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Costanzo Preve: dialogo su scienza, religione e filosofia

di Andrea Bulgarelli - 10/01/2016

Fonte: Italicum


Intervista di Luigi Tedeschi ad Andrea Bulgarelli coautore con Costanzo Preve del libro "Collisioni - Dialogo su scienza, religione e filosofia" Edizioni Petite Plaisance 2015  


 

1) Secondo Norberto Bobbio, “tra la religione e la scienza, quale è il posto riservato alla filosofia? O si mantiene valida la pretesa all'assoluta verità, e da allora sembra che non si possa fare a meno dell'esperienza religiosa - la filosofia deve cedere alla religione; o si rinuncia alla validità assoluta, ed allora si hanno buone ragioni di credere che bastino le scienze - la filosofia deve cedere alle scienze”. Religione, scienza e filosofia sono dunque, secondo Bobbio, ideazioni umane tra loro del tutto distinte ed autonome, con conseguente delegittimazione del sapere filosofico. In tal caso, una volta eliminati gli elementi del processo dialettico, verrebbe meno il fondamento stesso della filosofia. Secondo Costanzo Preve invece, l'unità dialettica tra scienza e religione verrebbe ad essere realizzata mediante la sintesi messa in atto dalla filosofia, quale momento di mediazione tra i due elementi dialettici. Ma allora scienza e religione non avrebbero di per se stessi alcun fondamento veritativo se non quali elementi del processo dialettico, o meglio, i loro fondamenti non sussistono se non in quanto funzionali alla verità filosofica?

 

Non sono sicuro che Preve intendesse la filosofia come sintesi dialettica tra scienza e religione. Questo significherebbe, come giustamente suggerisci tu, una subordinazione de facto delle prime due alla terza. Avremmo così una vera e propria assolutizzazione del pensiero filosofico, cosa che è in netto contrasto con la tesi dell’autonomia delle forme di conoscenza sostenuta da Preve e da me. Quando in Collisioni. Dialogo su filosofia, scienza e religione (Petite Plaisance 2015) io e Costanzo parliamo di unità dialettica, intendiamo polemizzare con quanti chiudono scienza e religione in compartimenti stagni, strumentalizzandole per mettere in scena il teatro “laici” contro “credenti”. Chi cerca di sviluppare una ricostruzione razionale della genesi delle idee sa perfettamente che la scienza non è caduta miracolosamente dal cielo nel XVII secolo, magari come reazione contro una fumosa “religione” tout court. In realtà la genesi della scienza, esattamente come quella della religione (e della filosofia) è “sporca”, non rimanda a nessuna purezza originale. L’intreccio tra religione e scienza è stato oggetto di specifici studi, tra i quali ricordo quelli di Thomas Merton, secondo i quali l’istituzionalizzazione del pensiero scientifico moderno sarebbe in gran parte la ricaduta non prevista dell’etica puritana. Ciò non significa assimilare le due sfere, o fare della scienza una sorta di secolarizzazione di determinati contenuti religiosi, ma solo rendersi conto che è lo sviluppo storico complessivo dell’uomo a determinare i suoi singoli elementi, e non il contrario. Non si tratta quindi di una posizione oscurantista: anche Stephen Jay Gould ha trattato spesso delle influenze che il contesto storico ha esercitato sul progresso della scienza. Secondo il grande biologo statunitense sbaglia chi si immagina il progresso scientifico come un esercizio di distacco dello scienziato dalle idee e dai pregiudizi della sua epoca. La scienza, esattamente come qualsiasi altra forma di conoscenza, si nutre anche di pre-giudizi e di concetti tramandati dalla tradizione. Questo ruolo di mediazione e di comprensione dell’unità tra le ideazioni umane è compito innanzitutto della filosofia. Questo perché la scienza e la religione (mi riferisco specificamente al cristianesimo e al monoteismo in generale) hanno entrambe per oggetto un ente esterno all’uomo, cioè rispettivamente la materia e Dio. Al contrario la filosofia è in grado di pensare in maniera unitaria lo sviluppo spirituale dell’uomo, che non è il riflesso di realtà esterne ma un processo di autocoscienza, in cui il soggetto (l’umanità) e l’oggetto (la sua produzione materiale e spirituale) sono poste in relazione dialettica, senza una separazione ontologica. Il fondamento veritativo della filosofia, se esiste, sta proprio nella comprensione di questa relazione. Per la scienza si dovrebbe piuttosto parlare di esattezza, più che di verità, senza che questo significhi svalutarla. La religione ha una natura più sfuggente. La sua essenza risiede probabilmente nella produzione collettiva di sensatezza, più che nella personificazione dei fenomeni naturali, nella rassicurazione di fronte alla prospettiva della morte o nell’inganno delle classi sacerdotali. Il non averlo capito è stato un grande errore del marxismo e in generale del pensiero laico occidentale.

 

2) Secondo Alain de Benoist il cristianesimo prima ed il razionalismo dopo, avrebbero determinato la fine della concezione unitaria della physis greca. La scissione tra creatore e creato introdotta dal monoteismo, avrebbe determinato i presupposti del razionalismo, con relativa oggettivazione della natura - materia. Tale dualismo, condurrebbe, secondo Alain de Benoist, all'assolutismo monoteistico e razionalistico, che trova il suo rispecchiamento nel totalitarismo e nell'intolleranza nella sfera politica. Ma in realtà, il monoteismo da una parte e la scienza e razionalismo dall'altra, non sono assimilabili, in quanto la religione presuppone un fondamento trascendente che conferisce legittimità ai processi di riproduzione totale della società, mentre il razionalismo conduce ad un individualismo relativistico che nega il principio del fondamento, relegando la religione a culto privato, riconosciuto, o meglio tollerato, solo se funzionale ai meccanismi capitalisti di riproduzione sociale.

 

Sono sostanzialmente d’accordo quanto affermi che non esiste un legame necessario tra monoteismo e razionalismo utilitaristico.  D’altronde se il fondamento segreto del secondo si nascondesse nel primo, non si comprenderebbe perché monoteismi ancora più intransigenti del cristianesimo, come l’ebraismo o l’Islam, non abbiano partorito a loro volta qualcosa di analogo al razionalismo occidentale. A mio avviso non esiste nessuna genesi unificata che possa spiegare Cartesio o Locke con Mosè o San Paolo. Anche perché la stessa categoria di “razionalismo” andrebbe usata con estrema cautela. De Benoist sbaglia quando pone sotto la stessa etichetta fenomeni estremamente eterogenei come la scienza moderna, la filosofia cartesiana e la ragione strumentale di tipo capitalistico. La visione secondo la quale la scienza moderna sarebbe solamente una forma di oggettivizzazione meccanica della natura a mio avviso non rende giustizia alla sua grandezza e alla visione, tutt’altro che riduzionistica, che essa ci fornisce del mondo fisico. Le teorie scientifiche moderne non rappresentano in nessun modo un arretramento rispetto alle cosmologie di matrice filosofica o teologica, e non solo perché hanno maggiori capacità previsionali.  Anche in questo caso, non riesco a tracciare uno schema di causa-effetto che connetta la teoria della gravitazione o dell’evoluzione e l’antropologia utilitaristica in cui ci troviamo immersi; tanto più che è perfettamente possibile immaginare una società dove le forme di sfruttamento capitalistico siano assenti o alleviate, senza che questo significhi la scomparsa della scienza, anzi. Invece di ipotizzare delle genealogie di difficile dimostrazione o delle categorie-sgabuzzino, io restringerei il significato di “razionalismo” al solo paradigma liberale-capitalista, identificandolo con una concezione strumentale della ragione umana. La sua essenza non è la razionalità scientifica, ma la convinzione che l’unico comportamento sensato che ci si deve aspettare dagli esseri umani sia l’ottimizzazione degli interessi individuali. E’ assolutamente vero che una logica simile non può rimandare a nessun fondamento in grado di legittimare la riproduzione sociale complessiva, al contrario della religione, che ha storicamente dimostrato di poterlo fare, pure in una maniera che oggi non sarebbe possibile riproporre. Robespierre merita di essere annoverato tra i grandi pensatori politici proprio per l’essersene reso conto “in tempo reale”. Robespierre si era allontanato dal cattolicesimo da giovane, e in uno dei suoi incarichi aveva difeso un certo Vissery de Bois-Valé, ammiratore della scienza e dell’illuminismo, che aveva installato sulla sua casa un parafulmine, causando così le rimostranze delle autorità locale che ne temevano superstiziosamente gli effetti nefasti. Insomma, l’Incorruttibile non era certo né un clericale né un oscurantista. Tuttavia fu proprio lui, insieme con Saint-Just e Couthon, ad ingaggiare una lotta senza quartiere contro il tentativo di scristianizzare la Francia intrapreso dalle frange più intransigenti della Montagna, che aderivano alle filosofie utilitarie o materialistiche. Robespierre aveva capito che distruggere la religione tradizionale in nome della ragione, senza rimpiazzarla con un analogo collante sociale, avrebbe aperto la strada all’egoismo possessivo e al nichilismo. Ecco la ragione della sua celebre affermazione “l’ateismo è aristocratico”. Il Culto dell’Essere Supremo fu un tentativo, forse ingenuo, di contrastare le spinte nichilistiche della nascente società borghese. Non a caso molti dei più intransigenti scristianizzatori si riciclarono prima come moderati Termidoriani e poi come impettiti funzionari napoleonici, magari dopo avere fatto fortuna con gli accaparramenti degli ex-beni ecclesiastici.

 

3) Il principio fondante del capitalismo è l'individualismo, che genera una società atomistico - conflittuale in cui l'individuo acquisisce riconoscimento sociale in base alla sua funzionalità oggettiva nel sistema di produzione e consumo. In tale contesto sociale l'individuo riconfigura la propria individualità in base al ruolo funzionale assunto nell'ambito economico - sociale. Se ne deduce che la società capitalista è strutturata su processi produttivi e dinamiche di mercato che non necessitano di riconoscimento sociale collettivo, ne è prova evidente il progressivo estinguersi della sovranità dello stato nazionale. Tuttavia, il capitalismo dispone di forme autoreferenziali assolute di riconoscimento. In tempi recenti, dinanzi alla minaccia terroristica, l'Occidente capitalista dominato dagli Usa, ha assunto una propria autoreferente forma di riconoscimento - legittimazione sotto il concetto coestensivo e totalizzante di umanità. Il capitalismo, nella sua fase speculativa, ha elaborato una sua ideologia globalista compiuta, in cui l'Occidente capitalista si identifica con l'umanità stessa. A tale umanità nessuno può sottrarsi, sfuggire o opporsi, perché all'esterno di essa vi è solo la disumanità terrorista - nichilista.

 

Questa tua domanda solleva un interrogativo fondamentale: come è possibile che nelle nostre società, che sulla scorta di Preve possiamo definire “capitaliste-speculative”, cioè caratterizzate dalla disgregazione totale del legame comunitario in tutte le sue forme, riescano a sopravvivere delle identità collettive? Anzi, a volte queste “forme di riconoscimento collettive”, come le chiami tu, sembrano ancora più invasive e totalizzanti di quelle distrutte dal capitalismo avanzato negli ultimi decenni, come la famiglia otto-novecentesca o lo Stato-nazione. Questo fenomeno è stato notato già in passato da pensatori come Juilliard, secondo i quali il capitalismo liberale sopravvive parassitizzando i valori delle società pre-capitalistiche. La logica mercantile del capitalismo non produce senso, e nemmeno differenziazioni simboliche tra identità diverse, ma solo differenziali di potere e di ricchezza. Tuttavia l’essere umano è per sua stessa natura un animale produttore di senso, e per vivere ha bisogno di un orizzonte simbolico che ne strutturi l’azione, e quindi anche di comunità, ovvero di un orizzonte di senso comune. Questa caratteristica specie-specifica fa sì che una società totalmente priva di forme di riconoscimento collettivo molto semplicemente non possa esistere. Il capitalismo, così come qualsiasi altra forma di società, ha bisogno che gli individui si mobilitino, che facciano funzionare la riproduzione sociale; ma è assai difficile che questo possa accadere unicamente sotto il pungolo del desiderio di arricchimento e di dominio sugli altri. I “poveri” e i “ricchi” non sono delle comunità, dal momento che possono condividere (e nella nostra società di fatto lo fanno) la stessa cultura, la stessa visione della vita, perfino le stesse aspirazioni. Ecco allora che la logica capitalistica per funzionare deve creare continuamente nuove comunità, nuove forme simboliche di differenziazione e di riconoscimento, esattamente come produce inquinamento ambientale e disoccupazione. Uso il termine “creare”, ma ci tengo a dire che non credo si tratti di un progetto consapevole, architettato da un (inesistente) stato maggiore del capitalismo. Si tratta di un processo impersonale, privo di qualsiasi direzione prestabilita, che genera una sorta di “anarchia simbolica” a fianco dell’anarchia mercantile della concorrenza economica. Questo fenomeno riguarda tanto le neo-identità tribali “in basso”, quanto le forme di riconoscimento pseudo-universali “in alto”. La categoria di Occidente così come è attualmente intesa è un buon esempio della seconda tipologia. Chiaramente si tratta di identità fittizie, perfettamente compatibili con lo sradicamento e l’individualismo. Come argomenta De Benoist in molte delle sue opere recenti, una identità autentica presuppone l’esistenza di identità altre con le quali confrontarsi. Certo, ciò non significa che il confronto avvenga sempre in forme pacifiche o razionali. L’incontro tra culture diverse porta spesso scontri violenti. Spesso l’identità dell’altro è vista attraverso una lente deformante che ne altera completamente i tratti. Basti pensare alla storia dei rapporti tra Islam e cristianesimo: non mi riferisco solo alla violenza delle Crociate, ma anche all’immagine che le due culture hanno costruito l’una dell’altra. Per secoli i dotti cristiani sono stati convinti che l’Islam fosse una eresia cristiana, e quelli musulmani che il cristianesimo fosse una forma di politeismo, contro ogni buon senso. Al contrario l’adesione a quella comunità immaginaria che è oggi l’Occidente non rimanda a nessun contenuto preciso che non sia una generica difesa del “Noi” contro un nemico (oggi soprattutto il fondamentalismo sunnita, ma domani potrebbe essere la volta della Russia, della Cina, ecc) altrettanto monolitico e mal definito. Dell’altro si sa solo che incarna tutto ciò che non è Bene, ma nulla di più. I difensori dell’Occidente sono laicisti intransigenti, cristiani fondamentalisti, estremisti di destra e partigiani del politicamente corretto di sinistra. L’unico collante è il sentimento di superiorità morale conferito dal sentimento di appartenenza a una comunità eletta, custode di tutto ciò che è ragionevole e giusto. Il che in un’epoca di crescente insicurezza e solitudine non è poco, anche solo dal punto di vista strettamente psicologico.

 

4) Positivismo e messianesimo, pur nella loro diversità ed estrema conflittualità storica, presentano evidenti similitudini. In entrambi è presente il concetto di fine della storia, in quanto postulano l'oggettività dell'uomo dinanzi ai processi storici. Presuppongono entrambi finalità storiche necessarie, determinabili a priori, siano esse trascendenti, storico - immanenti, ideologiche o scientifiche, ma identificabili in una unica futurologia assoluta. Il fine e la fine della storia si identificano, quali forme di destinalità estranee al soggetto uomo - umanità. Questa eterogeneità tra l'uomo e la storia, ha determinato la delegittimazione di ogni umanesimo filosofico, in quanto con l'ideologia e/o lo storicismo si nega il soggetto e le sue potenzialità di libera determinazione del senso e delle finalità della storia.

 

L’enfasi posta sul futuro è senza dubbio un tratto che accomuna il positivismo e il messianesimo, anche se va precisato che la natura di questa enfasi è molto diversa. Il positivismo è innanzitutto una filosofia ottimistica del progresso, che intende il futuro come il risultato di un graduale miglioramento delle condizioni dell’umanità ad opera di leggi oggettive e inesorabili. Il messianesimo strictu sensu invece prevede una frattura netta tra il presente e il futuro ad opera dell’irruzione del sovrannaturale. In questo senso la tua affermazione potrebbe avere senso: sia le leggi del progresso che Dio si pongono al di sopra dell’uomo e della sua progettualità. Tuttavia quello che rende interessante il messianesimo religioso è che esso è stato la matrice di buona parte dei movimenti emancipativi pre-capitalistici, e che secondo alcuni avrebbe influenzato perfino quelli moderni, comunismo in testa. Ernst Bloch è stato il più radicale sostenitore della centralità del messianesimo cristiano nella “preistoria della rivoluzione”. Certo l’elemento fatalistico era presente, come testimonia l’ossessione per i “segni” che caratterizzava questi movimenti.  Non credo però che la sua essenza fosse solo quella di essere una “futurologia assoluta”, che assicura in anticipo il buon esito della storia, mettendo tra parentesi il ruolo attivo della soggetto-uomo. Se studiamo le rivolte messianiche (ad esempio l’arcinota Bauernkrieg, la Guerra dei Contadini cui rimanda il famoso libro di Engels, ma anche le insurrezioni dei Tai Ping e del Loto Bianco in Cina e l’alevismo radicale nell’Islam) notiamo come l’elemento “futurologico” sia strettamente intrecciato con la rivendicazione di un passato ancora caratterizzato da una sostanziale eguaglianza, da forme di proprietà collettiva. D’altro canto a fianco dell’esaltazione messianica spesso presero forma più “terrene” rivendicazioni di difesa delle terre comuni e di abolizione dei privilegi nobiliari, senza che la cosa fosse vissuta come una contraddizione. La cesura passato/futuro non era al centro delle insurrezioni messianiche. Al contrario, esse sono state un buon esempio delle potenzialità sovversive del passato, di come i movimenti di trasformazione sociale siano ispirati non solo da fantasticherie sul futuro ma anche dal ricordo, per quanto idealizzato, di una precedente società comunitaria e solidale. Per quanto riguarda il positivismo, mi pare che esso sia stato abbracciato con entusiasmo soprattutto dagli intellettuali borghesi seguaci del progresso, e che non abbia mai costituito un vero orizzonte rivoluzionario. La sua diffusione tra la classe operaia, contro la quale metteva in guardia già lo stesso Sorel, sembra avvenire nelle fasi in cui essa si stava già integrando nel sistema capitalista, perdendo le tendenze ribellistiche che pure possedeva nelle prime fasi dell’industrializzazione. Non a caso in Ragione e rivoluzione Marcuse evidenzia le similitudini tra la filosofia politica del positivismo e quella del pensiero reazionario e conservatore, in particolare l’accento posto sul principio di autorità e l’armonia sociale. Certo, anche il marxismo ortodosso ha incluso elementi positivisti, pur essendo stato un pensiero indubbiamente rivoluzionario. Sarebbe interessante studiare se e come questi elementi abbiano determinato la sua crisi.

 

5) Ha destato in me qualche perplessità la critica di Costanzo Preve a Ernst Bloch. La concezione del messianesimo come un categoria che possa essere compatibile con l'emancipazione / liberazione non può essere considerata solo interna alla religione. Infatti la categoria logos - speranza conduce ad una problematizzazione della religione che deve essere considerata nel contesto più generale del pensiero di Ernst Bloch. La religione, deve essere dunque ricompresa nell'ottica della problematica dell'utopia. L'incompiutezza dei processi storici di liberazione ed emancipazione, la dimensione del "non - ancora - conscio", sono elementi essenziali delle potenzialità umane che presiedono ai processi di trasformazione della realtà storica, sono i fondamenti di nuove realtà utopiche già presenti nel messianesimo della trascendenza. Nello stesso mito di mobilitazione di Sorel si configura la centralità della religione nella genesi della nuova morale del proletariato.

 

Condivido la tua valutazione positiva del pensiero di Bloch, che spesso viene frettolosamente spacciato per una sorta di futurismo irrazionale. In realtà Bloch è estremamente attento al recupero di quelle che prima ho chiamato “potenzialità sovversive del passato”. Il nucleo del suo Eredità del nostro tempo è sostanzialmente quello. In questa raccolta di scritti, purtroppo poco conosciuta, Bloch critica la sinistra del suo tempo e la sua scelta di abbandonare al nazismo la mistica della nazione, le inquietudini anti-moderne dei contadini e dei piccoli borghesi e perfino la stessa etichetta di Terzo Reich, il Terzo Regno dello Spirito sognato dalle eresie comuniste del Medioevo, che Hitler rovescia fino a farne un simbolo della violenza cieca e dell’oscurantismo. Quelle che per la sinistra progressista erano solo rottami del passato oppure pulsioni irrazionalistiche, secondo Bloch invece erano “contraddizioni non-contemporanee”, percorsi di emancipazione interrotti che il socialismo marxista avrebbe dovuto prendere in eredità ed inverare. La filosofia della religione di Bloch rientra in questa logica, che prende in eredità il passato invece di liquidarlo. D’altronde anche Sorel fa una scelta simile di valorizzazione della religione, pur non avendo un substrato culturale religioso-ebraico come Bloch. Certo, il recupero del messianesimo di Sorel è molto diverso rispetto a quello di Bloch. Al contrario di Bloch, egli non vuole dare un fondamento ontologico alla propria filosofia, che resta iscritta in un orizzonte sostanzialmente pragmatico: nessuna ontologia del non-essere-ancora, nessun “sogno di una cosa”. A Sorel interessano solo le ricadute pratiche della religione, in particolare quelle morali. A questo proposito è interessante notare come Sorel avesse in realtà una concezione gradualistica e non catastrofica della rivoluzione; per lui il socialismo era soprattutto un lungo percorso di auto-educazione del popolo (cfr. l’illuminante volume di A. Monchietto Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel, Petite Plaisance 2015). Il suo interesse per il messianesimo non si spiega con una analogia tra la rivoluzione e l’irruzione del Regno di Dio, ma con l’influenza morale che il mito del Regno esercitava sulle coscienze. Così come i cristiani dei primi secoli cercavano di rendersi degni del Regno imminente conducendo una vita santa, così gli operai avrebbero ripudiato la corruzione borghese grazie al mito dello sciopero generale e ad una visione apocalittica dell’avvento del socialismo. Con la differenza non da poco che per i cristiani la Parusia era una realtà di fatto indiscutibile, un articolo di fede, mentre Sorel si rifiutava di offrire alcuna certezza sul futuro.

 

6) Dal pensiero scientifico, è scaturita una ideologia di legittimazione del capitalismo assoluto. Esso ha assunto le vesti di una "filosofia della rassicurazione" (Hutten), contro il nichilismo, sostituendosi alla teologia. Il pensiero scientifico, che all'epoca del positivismo aveva prodotto il "disincantamento del mondo", ha poi generato un nuovo reincantamento, fondato sulle leggi economiche assunte oggi a dogmi di natura scientifico - ideologica. Assistiamo oggi al paradosso di una nuova unità del sapere su basi positivistico - ideologiche, in cui sopravvivono e convivono scienza, religione e filosofia. Tuttavia la "fisica sociale" che naturalizza la società, non le concepisce come ideazioni umane distinte, con diverso oggetto di conoscenza, ma come ideologie che svolgono ruoli diversi nei loro campi specifici, di elaborazione teorico - pratica della oggettivazione della realtà sociale propria del sistema capitalista. Nell'epoca contemporanea, non sussistono quindi più scienza, religione e filosofia, se non nelle loro ricadute ideologiche omologate al capitalismo assoluto.

 

Più che fondare una nuova unità del sapere su basi positivistiche, nella nostra società assistiamo a una parziale neutralizzazione di scienza, filosofia e religione. Dico “parziale” perché filosofia, scienza e religione continuano a sussistere come ideazioni separate, anche se subordinate alla logica mercantile. La logica mercantile è sommamente indifferente sia alla verità che al suo contrario, la menzogna palese; essa si nutre soprattutto di deformazioni e manipolazioni. L’aspirazione all’unità del sapere denota comunque un interesse per la verità, cosa che va riconosciuta al positivismo, con tutti i suoi difetti e limiti. Va detto però che anche nel passato le ideazioni umane sono state soggette alle ideologie di potere. Nel Medioevo la libera elaborazione teologica e spirituale era subordinata alle gerarchie feudali-ecclesiastiche. Nel XVII e XVIII secolo la scienza dovette affrontare difficoltà analoghe, sebbene più tardi le classi dominanti borghesi si siano rese conto che essa non costituiva una vera minaccia per un ordine sociale come quello capitalistico, che non si legittima in base a codici simbolici religiosi. La novità oggi è che da nessuna delle tre ideazioni sembrano nascere delle istanze in grado di mettere veramente in discussione lo status quo. Nel Medioevo a fianco dei riti ufficiali fiorivano le eresie egualitarie o mistiche, nel Rinascimento le nuove scoperte scientifiche mettevano in crisi la vecchia cosmologia, nel XVIII secolo la filosofia giusnaturalistica e illuminista metteva in discussione le basi dell’ordine sociale. Oggi non vediamo nulla del genere. Probabilmente questo dipende dai caratteri specifici della società capitalista avanzata, che, come amava ripetere Preve, non necessita di fondazioni esterne all’accumulazione e alla circolazione mercantile. Dal punto di vista ideologico oggi non assistiamo ad una ideologizzazione diretta ma piuttosto a un recinto sacro di tabù, all’interno del quale in realtà esistono ampi margini di “libertà” individuale e di gruppo. In un sistema che si legittima con l’“ordine naturale voluto da Dio” è possibile richiamarsi a forme alternative di religiosità o negare l’esistenza di Dio. In un sistema in cui ciascuno è libero di dire e fare più o meno tutto, purché rispetti diligentemente una serie di tabù, sono possibili solo delle trasgressioni, che a loro volta possono essere silenziate in nome del politicamente corretto oppure semplicemente ignorate. Ecco perché la filosofia sopravvive come dotta discussione accademica oppure come nobile testimonianza individuale. Il caso della religione è ancora più complesso. Da un lato sopravvive in una dimensione puramente privata. Dall’altro oggi assistiamo a un rinnovato impegno nelle sfera sociale delle istituzioni ecclesiastiche, e mi riferisco in particolare alla Chiesa cattolica sotto il pontificato di Francesco. Non è una contraddizione e non bisogna farsi trarre in inganno. L’“opzione preferenziale per i poveri” è senza dubbio legittima e ammirevole, ma non ha nulla di rivoluzionario, e a mio parere non è da lì che nasceranno delle forze spirituali in grado di sollevare il cattolicesimo dalla spaventosa miseria spirituale in cui vive da decenni. Spesso si sostiene che l’attenzione per gli emarginati fosse la forza del cristianesimo primitivo, e che la sua rinnovata centralità costituisca una sorta di ringiovanimento della Chiesa. A mio avviso si tratta di illusioni. L’“ideologia del povero” ha radici pre-cristiane, che affondano nell’età dei regni ellenistici, in cui il sovrano si auto-legittimava come “protettore dei poveri”, senza che questo portasse ad alcuna forma di egualitarismo. D’altro canto gli emarginati vogliono (legittimamente) innanzitutto essere integrati, e non mettere in discussione l’ordine sociale vigente. Piuttosto bisogna ricordare che le comunità cristiane primitive erano pervase da un soreliano “spirito di scissione” dal mondo pagano che le circondava. Seppure questa scissione di solito non assumesse tratti sovversivi ma piuttosto quietistici, esso implicava un rifiuto implicito di tutto l’apparato dell’impero romano, dalla “naturalezza” della schiavitù alla divinizzazione del potere imperiale al servizio militare. Anche dopo la riconciliazione con l’impero qualcosa di questo spirito è sopravvissuto nei due millenni successivi, infondendo nuova forza al cristianesimo attraverso la vita monastica, negli ordini mendicanti e predicatori, nelle eresie medioevali e nel radicalismo protestante. La maggiore tenuta dell’Ortodossia nei confronti della secolarizzazione si potrebbe spiegare con la centralità del monachesimo. Ancora diverso è il caso della scienza. Qui si deve fare i conti con la “fisicalizzazione” della società, cioè con la sua riduzione a un meccanismo governato da leggi oggettive e scientificamente prevedibili. E’ palese che questa concezione è un calco del metodo scientifico, applicato però non alla natura-materia ma alla società. Non è altrettanto semplice capire perché e come tutto ciò sia avvenuto. Probabilmente il tramonto della teologia come codice di legittimazione del potere, che ha avuto luogo per ragioni autonome, ha lasciato un vuoto colmato dalla scienza, o meglio dal suo uso ideologico. Così come la teologia, anche la scienza ha per oggetto un ente esterno alla coscienza umana (la natura-materia). In più il metodo scientifico e a-valutativo, cosa che è in perfetta sintonia con la logica del capitalismo, che è appunto neutra e che non prevede giudizi di valore. Sarebbe sbagliato però far ricadere sulla scienza la colpa di questo “calco ideologico”. Le protagoniste della naturalizzazione non sono tanto le scienze naturali, quanto l’economia e in minore misura la sociologia. Al proposito condivido le tesi di Althusser esposte in Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati: le scienze sociali sono discipline che incorporano elementi del metodo scientifico, legittime ed utili ma non omogenee alle scienze naturali. Ristabilire un giusto equilibrio tra scienza e filosofia vorrebbe dire proprio de-naturalizzare la società, rimetterne in discussione le “leggi”, compito che a mio avviso può essere svolto solo dalla filosofia con l’ausilio delle scienze sociali una volta che queste abbiano rinunciato alla proprie pretese di assolutezza. Le scienze naturali invece devono continuare a fare quello per cui sono nate: studiare la natura e le eventuali ricadute pratiche di queste conoscenze. In uno scenario non più dominato dal modo di produzione capitalistico il loro ruolo potrebbe però cambiare. E’ vero, come sosteneva Adorno, che una società socialista potrebbe decidere di non utilizzare molte possibilità tecniche inutili o dannose. E’ però altrettanto vero che molte potenzialità della scienza e della tecnica potrebbero essere valorizzate, mentre ora sono sfruttate male o addirittura dimenticate. La nostra è l’era dell’obsolescenza programmata, delle innovazioni tecnologiche trascurate perché non genererebbero profitto privato, di interi settori di ricerca (penso all’evoluzionismo) che vengono mal sovvenzionati perché sono privi di immediate ricadute pratiche. Questa valorizzazione della scienza potrà avvenire solo con un cambio di paradigma sociale e culturale.