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Andrejev, martiri e terroristi

di Francesco Mario Agnoli - 25/01/2016

Fonte: Arianna editrice

     Uno degli aspetti del terrorismo islamico più difficili da capite per gli occidentali è quello dei cosiddetti  “martiri”, cioè degli attentatori che per colpire e distruggere il bersaglio si fanno saltare in aria, in nome di Allah e dell'Islam,  insieme alle vittime designate. Spesso si usa anche il termine “kamikaze” preso a prestito dagli aviatori  giapponesi, che durante l'ultimo conflitto mondiale, esaurite le bombe, si gettavano col loro aereo sulle navi americane.  A differenza dei “martiri” musulmani  i “kamikaze”, pur sentiti figli di una cultura diversa !alla samurai) e sostanzialmente estranea,  sono sempre stati oggetto di ammirazione, perché l'uccisione di altri essere umani a prezzo della loro vita era non solo legittimato, ma elevato alle vette del più puro eroismo  dall'avere agito nell'ambito di una guerra in corso fra Stati universalmente riconosciuti come tali.

     Di queste cose si ragionava qualche tempo fa in una discussione con amici tanto fermamente convinti  che si tratti di fenomeni estranei alla cultura occidentale da non lasciarsi contagiare  dai miei dubbi al riguardo, anche perché  a sostegno di quello che dopo tutto  era non una convinzione, ma, appunto, soltanto un dubbio, non riuscivo a portare fatti concreti né a ricordarne l'origine.

      In pratica ero rimasto isolato e soccombente, ma il tarlo del ricordo continuava  a rodere, sollecitandomi a ricerche, che mi hanno portato alla riscoperta  di un racconto letto molti (troppi) anni fa e pressoché dimenticato, ma  evidentemente non del tutto cancellato.  Si tratta di I sette impiccati, opera dello scrittore russo Leonid Andrejev (Oriol  18 giugno 1871,  Mastamaliki -Finlandia -12 settembre 1919), che,  scritto nel 1908,  narra le vicende (più che altro le riflessioni in carcere dopo la condanna, in attesa di salire la forca) di cinque giovani rivoluzionari, tre uomini e due donne (il più anziano di 28 anni, la più giovane di diciannove), arrestati  dopo il fallito tentativo di uccidere  un ministro dello zar.

    Senza dubbio del tutto diverso rispetto al tema della  discussione con gli amici l'interesse dell'autore, che “tende a fissare più che l'attimo della morte per impiccagione di cinque giovani attentatori – accomunai nel loro destino a due delinquenti comuni - lo stato d'animo con cui ciascuno, uomo o donna  va incontro alla morte; rassegnazione, indifferenza, esaltazione, terrore, debolezza e calmo coraggio si infrangono, l'uno dopo l'altro, senza declamazione retorica, contro il palo che attende, nella foschia dell'alba, simile a una croce deformata” (trascrivo dalla nota di presentazione dell'edizione B.U.R. 1955).

   Tuttavia, nel concreto della vicenda, se uno dei condannati, il più anziano e più disilluso. un certo  Verner, era armato solo di una rivoltella, “indosso agli altri terroristi avevano rinvenuto bombe e ordigni micidiali” e  la più giovane di tutti, la diciannovenne Mussia  e un altro attentatore, Vassiij “si erano agganciati alla cintura  gli ordigni esplosivi, destinati, qualche ora dopo, a far saltare in aria anche loro”. Eppure è proprio l'aspirante kamikaze Mussia ad avvertire, una volta  in carcere,   il bisogno di giustificarsi non per la morte sanguinosa che, sacrificando se stessa, voleva  infliggere, ma perché, pur non essendo un'eroina e avendo fatto così poco, “una creatura  giovane e insignificante come lei avrebbe avuto la stessa morte splendida e gloriosa, toccata agli eroi e ai martiri”. Quando poi, dopo avere riflettuto, si convince  che “l'uomo ha  un valore non solo per quello che ha fatto ma anche per quello che voleva fare” si sente “degna dell'aureola del martirio” e presa da indicibile gioia: “Non c'erano più dubbi, ormai, né esitazioni: veniva accolta, entrava di diritto nella schiera di quegli esseri luminosi che da secoli e secoli passano attraverso il rogo, la tortura e i supplizi per giungere nell'alto dei cieli”.

    Gli altri condannati  reagiscono in modo meno idealistico o romantico, sembrano non aspirare al martirio, anche se tutti, tranne uno - che se ne vergogna – attendono con tranquillità il giorno ormai prossimo dell'esecuzione, ma nessuno  si preoccupa delle morti che intendevano dare, delle vittime sfuggite per un soffio  alla fine cui le avevano destinate. Il che è sorprendente per il lettore, ma del tutto ovvio, perché non può pentirsi  chi  si  attende di essere ammesso all'immortalità degli eroi anche se si tratta  di quella immortalità, tutta terrena, che si esaurisce nel ricordo e nell'ammirazione dei posteri. Gli immortali di questi tipo diventano componenti di quello che oggi si definirebbe un patrimonio immateriale dell'umanità con o senza il certificato di garanzia dell'Unesco.

     D'accordo, si tratta di personaggi  immaginari  e le loro riflessioni sono frutto della fantasia dell'autore, Resta però il fatto che nel 1908 in Russia gli attentati terroristici, inclusi quelli  kamikaze, erano all'ordine del giorno e  i loro autori, quasi tutti provenienti da famiglie nobili o borghesi, comunque benestanti e acculturate,  appartenevano  non alla corrente slavofila della intellegencjia, ma a quella occidentalizzante, sicché è a questa cultura che va attribuita (o, quanto meno, che Andrejev attribuisce) l'aspirazione di Mussia (pur col dubbio di non meritarla)  alla corona del martirio.

  Se si presenterà l'occasione di riprendere l'argomento con gli amici il racconto dello scrittore russo mi verrà utile non per riabilitare aspiranti assassini  e presunti  “martiri”, ma per portare la testimonianza ideale di Andrejev e dei suoi lettori, che all'epoca provarono ammirazione e simpatia per la giovane Mussia, sul fatto che anche   nella cultura  occidentale  possono verificarsi (e già si sono verificate) situazioni nelle quali  l'omicida può credersi buono, luminoso e aspirare alla gloria dei martiri.