002 ("Definito da Germinario "una versione aggiornata e mascherata, e dunque più pericolosa, di Rosemberg [sic] e di Hitler", de Benoist (…)").

7 I richiami sono infatti al volume La forza del pregiudizio, tradotto in italiano dal Mulino nel 1994 (sette anni dopo la pubblicazione originaria), mentre le ben più elaborate e fondate osservazioni contenute nella già citata opera di Taguieff La Nouvelle droite, che è uscito nello stesso anno in Francia, sono trascurate.

8 Offuscati, purtroppo, dall’umoralità di cui, per l’ennesima volta, Germinario dà prova in alcuni passaggi del volume in cui fa cenno alla "nuova destra" italiana, da tempo assurta a sua bestia nera. Chi vuol rendersi conto della fondatezza delle accuse a essa rivolte ("goffa", "effimera", non originale ecc.) può fare riferimento ai citati scritti di Tassani, all’analisi-requisitoria di M. Revelli, "La nuova destra", in F. Ferraresi (a cura di), La destra radicale, Feltrinelli, Milano 1984, 118-214 e a D. Cofrancesco, "La nuova destra dinanzi al fascismo", in Aa. Vv., Nuova Destra e cultura reazionaria negli anni Ottanta, Istituto storico della Resistenza, Cuneo 1983, 75-113; a M. Zucchinali, A destra in Italia oggi, SugarCo, Milano 1986 oltre che, ovviamente, a La nuova destra di Michele Angella, a cui Germinario non risparmia i suoi polemici strali.