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Una società relativista produce la selezione dei peggiori

di Francesco Lamendola - 25/01/2016

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 

Non occorre essere pessimisti di professione o eterni profeti di sventura per avere la netta sensazione che stiamo vivendo in una società moribonda, che ha smarrito la direzione e che sta andando alla deriva, portata dai venti del caso, se non anche da una oscura, ma precisa voluttà di auto-dissoluzione.

Le cause del fenomeno sono molte e affondano le loro radici nel passato; una, però, ci sembra più clamorosa, più evidente e più nefasta di tutte: il rifiuto di prendere a modello ciò che è migliore, con la motivazione che "migliore" e "peggiore", essendo termini relativi, sono anche opinabili e contestabili,e che, non essendovi, o non essendo intelligibile, il Bene ed il Male in se stessi, ciascuno è libero e padrone si seguire quel che per lui è migliore - o anche, se o preferisce, ciò che per lui è peggiore, ma comunque gradito.

Non esistono più modelli virtuosi da imitare, perché non esiste più la virtù; i soggetti mediocri non riconoscono la superiorità altrui, perché pensano di essere loro i migliori, o, comunque, di non aver nulla da imparare da nessuno, visto che tutte le virtù sono relative e che nessuno, pertanto, può dirsi buono in assoluto. Di fatto, vi è stata, nel corso degli ultimi decenni, una vera e propria rivoluzione antropologica: è nato un nuovo tipo umano, che pretende di essere norma a se stesso e che non ritiene di aver nulla da apprendere, nulla da migliorare, e che, psicologicamente, non arrossisce dei propri sbagli, non si vergogna delle proprie colpe, soprattutto non desidera emulare chi è migliore di lui, anzi, è pronto ad insorgere con forza, con rabbia, e specialmente con invidia, contro i modelli positivi.

C'è stato un tempo, non lontanissimo - molti di noi lo hanno conosciuto, nella loro infanzia - in cui ci si vergognava di aver fatto male la propria parte e si desiderava sinceramente poter ottenere risultati almeno paragonabili a quelli dei migliori. Il bambino che disobbediva alla mamma e combinava un guaio; lo studente che, avendo studiato poco, prendeva un brutto voto a scuola; il garzone al quale il padrone faceva notare che aveva lavato male i piatti, o lucidato male le scarpe, o strigliato male il cavallo; l'artigiano che eseguiva male un lavoro, una riparazione, e veniva chiamato di nuovo dal cliente per rimediare al lavoro non ben fatto; l'avvocato che perdeva la causa; il medico che non riusciva a far guarire il paziente; il bancario che si accorgeva di aver male consigliato il risparmiatore, facendogli perdere una parte, anche piccola, del suo capitale; il tipografo che, dopo aver stampato i biglietti da visita, notava un refuso, o anche solo una imperfezione nei caratteri; il pasticcere al quale il negoziante riferiva le lamentele di un cliente per la crema non più fresca dei bignè; il tenente, il cui plotone era arrivato ultimo alle esercitazioni di tiro, o che, nella marcia di addestramento, non aveva meritato gli elogi del colonnello; l’ostetrica che aveva fallito nel far nascere presto e bene il bambino; la massaia che aveva bruciato l'arrosto o che aveva rammendato male i calzoni del marito: tutti costoro, ciascuno nel proprio ambito, si rammaricavano con se stessi, si rimproveravano la loro inadeguatezza, provavano imbarazzo, mortificazione, dispiacere, e passavano al fermo proponimento di non ripetere la cattiva prova, di fare meglio per il futuro, di prendere a esempio e a modello tutti quelli che facevano meglio di loro, e dai quali avevano qualcosa da imparare. In altre parole: esisteva il culto del lavoro ben fatto e un vivo desiderio di perfezionarsi, nonché di mettersi alla sequela di chi era capace di far meglio; l’invidia non era distruttiva, come oggi, ma costruttiva: spingeva ad una sana emulazione, non al rancore permanente.

Certo, non tutti si comportavano così; i pigri, i fannulloni, i parassiti, esistevano anche due o tre generazioni fa, così come, probabilmente, esisteranno sempre. Però non erano scusati e giustificati da tutti, non erano coccolati e vezzeggiati in quanto pigri e fannulloni; al contrario, erano guardati con poco rispetto e con nessuna fiducia: la società faceva pesar loro il fatto che non davano alcun contributo positivo al bene comune e li condannava all’isolamento e all’emarginazione. Se anche un giudice buonista li avesse rimandati in libertà subito dopo l’arresto per spaccio di droga, costoro non avrebbero più avuto la vita facile nel loro quartiere o nella loro cittadina: le persone perbene li avrebbero evitati come la peste, figuriamoci le ragazze in cerca di marito. Pertanto essi avrebbero dovuto cambiar vita e rimettersi sulla buona strada; oppure andarsene. Oggi, lo spacciatore recidivo se ne va in giro per le strade della sua città a testa alta, con aria di sfida: se ne infischia non solo della legge, debole e impotente, ma anche del giudizio altrui – quando pure non gode della simpatia e dell’ammirazione di molti altri cattivi soggetti come lui. Perché nella società del relativismo e del nichilismo imperanti, i buoni sono costretti al silenzio, mentre i malvagi gonfiano il petto e alzano la voce, come fossero i padroni d’ogni cosa.

Immensi sono i danni che l’egualitarismo e la demagogia populista hanno fatto al nostro tessuto sociale, dopo aver predicato per decenni che siamo tutti uguali, tutti di pari valore e di pari merito, e che, se qualcuno è più bravo, probabilmente si tratta di un nemico del popolo, di un agente provocatore, di un aristocratico con la puzza sotto il naso, oppure di un reazionario che vorrebbe reintrodurre la servitù della gleba. E questo perché si è fatta, in perfetta malafede, una assurda equiparazione fra la dignità della persona e la dignità delle persone. La persona umana – è questo il lascito migliore del pensiero e della pratica cristiana, sul piano etico – merita sempre rispetto e attenzione, perché unica e irripetibile e perché reca in se stessa, per quanto offuscata e semi-nascosta, una vaga immagine della Persona assoluta, Dio. Le persone, tuttavia, non meritano tutte e sempre il medesimo rispetto e la medesima attenzione: li meritano se si sforzano di attuare la loro natura profonda, realizzando il bene cui tutti siamo chiamati; non li meritano se decidono di degradarsi e, facendo il male proprio, causano anche il male altrui. Eppure la distinzione dovrebbe essere semplice: un rapinatore, un assassino, un violentatore di bambini, meritano rispetto in quanto persone umane, riflesso della Persona divina; ma non in quanto persone singole, che hanno scelto di abbandonarsi al male e di degradare se stesse a un livello più basso delle bestie. È la distinzione fra peccato e peccatore, se si vuole; precisando, tuttavia, che, se il peccatore è recidivo e addirittura cronico, se non vive ormai che per fare il male, alienando totalmente la propria natura spirituale, non merita alcuna indulgenza: è una mela marcia, e le mele marce – checché ne dicano i buonisti ideologici, come don Luigi Ciotti – vanno tolte dal cesto e gettate via, altrimenti infettano e fanno marcire anche tutte quelle sane. È giusto ed umano aver paura delle mele marce; è folle e presuntuoso pensare di poterle lasciare nel cesto, con le altre.

Una società è sana, e si conserva tale, se riconosce il Bene e il Male, il Vero e il Falso, il Giusto e l’Ingiusto, il Bello e il Brutto; è malata, o si ammala, se, mediante l’instaurazione del relativismo etico, culturale, spirituale, apre la strada a tutte le aberrazioni, con la scusa di proteggere le minoranze e di tutelare i più “deboli” (che poi, magari, non sono affatto i più deboli, ma i più forti, come lo è il figlio energumeno, drogato e cattivo, che picchia a morte i genitori per procurarsi i soldi della dose di eroina: cronaca di ieri, a Treviso). La società europea del Medioevo credeva nei valori assoluti, ed era sana: la sua salute le ha permesso di resistere, per mille anni, alle innumerevoli forze centrifughe che la insidiavano dall’intermo, e di respingere le incessanti aggressioni che la minacciavano dall’esterno. Per fare un esempio semplicissimo: una società che, in nome della democrazia, tollera l’esistenza delle religioni sataniche, con ciò stesso approva ed incoraggia dei virus potentissimi, che faranno di tutto per distruggerla, approfittando della totale assenza di anticorpi. Vi sono religioni che sono malvagie in se stesse: Satana non è un dio qualunque, anzi, non è affatto un dio: è il Principe del Male: adorarlo, significa essere intenzionati a compiere il male, in tutte le forme possibili, sempre e contro chiunque, perché è questo che egli pretende dai suoi servitori. Concedere la libertà di culto agli adoratori di Satana, affermando che solo se essi infrangono la legge devono essere perseguiti, ma non in quanto satanisti, bensì come lo sarebbe qualsiasi altro cittadino, è una forma cecità e di masochismo ideologico: è un non voler vedere la realtà, quando la realtà è estremamente pericolosa per la convivenza civile. Il Principe del Male non sa che farsene di omaggi “platonici”; quel che vuole, sono i fatti: i fatti del male. E quand’anche – per mera ipotesi, ma ipotesi insostenibile – i satanisti non facessero del male al prossimo, certamente ne fanno a se stessi, e il peggiore che si possa immaginare. Non è un motivo sufficiente per considerare il satanismo una pratica illecita e per reprimerla con la massima energia, per il fatto stesso che esiste?

Se sappiamo di avere in casa un serpente velenosissimo, che si aggira per le stanze, striscia sui tappeti e si insinua fra le lenzuola del letto, aspettiamo che abbia morso qualcuno, per dargli la caccia ed eliminarlo? Diciamo forse che, fino a quando non abbia morso nessuno, non bisogna molestarlo, perché, poverino, ha anche lui il diritto di vivere e di prendere domicilio dove gli pare e piace? E questo, che abbiamo detto a proposito del satanismo, dovrebbe valere in moltissimi altri casi. I nostri giudici sono incredibilmente teneri e comprensivi: le cronache sono piene di delinquenti che, arrestati in flagranza di reato, vengono prontamente rimessi in libertà con motivazioni quali il “disagio sociale”, lo ”stato di necessità”, le attenuanti generiche. Uno spacciatore africano, arrestato dai carabinieri di Padova, e che ha tentato di uccidere due di essi a coltellate, è stato prontamente scarcerato da uno di questi giudici buonisti, progressisti e compassionevoli: libero di ricominciare a vendere la droga e a prendere a coltellate persino le forze dell’ordine. L’uomo aveva ricevuto già quattro avvisi di espulsione, ovviamene mai rispettati, e a suo carico esisteva un incartamento di reati lungo così: dallo spaccio alla violenza. Ma, evidentemente, non era abbastanza: quod Deus perdere vult, dementat prius; quando Dio vuole spingere qualcuno alla rovina, prima lo fa impazzire. E la società buonista è veramente una società impazzita, che corre verso l’abisso.

A lungo andare, tutti questi modi di fare e di essere producono, letteralmente, la dissoluzione del tessuto sociale, a partire dal più prezioso e insostituibile: quello della famiglia. Per troppo tempo l’Europa si è scaldata in seno i suoi virus micidiali: gli intellettuali del rifiuto e del sospetto, che hanno distrutto la tradizione, diffamato i valori, irriso le cose più sante; ora ne sta pagando le conseguenze. La cultura del sospetto e la cultura del rifiuto sanno solo distruggere: dalla psicanalisi alle cosiddette avanguardie, dal marxismo all’esistenzialismo, la cultura moderna si è accanita e intestardita a demolire tutto, a sbeffeggiare tutto, a disprezzare tutto: il lavoro, la borghesia, la religione, la patria, la bontà; ma non ha saputo costruire nulla. È stata, ed è tuttora, la cultura del ghigno, della blasfemia, del cachinno: che ha esaltato, contro la società “repressiva”, la follia (quando non ha negato che esista), il sadismo, l’omosessualità, la pedofilia, il furto (rivalutato e riabilitato in quanto “esproprio proletario”), la droga, l’ignoranza (con la scusa di contestare la scuola “di classe”), la stupidità (dal momento che l’intelligenza è soggettiva), la violenza fine a se stessa (ma vista sempre come “liberatrice” e “libertaria”). La nostra società ha fatto una tale indigestione di relativismo e di nichilismo, che a destare stupore è solo il fatto che non si sia ancora totalmente auto-distrutta, e che la sua agonia si prolunghi così tanto.

Come uscire da questo vicolo cieco; come risalire la china, ammesso che lo vogliamo?

Non esiste che una sola strada: quella della volontà e del ritorno al Bene. Dobbiamo oltrepassare la cultura del rifiuto e del sospetto; dobbiamo smettere di allevare i virus che causano la nostra malattia mortale. Forse è già troppo tardi; nondimeno, dobbiamo tentare: lo dobbiamo per rispetto e per amore dei nostri figli e delle generazioni che verranno. Il mondo non è soltanto nostro, di noi che siamo vivi adesso: è anche di coloro che nasceranno e che vivranno dopo di noi (e un poco, almeno in senso ideale, anche di coloro che ci hanno preceduti nella patria dell’eternità). Altrimenti, per coerenza, dovremmo smettere di procreare del tutto: non si possono far nascere dei bambini e poi disinteressarsi totalmente delle difficilissime condizioni in cui dovranno vivere, per causa nostra. Pertanto, dovremmo preoccuparci un po’ meno dei nostri diritti ad avere questo e quello, e un po’ più dei loro diritti: dei bambini che stanno nascendo in questo momento, o che nasceranno nei prossimi anni. Loro, sì, hanno il diritto di trovare una società che li accolga davvero e che li aiuti a crescere e a costruirsi una vita buona. Perciò, al lavoro. La messe è molta e gli operai sono pochi...