Leggere un libro di Werner Sombart è come degustare quei vini, che più invecchiano più si fanno apprezzare. E’ perciò sicuramente meritoria l’idea di ripubblicare Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? ( Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. XXXVIII-153, euro 15,00, con prefazione di Guido Martinotti e traduzione dal tedesco di Giuliano Geri, entrambe nuove di zecca).
Quando uscì per la prima volta in Italia nel 1975 (Edizioni Etas), con una prefazione di Alessandro Cavalli, ci si interrogava ancora positivamente sulle potenzialità del socialismo nel mondo, e in particolare, sulla “anomalia americana”. Un questione che aveva così incuriosito Sombart, reduce nel 1905 da un viaggio negli Stati Uniti, fino al punto di scrivervi sopra un libro, uscito nel 1906.
Se le date, e soprattutto le accelerazioni della storia, hanno un senso, si può dire, che quello che è accaduto tra il 1905 (anno della prima rivoluzione russa) e il 1975 (anno in cui gli Stati Uniti escono, e con le ossa rotte, dalla guerra vietnamita), non è ancora niente rispetto a quel che accadrà tra 1976 e il 2006: dalla caduta del comunismo all’ascesa degli Stati Uniti a unica potenza mondiale.
Perciò se oggi Sombart miracolosamente tornasse in vita non potrebbe più considerare il socialismo, come una specie di orizzonte obbligato: come il naturale prolungamento del capitalismo. Perciò la sua domanda non potrebbe più essere la stessa: perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti, dal momento che non c’è più socialismo nel resto del mondo…
In tal senso, mentre trent’anni fa, il testo sombartiano doveva essere letto avidamente dal socialista “inquieto” per tracciare il rapido identikit, di un capitalismo pericoloso, ma comunque battibile, oggi lo stesso libro deve essere divorato dal capitalista “quieto”, sicuro di sé, perché vittorioso. E che come Narciso, gode immensamente, nel guardarsi allo specchio, fornitogli un secolo fa da Sombart.
Insomma, il grande sociologo tedesco - di qui la classicità del suo studio - ci spiega, in modo indiretto, perché il capitalismo ha vinto… Anche se, si può aggiungere, per il famoso principio delle accelerazioni storiche di cui sopra, solo per il momento…
Ma veniamo al libro.
Per Sombart il capitalismo americano è una specie di spugna, capace di assorbire le menti di uomini e donne di ogni razza e cultura. In che modo? Dando a tutti la possibilità di arricchirsi. Detta così l’affermazione sombartiana può sembrare banale. Ma si deve prestare attenzione all’idea di “possibilità” : nel senso dell’essere possibile che una cosa avvenga. Ma anche, proprio perché si tratta di una possibilità, che un certa cosa non avvenga. Di più: il continuare a credervi, anche dopo un certo numero di fallimenti personali, implica una fede nel successo quasi religiosa.
Ma ascoltiamo Sombart: “Se il successo è il dio davanti al quale l’americano recita le sue preghiere, allora la sua massima aspirazione sarà quella di condurre una vita gradita al suo dio. Così, in ogni americano - a cominciare dallo strillone che vende i giornali per strada - cogliamo un’irrequietezza, una brama e una smaniosa proiezione verso l’alto e al di sopra degli altri. Non è il piacere di godere appieno della vita, non è la bella armonia di una personalità equilibrata possono dunque essere l’ideale di vita dell’americano, piuttosto questo continuo ‘andare avanti’. E di conseguenza la foga, l’incessante aspirazione, la sfrenata concorrenza in ogni campo. Infatti, quando un individuo insegue il successo deve costantemente tendere al superamento degli altri; inizia così una steeple chase, una corsa a ostacoli (…). Questa psicologia agonistica genera al suo interno il bisogno di totale libertà di movimento. Non si può individuare nella gara il proprio ideale di vita e desiderare di avere mani e piedi legati: L’esigenza del laissez faire fa parte perciò di quei dogmi o massime che (…) si incontrano inevitabilmente ‘quando si scava in profondità nello spirito del popolo americano’ ” (p. 17).
Ovviamente, Sombart colloca queste costanti psicologiche e culturali nell’alveo di una società ricca di risorse naturali lontana anni luce dal feudalesimo europeo, e le cui élite sono almeno formalmente aperte a tutti. Una società, ricca e libera, dove ogni rapporto economico e politico è affrontato in termini di interessi individuali e mai di classe. Da questo punto di vista sono molto interessanti e attuali le pagine dedicate alla posizione politica, sociale ed economica dell’operaio americano, il cui tenore di vita, già a quei tempi, nota Sombart, “lo rend[e] più simile al nostro ceto medio borghese, anziché al nostro ceto operaio” (p. 125).
Come del resto è significativo quel che viene osservato a proposito dell’appartenenza politica ai due grandi partiti “tradizionali”, il repubblicano e il democratico. Scrive Sombart: “ La natura e le caratteristiche dei grandi partiti (…), tanto la loro organizzazione esterna, quanto la loro assenza di principi, quanto ancora la loro panmixie sociale (…) influenzano nettamente le relazioni tra i partiti tradizionali e il proletariato. Innanzitutto nel senso che agevolano oltremodo l’appartenenza del proletariato a quei partiti tradizionali. Perché in essi non va vista un’organizzazione classista, un organismo che antepone specifici interessi di classe, ma un’associazione sostanzialmente indifferente che persegue fini condivisibili anche, come abbiamo potuto vedere, dai rappresentanti del proletariato (la caccia alle cariche pubbliche!)” (p. 69).
E lo stesso discorso, può essere esteso ai sindacati e alle associazioni professionali, dal momento, nota Sombart, che “ mentre da noi [in Germania] gli individui migliori e più dinamici finiscono in politica, in America, i migliori e più dinamici si dedicano alla sfera economica e nella stessa massa prevale, per la medesima ragione, una “supervalutazione dell’elemento economico: perché è seguendo questo principio che si pensa di poter raggiungere in forma piena l’obiettivo al quale si aspira”: il successo sociale. Non c’è alcun Paese, conclude Sombart, “nel quale il godimento del frutto capitalistico da parte della popolazione sia così diffuso” (p. 18).
Perciò, una volta chiuso il libro, non possono non essere chiare le ragioni della vittoria del capitalismo made in Usa su quasi tutti i fronti: ideologia del successo e individualismo concorrenziale, ma anche “fame” di consumi sociali. Curioso, su quest’ultimo punto, il vezzoso ritratto sombartiano delle operaie americane dell’epoca: “Qui l’abbigliamento, in particolare tra le ragazze, diventa semplicemente elegante: in più di una fabbrica ho visto operaie in camicette chiare, addirittura di seta bianca; quasi mai si recano in fabbrica senza il cappello” (p.126).
Siamo davanti all’ idealizzazione del capitalismo americano? Un Sombart che come Gozzano sembra rinascere non nel 1850 ma nel 1905… Non tanto, se pensiamo alle segrete cure che oggi hanno nel vestire, le impiegate e le operaie. Il modello non è più solo americano.
Allora, tutto bene quel che finisce bene? Sombart, nonostante tutto, pensava che il socialismo (magari in veste socialdemocratica) si sarebbe comunque imposto anche negli Stati Uniti. Soprattutto una volta spariti “gli spazi aperti”, come disponibilità di terre libere (il Grande Ovest), sui quali far sciamare, come liberi agricoltori, i “soldati-operai” dell’ “esercito industriale di riserva”. Infatti, secondo il sociologo tedesco, la “consapevolezza di poter diventare in qualsiasi momento un libero agricoltore” riusciva a trasformare “da attiva in passiva ogni opposizione emergente a questo sistema economico”, troncando “sul nascere ogni agitazione anticapitalistica” (p.151).
Tuttavia le terre libere sono state occupate, e il capitalismo Usa è ancora lì, più forte che mai. A meno che l’attuale frontiera americana in realtà non racchiuda ben più vasti territori. E che perciò la crescente espansione economica degli Stati Uniti (gli alti tassi di sviluppo e l’elevato tenore di vita dei suoi ceti medi) sia attualmente pagata in dollari sonanti dai paesi più deboli politicamente, ma ricchi di risorse naturali. Si pensi all’America Latina, e alle cosiddette economie “dollarodipendenti”.
Se così fosse, l’ ottimo vino sombartiano avrebbe un retrogusto amarognolo.
Quando uscì per la prima volta in Italia nel 1975 (Edizioni Etas), con una prefazione di Alessandro Cavalli, ci si interrogava ancora positivamente sulle potenzialità del socialismo nel mondo, e in particolare, sulla “anomalia americana”. Un questione che aveva così incuriosito Sombart, reduce nel 1905 da un viaggio negli Stati Uniti, fino al punto di scrivervi sopra un libro, uscito nel 1906.
Se le date, e soprattutto le accelerazioni della storia, hanno un senso, si può dire, che quello che è accaduto tra il 1905 (anno della prima rivoluzione russa) e il 1975 (anno in cui gli Stati Uniti escono, e con le ossa rotte, dalla guerra vietnamita), non è ancora niente rispetto a quel che accadrà tra 1976 e il 2006: dalla caduta del comunismo all’ascesa degli Stati Uniti a unica potenza mondiale.
Perciò se oggi Sombart miracolosamente tornasse in vita non potrebbe più considerare il socialismo, come una specie di orizzonte obbligato: come il naturale prolungamento del capitalismo. Perciò la sua domanda non potrebbe più essere la stessa: perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti, dal momento che non c’è più socialismo nel resto del mondo…
In tal senso, mentre trent’anni fa, il testo sombartiano doveva essere letto avidamente dal socialista “inquieto” per tracciare il rapido identikit, di un capitalismo pericoloso, ma comunque battibile, oggi lo stesso libro deve essere divorato dal capitalista “quieto”, sicuro di sé, perché vittorioso. E che come Narciso, gode immensamente, nel guardarsi allo specchio, fornitogli un secolo fa da Sombart.
Insomma, il grande sociologo tedesco - di qui la classicità del suo studio - ci spiega, in modo indiretto, perché il capitalismo ha vinto… Anche se, si può aggiungere, per il famoso principio delle accelerazioni storiche di cui sopra, solo per il momento…
Ma veniamo al libro.
Per Sombart il capitalismo americano è una specie di spugna, capace di assorbire le menti di uomini e donne di ogni razza e cultura. In che modo? Dando a tutti la possibilità di arricchirsi. Detta così l’affermazione sombartiana può sembrare banale. Ma si deve prestare attenzione all’idea di “possibilità” : nel senso dell’essere possibile che una cosa avvenga. Ma anche, proprio perché si tratta di una possibilità, che un certa cosa non avvenga. Di più: il continuare a credervi, anche dopo un certo numero di fallimenti personali, implica una fede nel successo quasi religiosa.
Ma ascoltiamo Sombart: “Se il successo è il dio davanti al quale l’americano recita le sue preghiere, allora la sua massima aspirazione sarà quella di condurre una vita gradita al suo dio. Così, in ogni americano - a cominciare dallo strillone che vende i giornali per strada - cogliamo un’irrequietezza, una brama e una smaniosa proiezione verso l’alto e al di sopra degli altri. Non è il piacere di godere appieno della vita, non è la bella armonia di una personalità equilibrata possono dunque essere l’ideale di vita dell’americano, piuttosto questo continuo ‘andare avanti’. E di conseguenza la foga, l’incessante aspirazione, la sfrenata concorrenza in ogni campo. Infatti, quando un individuo insegue il successo deve costantemente tendere al superamento degli altri; inizia così una steeple chase, una corsa a ostacoli (…). Questa psicologia agonistica genera al suo interno il bisogno di totale libertà di movimento. Non si può individuare nella gara il proprio ideale di vita e desiderare di avere mani e piedi legati: L’esigenza del laissez faire fa parte perciò di quei dogmi o massime che (…) si incontrano inevitabilmente ‘quando si scava in profondità nello spirito del popolo americano’ ” (p. 17).
Ovviamente, Sombart colloca queste costanti psicologiche e culturali nell’alveo di una società ricca di risorse naturali lontana anni luce dal feudalesimo europeo, e le cui élite sono almeno formalmente aperte a tutti. Una società, ricca e libera, dove ogni rapporto economico e politico è affrontato in termini di interessi individuali e mai di classe. Da questo punto di vista sono molto interessanti e attuali le pagine dedicate alla posizione politica, sociale ed economica dell’operaio americano, il cui tenore di vita, già a quei tempi, nota Sombart, “lo rend[e] più simile al nostro ceto medio borghese, anziché al nostro ceto operaio” (p. 125).
Come del resto è significativo quel che viene osservato a proposito dell’appartenenza politica ai due grandi partiti “tradizionali”, il repubblicano e il democratico. Scrive Sombart: “ La natura e le caratteristiche dei grandi partiti (…), tanto la loro organizzazione esterna, quanto la loro assenza di principi, quanto ancora la loro panmixie sociale (…) influenzano nettamente le relazioni tra i partiti tradizionali e il proletariato. Innanzitutto nel senso che agevolano oltremodo l’appartenenza del proletariato a quei partiti tradizionali. Perché in essi non va vista un’organizzazione classista, un organismo che antepone specifici interessi di classe, ma un’associazione sostanzialmente indifferente che persegue fini condivisibili anche, come abbiamo potuto vedere, dai rappresentanti del proletariato (la caccia alle cariche pubbliche!)” (p. 69).
E lo stesso discorso, può essere esteso ai sindacati e alle associazioni professionali, dal momento, nota Sombart, che “ mentre da noi [in Germania] gli individui migliori e più dinamici finiscono in politica, in America, i migliori e più dinamici si dedicano alla sfera economica e nella stessa massa prevale, per la medesima ragione, una “supervalutazione dell’elemento economico: perché è seguendo questo principio che si pensa di poter raggiungere in forma piena l’obiettivo al quale si aspira”: il successo sociale. Non c’è alcun Paese, conclude Sombart, “nel quale il godimento del frutto capitalistico da parte della popolazione sia così diffuso” (p. 18).
Perciò, una volta chiuso il libro, non possono non essere chiare le ragioni della vittoria del capitalismo made in Usa su quasi tutti i fronti: ideologia del successo e individualismo concorrenziale, ma anche “fame” di consumi sociali. Curioso, su quest’ultimo punto, il vezzoso ritratto sombartiano delle operaie americane dell’epoca: “Qui l’abbigliamento, in particolare tra le ragazze, diventa semplicemente elegante: in più di una fabbrica ho visto operaie in camicette chiare, addirittura di seta bianca; quasi mai si recano in fabbrica senza il cappello” (p.126).
Siamo davanti all’ idealizzazione del capitalismo americano? Un Sombart che come Gozzano sembra rinascere non nel 1850 ma nel 1905… Non tanto, se pensiamo alle segrete cure che oggi hanno nel vestire, le impiegate e le operaie. Il modello non è più solo americano.
Allora, tutto bene quel che finisce bene? Sombart, nonostante tutto, pensava che il socialismo (magari in veste socialdemocratica) si sarebbe comunque imposto anche negli Stati Uniti. Soprattutto una volta spariti “gli spazi aperti”, come disponibilità di terre libere (il Grande Ovest), sui quali far sciamare, come liberi agricoltori, i “soldati-operai” dell’ “esercito industriale di riserva”. Infatti, secondo il sociologo tedesco, la “consapevolezza di poter diventare in qualsiasi momento un libero agricoltore” riusciva a trasformare “da attiva in passiva ogni opposizione emergente a questo sistema economico”, troncando “sul nascere ogni agitazione anticapitalistica” (p.151).
Tuttavia le terre libere sono state occupate, e il capitalismo Usa è ancora lì, più forte che mai. A meno che l’attuale frontiera americana in realtà non racchiuda ben più vasti territori. E che perciò la crescente espansione economica degli Stati Uniti (gli alti tassi di sviluppo e l’elevato tenore di vita dei suoi ceti medi) sia attualmente pagata in dollari sonanti dai paesi più deboli politicamente, ma ricchi di risorse naturali. Si pensi all’America Latina, e alle cosiddette economie “dollarodipendenti”.
Se così fosse, l’ ottimo vino sombartiano avrebbe un retrogusto amarognolo.